Più donne che uomini.


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Recensione di I. Compton Burnett, Più donne che uomini, Fazi, Roma 2019, trad. it. di S. Tummolini, euro 19.
Meritoria l’operazione compiuta dalla case editrice Fazi attraverso la pubblicazione della traduzione italiana (opera di Tummolini) di More Women Than Men, corrosivo romanzo della scrittrice britannica, Ivy Compton Burnett, risalente al 1933 e precedentemente edito in Italia (da Longanesi e Guanda) nella versione di Orsola Nemi.
L’opera introduce un tema caro all’autrice, quello della prigione familiare, realtà spesso ingabbiante, caratterizzata da rapporti all’insegna del dispotismo e di menzogne o mezze verità atte a tenere in piedi un equilibrio precario. A tale visione corrosiva di quella che dovrebbe essere una dimensione quietante si affianca una lucida consapevolezza delle finzioni dominanti i rapporti sociali, proiettate in un microcosmo claustrofobico, quello di un istituto femminile d’inizio Novecento. Elemento interessante e direi piuttosto originale la quasi totale assenza delle allieve dalla scena e la focalizzazione dell’indagine psicologica sulle insegnanti e, in particolar modo, sulla direttrice Josephine Napier, protagonista di un’opera connotata da notevole coralità.
Numerosi i personaggi che si contendono la scena, da Josephine alla livorosa governante Elizabeth, con la figlia Ruth – che si porrà in competizione con la Napier, ma finirà schiacciata da una natura e da una tempra debole – sino all’enigmatica, pressoché sfingea, insegnante di lingue Maria Rossetti. Gli uomini non mancano, ma appaiono più che altro deboli comprimari, incapaci di acquisire un’identità propria e conforme al modello tradizionale di virilità. Gabriel, figliastro di Josephine, vive tutto nei personaggi femminili cui si rapporta e che lo modellano; Jonathan appare incapace di qualunque assunzione di responsabilità; Simon vive all’ombra della moglie direttrice, salvo a tratti entrare nell’orbita di Elizabeth. Felix Baron è sicuramente il personaggio più interessante. L’omosessualità lo avvicina alla quotidianità di Jonathan; l’angoscia dell’influenza lo induce a voler edipicamente sopprimere dal proprio orizzonte la figura paterna, introiettando modelli femminili. Così si spiega la sua volontà di svolgere quello che era considerato un mestiere tipico della donna, in un contesto istituzionale, tra l’altro, dominato dal gentil sesso. Sarà la perdita del genitore a indurlo alla transizione esistenziale, con l’abbandono dell’orientamento per l’epoca trasgressivo e la scelta dell’adeguamento al Super Io paterno attraverso il matrimonio. Quest’ultimo sembra configurarsi spesso quale scelta conformistica e, paradossalmente, il romanzo, a nostro avviso, sancisce lo scacco di quel coniugium che invece parrebbe nascere all’insegna del sentimento.
Sono molti i nodi concettuali che l’opera offre alla riflessione. Attualissima, sebbene ovviamente da contestualizzare, è la meditazione sul valore dell’insegnamento. Nell’Inghilterra dei primi del Novecento esso appare generalmente visto dai personaggi come effetto della declassazione del ruolo dell’intellettuale. In particolar modo, a essere sminuito è l’insegnamento rivolto al genere femminile, proprio perché i membri della upper class sembravano ancora concepirlo come finalizzato a rendere le giovinette in grado di adeguarsi agli standard di un decoroso intrattenimento in società. Diversa però è l’ottica della Napier, che attribuisce all’arte della didattica valore altissimo e consacra la sua esistenza a una missione cui coloro che la circondano non paiono attribuire la medesima centralità.
Ciò che più colpisce è la costruzione dei dialoghi. Nella prima sezione dell’opera scorrono spesso all’insegna del luogo comune, perpetrato con mera funzione fatica, o di meditazioni astratte o ancora legate al contesto sociale. In realtà il non detto esercita pressione sotto la superficie e i contrasti esploderanno nella seconda parte. Eppure quella tendenza alla divagazione rimarrà ancora viva, quasi che essa possa divenire salvifica, nel momento in cui il magma del flusso vitale sembra voler venire alla luce in maniera distruttiva. Eppure qualcosa rimane, come evidenzia il riferimento finale all’agata “dura e lucente”. Un desiderio di persistenza, di ricomposizione delle maschere ammaccate, necessario per continuare a vivere.

Leggendo La famiglia Aubrey


Recensione a R. West, LA FAMIGLIA AUBREY, traduzione di F. Frigerio, Roma, Fazi, 2018.
La famiglia di Piers e Clare Aubrey sembra irridere il conformismo londinese di fine Ottocento. La donna, pianista che non ha perseguito la carriera cui avrebbe potuto aspirare, appare piuttosto trasandata e, a tratti, sembrerebbe astratta rispetto ai pensieri e alle opinioni della gente comune; l’uomo, irlandese, giornalista fascinoso, è del tutto inaffidabile. La mania per il gioco lo induce a indebitarsi continuamente, sino a impegnare, senza dir nulla alla moglie, i mobili della zia Clara e ad allontanare, con il suo comportamento, tutti gli ammiratori del suo raffinato intelletto. La vita di questa famiglia è narrata, con sguardo lucido e umoristico, da una delle figlie, Rose, nel bellissimo romanzo di Rebecca West (titolo originale, The fountain overflows), recentemente ripubblicato dall’editore romano Fazi, nella traduzione di Francesca Frigerio.
Nell’opera è chiaramente ravvisabile una componente autobiografica; come si può leggere in West’s world di Lorna Gibb, il padre di Dame Rebecca West (o, se si preferisce, Cicely Isabel Fairfield, 1893-1982), Charles, giornalista, era davvero affetto da gambling mania e arrivò effettivamente a vendere persino “one of the last heirlooms, a family portrait”. Chi abbia già gustato La famiglia Aubrey non potrà non cogliere, seppure con declinazione diversa, una chiara allusione a tale vicenda familiare nel corpo dell’opera. Nonostante l’inaffidabilità dell’uomo, ricorda la Gibb, egli godeva di un undeniable charm, che, nonostante tutto, conferì al suo ricordo una patina di romanticismo (a kind of romantic veneer). Anche il personaggio di Clare sembra modellato sulla madre Isabella, scozzese, e tratti autobiografici, che rinviano alla sorella maggiore Letty, si possono ravvisare in Cordelia.
Al di là di tali osservazioni, sono molto interessanti le letture che dell’opera hanno dato Ann Norton e Cheryl A. Wilson. La prima ha parlato di “paradoxical feminism”, perché la West, pur evidenziando i limiti del patriarcalismo della cultura occidentale, tradisce una sorprendente fede in essa e soprattutto il desiderio del ripristino di un’effettiva “male dominance”, impossibile in virtù delle caratteristiche negative che connotano le figure dei padri: l’ondivago Piers, il cinico cugino Jock, lo svagato e insopportabile Mr. Phillips. Non è un caso che, dopo la fuga del padre, Rose sia colta da un desiderio lacerante di lui, di saperlo intento a leggere nel regno del suo studio.
La Wilson, invece, ha sondato il legame tra femminilità ed elemento performativo, che nell’opera è effettivamente un nodo fondamentale. Infatti, il critico cita la sequenza della festa in casa Phillips, con le esibizioni di tutte le ragazzine (nella danza, nella recitazione o nella musica) e Rose che rifiuta di suonare il piano e improvvisa un gioco di lettura del pensiero. La musica è l’elemento dominante nella Famiglia Aubrey, ma la West respinge l’idea dello strumento come traghettatore delle giovani verso il ruolo di aggraziate dispensatrici di svago signorile. Infatti, Cordelia, dal nome non casualmente shakespeariano, è l’unica figura in cui si esalti l’aspetto di performer, proprio perché priva di reale talento. Per gli altri personaggi, a cominciare da Clare, la musica ha un valore sacro. Lo studio che li indurrà a trascorrere ore per perfezionarsi nell’esecuzione di pezzi, che solo da adulti (in quanto musicisti di professione, non amatoriali) faranno ascoltare al mondo esterno, aiuterà quei fanciulli a superare le forche caudine di un’infanzia poverissima, eppure magica grazie alla musica (e direi alla madre, musica ella stessa).
Un romanzo di una forza notevole. Apre scenari di riflessione sul futuro dell’Europa (il pamphlet pessimistico di Piers) che, salutati come deliranti da Pennington, si riveleranno tragicamente profetici; offre le coordinate per la lettura di un’epoca, anche attraverso i suoi personaggi emblematici, quali il ladro e assassino Charles Peace o il giudice Justice Lopes. Pennella, con impagabile umorismo, personaggi che si imprimono nella memoria, come Clare, con i suoi sofismi geniali dall’apparenza di idiozia, descritti con impietosa pietas da Rose, che scruta il mondo dalle specole misteriose della musica e della letteratura. E non cede al garbuglio del dolore.