Il pianto dell’alba


M. De Giovanni, Il pianto dell’alba. Ultima ombra per il commissario Ricciardi, Einaudi, Torino, 2019.

Il pianto dell’alba di Maurizio De Giovanni è un’ulteriore riprova (il Giano bifronte critico ne sta segnalando diverse) di come ormai le barriere tra letteratura alta e letteratura di genere siano quanto mai labili e di quanto il giallo, con il motivo dell’inchiesta di senso, sia sempre più uno strumento per indagare il reale, campo d’azione per ottime prove di scrittura.

Il pianto dell’alba è l’ultima, struggente, avventura del commissario Ricciardi, alla quale si riannoda l’intero ciclo del barone di Malomonte. Frequenti risultano pertanto i riferimenti alle indagini precedenti, allusioni che peraltro non inficiano la comprensione dello svolgimento delle vicende, perché l’opera può essere letta a sé, senza cognizione dei precedenti capitoli della serie.

L’ultima ‘ombra’ perché ipostasi della sua capacità di rivelare le condizioni che hanno condotto alla morte di un individuo è il funesto dono di Luigi Alfredo Ricciardi: vedere le anime in trapasso e raccoglierne l’ultimo pensiero. Dolore che si raggruma negli occhi verdi del barone, eredità della fragile figura materna e retaggio che l’uomo teme di consegnare all’erede (Nelide, la governante, è convinta sia femmina) che la sposa Enrica è in procinto di donargli.

Così, mentre si approssimano i giorni del parto, Ricciardi si trova coinvolto in un’indagine non autorizzata, per salvare Livia, ex cantante lirica ancora innamorata di lui, dalla falsa accusa di aver assassinato Il maggiore Manfred Kaspar von Brauchitsch, vecchia ‘conoscenza’ di Luigi Alfredo e di sua moglie. Spetterà a lui tentare di sventare le manovre del crudele Falco, nel contesto delle ripercussioni in Italia della tragica faida tra SA e direttivo nazionalsocialista e con lo spettro del confino fascista sempre incombente. Ad aiutarlo Bruno Modo, medico idealista e coraggioso, il brigadiere Maione – che si avvarrà delle informazioni del femminiello Bambinella –, la contessa Bianca Borgati di Roccaspina (anche lei innamorata del barone), la già citata Nelide e un accolita di giusti, sprezzanti del rischio connesso all’indagine. Tutto questo, mentre apparizioni di spiriti e oscuri presagi sembrano preannunciare un futuro sinistro.

Si legge d’un fiato, lo stile è limpido ed elegante, le figure sono molto ben caratterizzate, anche nelle articolazioni più paradossali (si veda la passione del bellissimo ambulante Tanino, che pareva uscito da un acquerello, per la non avvenente Nelide). La governante, senz’altro, appare una delle figure meglio connotate, nelle sue idiosincrasie, ma anche nei suoi trasalimenti; bella la frequente focalizzazione su Enrica, polo statico, insieme alla creatura nel suo grembo, verso cui il dinamismo inquieto di Ricciardi tende. Un’aura di tragedia aleggia sull’intera opera, da un lato avvolgendola in un cupo fatalismo, acuito da ricordi strazianti, ma dall’altro non facendo mai venir meno l’idea che l’uomo debba operare ai fini del bene, anche in una società degradata. Infatti, a connotare d’un’atmosfera cupa quest’investigazione nel torrido luglio napoletano è soprattutto la consapevolezza della corruzione che domina le gerarchie fasciste e che alimenta stolidi personalismi e la deriva morale. Eppure, nonostante questo pervasivo senso del fato avverso e nonostante il buio di un’epoca tremenda della storia d’Italia, la leggerezza dell’ironia, continuamente esercitata, lo stupore al cospetto della vita, vivido negli occhi neri e dolci di Enrica, lasciano aperta la speranza che il “primo pianto” accolto dall’alba non debba necessariamente essere espressione soltanto di immedicabile dolore.

La vendetta di Oreste


Recensione a G. Ricciardi, La vendetta di Oreste, collana Darkside, editore Fazi, Roma, 2019, Euro 16.

La vendetta di Oreste di Giovanni Ricciardi è un ottimo esempio di come il giallo possa valicare le caratteristiche della letteratura di genere e diventare un valido strumento d’indagine storica e di riflessione sul destino e sulla natura dell’uomo.

Ciò poi può avvenire facilmente se a condurci nei meandri della detection è un romanziere colto come Ricciardi, docente di latino e greco in un liceo romano, amante, nella migliore tradizione classica, dell’arte allusiva. Quella che, nel bel mezzo di un’indagine, ti innesta le parole usate da Eugenio Montale per dar voce all’ossessione del varco, che nei Limoni era evocata nell’ansia di “scoprire uno sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità”. Quando si dice, a fine cap. IV, che “Il vecchio Oreste non si riprese mai e se ne andò, come gli uomini che non si voltano, col suo segreto”, il lettore percepisce chiaramente la citazione di Forse un mattino andando e coglie come, dietro ogni investigazione, si celi ben più che il tentativo di sbrogliare un gaddiano “garbuglio”. In gioco è il senso stesso dell’esistere e dell’agire di ogni essere umano.

La vicenda prende le mosse dalla morte dell’anziano Oreste, che vorrebbe rivelare, prima dell’ultimo viaggio, qualcosa di importante al commissario Ponzetti, amico di famiglia. L’uomo spira prima di poterlo fare; anni dopo, rovistando tra le cose del padre in cerca di un quadro di valore (apparentemente scomparso), il figlio Marco trova, in una cassaforte, una pistola risalente alla seconda guerra mondiale e l’appassionata lettera di una donna, indirizzata a un misterioso Ulisse. Deciso a scoprire qualcosa di più sul segreto nascosto da Oreste, Marco chiede l’aiuto di Ponzetti, che coinvolgerà nell’indagine la propria figlia neolaureata in lettere, Maria, e l’ispettore Iannotta. Un’indagine, dunque, non intrapresa per scoprire la verità sull’uccisione di un uomo, ma per compiere un percorso a ritroso nella memoria e ricostruirne la vita.

Il ritmo è agile, spesso brillante; concorrono a tale effetto molteplici fattori, come, per esempio, gli inserti di romanesco del pittoresco Iannotta o arguzie quali questa del cognato del commissario, lo spagnolo Jorge: «mejor un funeral que un padre precario y jobsact». Gradualmente, il lettore entra a contatto con una tragedia collettiva spesso ignorata, “il dramma, a lungo taciuto, dell’esodo istriano e dei profughi giuliano-dalmati”. Rivive così la vicenda della città di Pola, con il caso di Maria Pasquinelli, l’insegnante italiana che, in segno di protesta per l’assegnazione della città alla Jugoslavia, il 10 febbraio 1947, uccise il generale Robert de Winton. In un felice intreccio di microstoria e macrostoria, il commissario viene a conoscenza dell’azione della figura di don Giulio Facibeni, fondatore dell’Opera, di carattere caritativo, della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa.

Per non parlare degli echi classici… Nella ricostruzione del legame tra Oreste Zarotti e il geniale studente dell’istituto tecnico per geometri Ulisse Visentin, più volte vincitore della tenzone dantesca, si scoprono molteplici fattori allusivi. Non a caso, nella funesta saga degli Atridi, Oreste è deputato a vendicare l’uccisione del padre Agamennone (Pirandello se ne servirà, ponendolo a confronto con Amleto, per esplicare la differenza tra l’eroe classico e l’eroe moderno). Oreste vive anche nel legame fraterno con Elettra e nell’amicizia, proverbiale, con Pilade. E infatti Ricciardi, per spiegare il rapporto che idealmente si viene a creare tra Ponzetti e il defunto Oreste, richiama l’“Ego sum Orestes” di una tragedia pacuviana, pronunciato nel topico momento in cui Pilade si finge l’amico per salvarlo e l’Atride vorrebbe impedire questo sacrificio. Versi che Dante aveva ripreso nel canto XIII del Purgatorio e anche questo non è casuale, perché la memoria dantesca gioca un ruolo non secondario nel plot. Vendetta e amicizia sono due motivi fondamentali nel romanzo; è proprio un senso di sodalità, che supera il dato strettamente biografico, a congiungere gli attori di quest’inchiesta corale. Superfluo parlare dell’immaginario legato alla figura di Ulisse, emblema del viaggiatore “bello di fama e di sventura” per eccellenza. 

Insomma, un giallo colto, ma tutt’altro che di difficile fruizione. Il lettore si appassiona sin dalle prime battute ed è irretito dall’intreccio sapientemente ordito da Ricciardi. E, al termine di un accattivante, a tratti struggente, itinerario nella storia individuale e collettiva, finisce col lasciarsi persuadere che la miglior vendetta sia quella che non viene consumata.