Pandemie e altre poesie civili


Recensione a G. Langella, Pandemie e altre poesie civili, Mursia, Milano 2022, Euro 15.

Sfocia ogni crisi in una pandemia: / questa è la legge del mondo globale, / il tempo del realismo terminale”. Si conclude così il primo testo, dedicato a Guido Oldani, della silloge di Giuseppe Langella dal titolo Pandemie e altre poesie civili.

L’espressione ‘pandemie’ è un chiaro richiamo al pamphlet del 2010 con cui Oldani formulò la poetica del Realismo Terminale. In esso, Oldani, prendendo atto della montante tendenza all’accatastamento, evidenziava come le metropoli si siano trasformate in “pandemie abitative”. Questo concetto, nella prospettiva di Langella, che insieme a Oldani e alla compianta Salibra è stato tra i fondatori nel 2014 del Movimento Realismo Terminale, finisce col rinsaldarsi con l’icona del morbo che, “nato (…) in pancia alla Cina”, si è reso artefice di una “strage d’innocenti”. Pandemie abitative e contagio si fondono in un’intensa rappresentazione che, dalle “Cronache della barbarie” muove all’apostrofe ai “Fratelli tutti, gli ultimi i primi”, in quella che Oldani (curatore della Collana Argani, in cui il volume è uscito) ha definito “Una Spoon River dell’anima mundi (…), un nocciolo del mondo che, respirando, trapana il pianeta per intero”.

L’arma di cui Langella si serve è quella, affilata, dell’ironia. La sua poesia civile si inscrive in una tradizione satirica che trova nel Giuseppe Giusti del Brindisi di Girella con le sue maschere, ma anche in Carlo Porta e nel Brecht del Die Moritat alcuni dei suoi più illustri ascendenti. Langella ha al suo arco uno sguardo acuto sulla realtà contemporanea e un solido possesso della tradizione letteraria, rimodulata e posta al servizio di un’impietosa rappresentazione del presente.

Il tribunale dell’Ironia passa in rassegna la decadenza dell’istituto parlamentare e, in Disonorevoli, lo fa recuperando uno dei celebri cori del Conte di Carmagnola, “S’ode a destra uno squillo di tromba; / A sinistra risponde uno squillo”. La riscrittura straniante, nel rispetto del decasillabo, assume queste movenze: “S’ode a destra uno slogan di fronda, / gli fa eco, dal centro, un insulto”. L’imbastardimento del dibattito politico è così evidenziato, nella sua precipitazione a bagarre, anche per effetto del recupero di una tradizione alta, che alludeva ai tragici conflitti interni alla nostra penisola, ora degradati a un bieco teatrino della corruzione, in cui il Danaro è sovrano. Non è casuale che una sezione abbia un titolo, Money, money, money, che, vuoi alluda al brano degli Abba o – più probabilmente – al pezzo di bravura di Liza Minnelli e Joel Grey in Cabaret, finisce col disvelare il vero motore delle vicende del mondo. La tradizione affiora costantemente, ma sempre con discrezione. Si va dalle dostoevskijane Memorie dal sottosuolo, in cui la terra assurge a dantesca Città di Dite (e dantesche sono le “terzine ecologiche” immediatamente successive), al Lorenzo de’ Medici de L’altalena, in cui le borse sono assimilate a “tempio dei bidoni”, perché i milioni “vanno in fumo” “neanche fossero monnezza”. È tra l’altro da notare come, in quest’alternanza di novenari e ottonari, il verso di tradizione sia dissacrato anche per effetto della rima con un termine di derivazione regionale quale “monnezza”. Quanto all’influsso dantesco, e ancor prima comico-realistico, esso si avverte, per esempio, nella ricerca di un lessico dell’asprezza, di suoni e immagini dure quali quelle di Xenofobi: “ma dentro quali cessi sporchi / domani spurgherà la tabe / della rancura verso quelli / di fuori, che corrode i cuori / e in pompe d’odio li sfigura?”. Del resto “rancura” è dantesco (Pg., X, 133), così come lo è la rima scorza/forza (Pg., XXXII, 113-115) di La pentola a pressione; rima che, guarda caso, apparteneva a uno dei momenti più visionari del poema, quello che si concludeva con il carro mostruoso della Chiesa traviata che entrava nella selva.

Langella è molto attento ai valori del ritmo e anche all’uso della rima. Essa è quasi sempre adottata in straniante chiave ironica, con l’effetto – non di rado – di suggerire una studiata impressione di naïveté, che fa buon gioco al canto satirico.

La raccolta è in linea con la poetica del Realismo Terminale, nella presenza costante della similitudine rovesciata ma anche nel fine di “chiamata a raccolta” e mobilitazione delle “intelligenze vive”. Era proprio tale fine che Langella stesso auspicava in una delle raccolte RT, Luci di posizione. Poesie per il nuovo millennio, da lui curata.

A proposito dell’uso della lingua egemonica (soprattutto l’inglese) in testi RT, Langella scriveva in Luci di posizione ch’esso andasse letto in “una direzione ben precisa: quella di indicare un’egemonia culturale, che si traduce in una globalizzazione indotta dei consumi e dei costumi”. In questa chiave vanno dunque considerati i cospicui innesti dell’inglese in Nickname, Brace, brace! o Il business dell’eolico di Pandemie, che si accompagnano al francese di La pallina d’avorio, a contrappuntare il volo della morte dell’ivoriense Laurent verso Parigi, e ancora, più raramente, al latino e al dialetto. A quest’ultimo va il compito di un’espressività più immediata e secca, non a caso posta al servizio dell’enucleazione della scomoda verità dei dané immobile motore.

Nell’assistere all’ilare autodistruzione della società dei C-ottimisti – come il padre cottimista di Malpelo destinati alla sepoltura (nel loro caso in una discarica) –, lo sguardo della poesia si volge verso i vinti, con precisi riferimenti a eventi cronachistici. Langella ci rammenta che al cospetto del Destino (Quando si dice il destino) siamo come il leopardiano “popol di formiche” de La ginestra; ricorda in epifora uno Slogan per Willy, per non dimenticare il limpido sorriso di Monteiro Duarte. Osserva senza commentarla la fine di un farneticante novello don Ferrante, paladino dell’antiscienza; rammenta come i vertici di Europa (e i loro popoli) spesso si regolino pilatescamente al cospetto dei “migranti che premono al confine”. Sono loro gli ignudi da vestire, eppure, oggi come allora, “(…) da sempre ad ogni censimento / non c’è posto per loro nell’albergo”.

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