Da duemila anni


Recensione a M. Sebastian, Da duemila anni, trad. italiana di M.L. Lombardo, Fazi, Roma 2018.
“se potessi superare duemila anni di talmudismo e melanconia, se potessi avere ancora, supponendo che qualcuno della mia stirpe ce l’abbia mai avuta, la limpida gioia di vivere…”
Nella Romania degli anni Venti, il montare dell’antisemitismo induce a vere e proprie persecuzioni degli studenti universitari di origine ebraica a Bucarest. Lo stesso io narrante, alter ego di Mihail Sebastian, è da alcuni colleghi allontanato brutalmente dalle lezioni. I giovani ebrei cercano di far fronte comune, alcuni rivendicano orgogliosamente ogni ferita rimediata, quasi in virtù di un’atavica vocazione al dolore e al martirio. Il protagonista, invece, si dibatte in una profonda crisi interiore, che l’induce a registrare, alla luce del pensiero di Montaigne, ogni declinazione di questo profondo senso di inquietudine, in un diario da cui negli anni successivi prenderà le distanze. Ne nasce un’analisi lucida della condizione ebraica, delle ragioni ‘metafisiche’ che hanno portato all’odio feroce verso questo popolo e che si sono ammantate ora di motivazioni religiose ora di rivendicazioni economiche.
Decisivo, nella vita del protagonista, sarà l’incontro con il docente Ghiţă Blidaru (presumibilmente ispirato a Nae Ionescu, prefatore dell’opera, pubblicata nel 1934 in romeno). Il vitalismo di quest’uomo lo spingerà a “tentare il salto”, passando alla facoltà di architettura, bilanciando la sua ipertrofia intellettuale con la scoperta del “sentimento di servire la terra, la pietra, il ferro”. Modellando la plastilina, il giovane avvertirà un senso inesplicabile di libertà. Il diario, pur negato, prosegue snodandosi in sei sezioni che vedono l’io narrante (o dovrei dire l’io lirico?) partecipare ai lavori per la costruzione dei pozzi di Rice a Uioara, trascorrere un periodo della sua vita a Parigi (proprio come accaduto a Sebastian, che però operò nel settore giuridico e nella critica letteraria) e, infine, dedicarsi alla costruzione della villa di Blidaru a Snagov. Così, mentre la Romania arde per l’incendio dell’ascesa della Guardia di Ferro, braccio armato del fascismo romeno di Codreanu, l’uomo, ora impegnato in una lotta dialettica contro i suoi interlocutori di sempre, contagiati dal clima antisemita, si impegnerà a realizzare qualcosa di concreto, che radichi alla vita. “Avrò qualcosa da offrire a questo incendio”, afferma la voce narrante alla fine della quinta parte.
Un libro straordinario, che nel 1934 suscitò scandalo, sia per la prefazione di Ionescu, “in sostanza un vero e proprio libello dell’antisemitismo”, come afferma Mauro Barindi, sia perché l’opera mostrava i lati oscuri della società romena, squadernando i peggiori istinti antiebraici che vi albergavano.
Il romanzo, dallo stile limpido, di una bellezza cristallina, lascia il segno. Rientra tecnicamente nella cosiddetta narrativa artificiale, ma brulica di autobiografia e verità storica. Dietro ogni personaggio, gli studiosi hanno individuato concreti attori dell’esistenza di Sebastian, stroncata nel 1945 da un’incidente, pochi mesi dopo la reintegrazione nel ruolo di docente presso l’Università di Bucarest.
Gli snodi concettuali sono notevoli. Interessante la difesa della fisiocrazia da parte del professor Blidaru: per quanto romantica e inattuale essa possa essere, si rivela “un’idea contadina, un’idea semplice della vita, un’idea che scaturisce dalla biologia”, forse una paradossale possibilità di salvezza. La figura di Sami Winkler consente di riflettere sul fenomeno del sionismo, con i suoi fautori (Berl Wolf, con il suo emblematico invito a cantare) e i suoi detrattori (le obiezioni concrete del marxista S.T. Haim), altro personaggio chiave. Poi che dire di Maurice Buret, che osserva gli uomini come creature da acquario, e dell’affare di Uioara, che genera il conflitto tra Blidaru e l’architetto Mircea Vieru, maestro del protagonista. La guerra dei pozzi contro i pruni, di un principio astratto contro la Vita, per Blidaru unico valore. Ne scaturisce la domanda se l’uomo, “con la sua azione individuale, possa intervenire nel processo latente delle forze della vita collettiva per modificarle, imponendo loro un obiettivo a esse estraneo, per quanto superiore questo sia”. Non a caso, the New York Times Review Books ha posto l’accento sull’attualità di quest’opera. Nel corpo del romanzo si evincono gli effetti della crisi del 1929 – si considerino, per esempio, i riferimenti ad Albert Oustric –, con il suo portato nefando, che ha incancrenito situazioni già da tempo in atto. Molti personaggi, come la Vally simile a Louise Brooks, si muovono quasi assopiti in un’oscura indifferenza, che in realtà è riflesso di un disagio profondo. Eppure quest’indifferenza finisce col trascinare tutto e tutti verso gli orrori di una storia che tutti conosciamo e forse troppo dimentichiamo.
Emozionanti le pagine finali in cui il protagonista, senza rinnegare il suo essere ebreo, si dichiara anche, a dispetto di tutti, romeno e uomo del Danubio, cose che gli “appartengono non giuridicamente e in astratto”, “bensì fisicamente, in virtù dei ricordi, delle gioie e delle tristezze”. Il congedo è straordinario, con il saluto alla casa di Snagov, ora ultimata. “Sei ciò che ho sempre sognato di essere”, scriverà il suo creatore, “una cosa semplice, pura e serena, con il cuore pronto ad accogliere ogni stagione”.