Mr. Me


Recensione a M. Evangelista, Mr. Me, Arcipelago Itaca, Osimo 2022, Euro 12.50

Nell’accostarmi a Mr. Me di Maurizio Evangelista, subito il pensiero, pur nell’enorme diversità delle opere, è corso all’Hotel Surfanta del geniale pittore Lorenzo Alessandri e alle sue camere, teatro di visioni ora grottesche ora angosciose ora perfino liberatorie.

La fictio alla base della raccolta di Evangelista è quella di un hotel, come rivela in limine la lirica CHECK-IN. In esso figura una serie di stanze, che a ben vedere rappresentano porte dell’anima. Un’anima plurima che si riflette empaticamente in molteplici vite, in un moto di spossessamento del Sé e di appropriazione dell’altro che assurge a imprescindibile momento conoscitivo. È questo procedimento a costituire il primum movens della poesia di Evangelista. Scaturisce così la figura di Mr. Me che – come ha ben evidenziato Alessio Alessandrini – è “uomo e donna, è padre e madre, è amato e amante, è vergine e madonna, prostituta e premaman”. Mr. Me pare pertanto rappresentare un alter ego dell’autore stesso: un alter ego che, compenetrandosi nelle vite altrui, scopre sé stesso, dando voce nei suoi versi alla bellezza straniante la quale rifulge anche nelle miserie dell’esistere.

E le vite che sceglie di rappresentare, di cui si appropria cambiando faccia di stanza in stanza, sono vite non di rado all’insegna della distonia e dell’alienazione. V’è l’esistenza grigia dell’uomo che legge le avventure di Jane Marple e in esse dà movimento al suo vivere statico, nella perenne attesa di un cambiamento destinato forse – direi quasi certamente – a non avvenire: “si vede già in un albergo di Londra / con indosso una vestaglia rossa // in cerca di una governante / che gli cambi le lenzuola / e la sua vita per sempre”. C’è il sesso consumato quale rituale logoro e stantio, spesso mercenario; in esso emerge il contrasto, che finisce col diventare simbiosi, tra bellezza e degrado: si pensi allo sgraziato incontro tra la figura che si accosta a Jessica Lange e “il più grosso grasso gorilla” (“lui è King Kong a Manhattan”), momento che peraltro potrebbe anche soltanto appartenere alla fantasia del degradato “protagonista” maschile. A tal proposito si potrebbero rilevare due elementi tipici di Mr. Me. Il primo è la memoria cinematografica, cara a Evangelista: ecco che affiorano in altri testi Norma Jean Baker, vero e proprio mito di molte generazioni, e l’icona della “gioventù bruciata”, l’indimenticato James Dean: “alle ragazze sorrido / come fossi James Dean”, si legge in Stanza 119. Di fatto, le voci che dicono “io” e si assimilano, il più delle volte peraltro per contrasto, nelle liriche a tali attori e attrici (o li evocano) finiscono con lo sperimentarne più che altro la solitudine. Il secondo aspetto che si voleva rilevare è il camaleontismo della scrittura. Essa può virare verso le altezze del lirismo o sublimarsi nei surreali metamorfismi di Stanza 221 (a nostro avviso i versi più belli della raccolta: “mio fratello ha i miei anni / e mi prende per mano e mi dice, / sono più grande di te // come l’erba alta un dito. // non gli credo // e strappo via tutta l’erba / scavo un buco profondo / ci metto i piedi dentro. // e lui mi pianta e mi dice, sei più grande tu adesso // e mi sale sulle spalle e continua a crescere”). Non di rado, allo stesso tempo, essa si volge al parlato, recuperandone anche gerghi grossolani (“è solo il più grosso grasso gorilla / di danza classica / che si tocca la sacca che ondeggia le braccia / con gli occhiali da sole”, Stanza 111), peraltro in perfetta corrispondenza con la sgradevolezza e la bassura della materia che si sta affrontando. In altri casi, questa volta più per il prevalere dell’intenzione affettiva dell’espressione che per volontà mimetica, affiorano i solecismi del parlato regionale (“esci fuori il servizio di porcellana” verso la madre della Stanza 227). Il linguaggio, com’è giusto che avvenga, è dunque di volta in volta adeguato ai contesti.

Emerge in Mr. Me un disperato e al contempo speranzoso bisogno d’amore: un desiderio di padri quali figure di riferimento ma anche di paternità, una paternità che valica il limite biologico e diviene stato di grazia del cuore. Un riconoscersi nell’altro, un incontro di distonie che improvvisamente si muta in sintonia, nella ricerca perenne dell’impossibile felicità. Si pensi a un altro dei testi più riusciti, Stanza 319: “in una foto del duemiladiciassette / siamo al centro dell’East River io e te / a toccare le stelle americane. // ricordo di aver detto, sorridi / così sarà per sempre // e quanti come te sorridevano. // se non cercheremo più questa foto /se qualcun altro ci troverà per noi / saremo ancora felici // e lo saremo per tutta la vita degli altri”.

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