
Recensione a D. Guarnotta, I grandi Barbari bianchi, L’Erudita, Roma 2022, Euro 32.
In Langueur Paul-Marie Verlaine accostava sé stesso all’Impero romano alla fine della decadenza, intento a guardar passare “les grands Barbares blancs”, componendo acrostici indolenti “D’un style d’or où la langueur du soleil danse”. Il mancato arrivo dei barbari, d’altro canto, in un emblematico testo di Kavafis, finiva con lo scoraggiare la popolazione protagonista del componimento: “E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? / Era una soluzione, quella gente”. La loro forza vitale era stata considerata come un’alternativa alla fiacca indolenza e alla stasi in cui il popolo del testo kavafisiano viveva. Del resto, come dimenticare la straniante minaccia che forse non è realmente tale e la conseguente difesa che probabilmente non mirava nemmeno a difendere effettivamente alcunché in Beim Bau der chinesischen Mauer di Franz Kafka?
La lirica di Verlaine (da cui l’opera deriva il titolo) ha chiaramente attinenza con la vicenda di D., protagonista del romanzo di Davide Guarnotta, nella misura in cui, nella condizione che il personaggio stesso definisce Monstrum, con tutti i suoi annessi e connessi, irrompe la vitalità dei Barbari, i suoi giovani colleghi. Costoro lo ‘distraggono’ dal trascorrere l’esistenza in solitudine, tra rituali apparentemente salvifici e la cura ossessiva, sul lavoro, di “acrostici indolenti”, “gli atti amministrativi” che redige “con tetrapiloctoma meticolosità”. Nel tempo della stasi e della paura di vivere irrompe così quel demone che il protagonista denomina, usando il termine greco corrispondente, Elpìs (la Speranza). Sarà quest’ultima a prevalere e tracciare una nuova via, conducendo verso quello che non sarebbe un “lieto fine” ma un “lieto inizio”, o la Ragione, la cui vittoria condurrebbe allo stato della Porcellanizzazione (“totale rassegnazione a rinchiudersi tra le allegorie della mente, tra le fantasmagorie del sogno, immobile, afasico, un tutt’uno con il proprio mondo interiore”, alla stregua di una bambola di porcellana)?
Il romanzo di Guarnotta ha suscitato il mio interesse per molteplici ragioni. La prima è senz’altro la profondità e l’accuratezza dell’analisi psicologica del protagonista. Significativo che quest’ultimo sia menzionato tramite la sola iniziale, nel solco di una tradizione che conosce in Franz Kafka una delle sue punte più alte (il pensiero corre ovviamente a Das Schloß). D. è “vittima del disturbo ossessivo-compulsivo” e sicuramente mi ha colpito la precisione con cui le caratteristiche di tale condizione sono rispecchiate e ricostruite in maniera fedele. Le ossessioni da contaminazione; i pensieri intrusivi da scacciare con rituali fisici o vere e proprie litanie verbali, spesso recitate mentalmente; la necessità che nulla sfugga al controllo; l’ordine assoluto cui può contrapporsi, per converso, un maximum di disordine; le melodie che risuonano in maniera martellante al punto magari d’impedire il sonno; il timore, ch’è al contempo inconscio desiderio, del cambiamento; la ricerca della solitudine, perché il contatto con gli altri determina la possibilità di vedere le situazioni sfuggire di mano… Ne viene fuori un ritratto in soggettiva estremamente accurato che, a nostro avviso, è il pregio principe del romanzo.
Lo stile stesso è in linea con la natura del protagonista e con le progressioni della sua condizione psicologica. Si tratta di uno stile molto curato (che, si noti bene, attribuisce un nome agli stadi attraversati dallo spirito); il controllo formale è costante e – non a caso – si allenta nelle lunghe lettere di D., in cui la muraglia comincia a mostrare crepe e le aperture all’altro portano allo squadernarsi delle emozioni e dei pensieri dell’io. Guarnotta è molto attento al fatto che alle oscillazioni psichiche di D. corrispondano anche adeguate strategie stilistiche: basterà, per coglierlo, confrontare le descrizioni trancianti del primo capitolo, che attingono al campo semantico dell’obsolescenza, dell’artificiale e artificioso e denotano un’attitudine sprezzante verso il prossimo, con quelle che subentrano gradatamente, per esempio in riferimento a Riccardo o a Max (ma anche alla stessa Rossella).
Il ventaglio lessicale che il lettore riscontra nel romanzo è ampio e vario; si spazia dal lessico aulico della letteratura a quello medico, dal grecismo (con ammiccamenti all’echiano Pendolo) al calco linguistico vero e proprio, dal burocratese (a tale ambito ricondurremmo anche la ricorrenza del “trattasi”) al plebeo. Numerose le citazioni, che sono indicative di un ulteriore aspetto dell’indole del protagonista: il suo trasporto per la musica, la narrativa e la poesia (si coglie che D. sia esperto di storia, ma appassionato anche di linguistica e bibliofilo). Tale passione lo induce a fare spesso della letteratura un filtro mediante il quale leggere il reale, stabilendo analogie. Emblematico, in tal direzione, il già citato caso di Langueur, ma qualcosa del genere avviene anche per Flaubert (l’esempio di Bovary è utilizzato per analizzare il rapporto con Max) e ancora per Andersen. Non a caso, D. scriverà che “La Regina delle nevi è, senza dubbio, la personificazione migliore del Monstrum che io abbia mai incontrato in letteratura”.
Un libro interessante, ben scritto, che cattura il lettore, rendendolo desideroso di conoscere l’esito della Streit tra Elpìs e Ragione, tra l’umanissimo Monstrum e l’Impero vinto dall’ingresso dei barbari e, per effetto di tale terremoto, rinato.