La funzione del critico letterario


Perché questo blog?
Il Giano bifronte cerca uno spazio per parlare di critica letteraria. In modo serio, per quanto sarà in sua facoltà.
L’industria culturale contemporanea è asservita a logiche editoriali che spesso sono ben lontane da un nobile intento di valorizzazione del talento. Si assiste sempre più alla serializzazione delle scritture, alla riproposizione ossessiva di figure, intrecci, immagini in linea con le richieste di un pubblico dagli orizzonti d’attesa sempre più poveri, irrimediabilmente proteso alla ricerca di un intrattenimento sterile.
Il compito del critico è quello di ricercare la complessità, l’anello che sfugge alla catena della banalità e rivela quella cura che connota un’opera di qualità. Non deve stroncare; è un’operazione sterile e inelegante che rivela un fondo di narcisismo e fa a pugni con l’onestà intellettuale. È piuttosto maggiormente corretta la posizione di chi fa passare sotto silenzio ciò che giudica meno valido e dà risalto al valore, laddove esso traspaia e, in alcuni casi, risplenda.
Certo, nelle valutazioni letterarie gioca un ruolo non trascurabile la soggettività della percezione del critico. È però anche vero che, al di là della singolarità e dell’irripetibilità di ciascuna lettura, esistono fattori oggettivi che appariranno evidenti a ciascun interprete.
Cosa cercherà di fare il Giano bifronte? Si sforzerà di mettere in atto quanto auspicava Benedetto Croce; accostarsi al cuore poetico dei testi letti e, quando vi sentirà battere il suo, provare a oggettivare quell’impressione di bellezza percepita.

L’immagine in evidenza è l’olio su carta “I Gemelli” di Marisa Carabellese.

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Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca


Recensione a L. Spurio, Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca, seconda edizione, PoetiKanten Edizioni, Collana L’Appello, Rogliano 2020, Euro 10.

Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca, opera di Lorenzo Spurio giunta alla seconda edizione, è senz’altro un lavoro che colpisce per la visionarietà, la cura stilistica e l’intensità con cui la tragica esperienza del poeta spagnolo è rivissuta in una sorta di laica via crucis (quest’ultima componente è ben evidenziata nella bella introduzione di Nazario Pardini).

L’opera è costituita da undici componimenti in cui si consuma la rimeditazione del destino di García Lorca, fucilato a Víznar, nell’agosto 1936, dalla polizia franchista per le sue idee politiche ma anche per il suo stile di vita e le inclinazioni omosessuali.

In Memento il poeta andaluso aveva scritto: “Cuando yo me muera / enterradme con mi guitarra / bajo la arena. // Cuando yo me muera, / entre los naranjos / y la hierbabuena”. Proprio da quei versi Spurio ha tratto il titolo del suo Recitativo; purtroppo il corpo dello scrittore non è mai stato ritrovato, ma, in uno dei testi che compongono la plaquette, Spurio sembra evidenziare come oramai García Lorca appartenga all’immensa natura ed esista in molteplici frammenti in cui vibra vita interiore. L’io lirico dice, sì, “cercatemi là, non lontano dal limoneto nauseante”, ma al contempo dichiara di “vagare nei dintorni confusi / e abitare smanioso ogni luogo del campo”. Non va, dunque, ricercato nell’utero di Gea ma tra gli spiriti dell’aria.

L’opera vive di due differenti movimenti. Il primo è quello che segue la vicenda di García Lorca condotto alla fucilazione. In Nella roccia vescovile pare operante la tensione alla cristificazione, che però non deve essere intesa come forma di irriverenza, perché concorre a proiettare in un’aura sacrale il martirio di chi muore per oltraggio. Testimone dell’atto una natura bellissima, popolata dalle presenze care alla poesia di García Lorca, con cui Spurio stabilisce continui legami intertestuali. Così, Il bivio di campagna si apre con l’immagine delle formiche (le hormigas di Alma ausente, per esempio), che sembrano quasi, nel loro febbrile attivismo, spiare l’altrettanto frenetica ma nociva attività dei carnefici. In quel contesto spiccano ancora gli aranci e i “capelli scomposti” dello scrittore sembrano abbracciare l’aria. Quanta differenza dai “maldestri assassini” che lo abbatteranno, scherani del “plotone-fantoccio”! La Natura è partecipe dell’evento: “L’acqua putrida dei pozzi si disseccò” o ancora “Le piante quel giorno hanno smesso di parlare / gli acuminati rami superbi imposero il silenzio”. E che dire delle rane che “vagano stordite e deluse”? Alla disumanizzazione dell’uomo-Caino pare corrispondere, per contrasto, un’intensa umanizzazione di elementi vegetali e animali, al cospetto della poetica icona dello scrittore (“Sul volto un sorriso di gigli freschi”). Spurio insiste come la morte dell’andaluso non sia davvero tale: “Morto è solo chi si dimentica e scompare / come una cicogna nera nella notte petrolio”. La resurrezione dell’artista assassinato sarà affidata ai suoi versi.

Ed ecco che si spiega il secondo movimento della plaquette, che non è giustapposto al primo, ma ad esso intimamente connesso. Spurio rivive la magia di alcuni testi di García Lorca, quasi che – nella liberazione dello spirito del poeta – essi si rimodulassero nell’aria circostante. Tagliami l’ombra riprende il famoso incipit (“Leñador. / Córtame la sombra”) della Canción del naranjo seco, dando voci all’arancio senza frutto, al suo disperato desiderio (“Quiero vivir sin verme”). Esso percepisce “l’oltraggio” del cardo; le sue “mammelle arancioni penzolanti” sono “avvizzite dalla disperazione”; per un attimo balena l’idea che l’albero che vuole vivere senza vedersi e chiede al falegname di tagliargli l’ombra sia il poeta stesso, che dà voce al suo sentire distonico. Nel finale, torna l’immagine delle formiche: “Nella sfida del cardo / col pompelmo / vince la formica / che domina entrambi”. Intenso è anche il Lamento dell’infante sprofondato (particolarmente efficaci il finale e la strofa che punta l’obiettivo sulla mater dolorosa che “rimesta nell’utero con dita adunche”), testo che si colloca prima di un’altra variazione di sapore lorchiano, C’era Amnon, testo ispirato a Tamar y Amnon.  

La poesia lorchiana rievocava con forza visionaria l’incesto di Amnon, figlio di David, che viola la sorellastra Tamar sotto l’impulso di un amore violento, maledetto (“Violador enfurecido, / Amnón huye con su jaca”), al cospetto del quale il canto smuore nel silenzio (“David con unas tijeras cortó / las cuerdas del arpa”). I passaggi più forti del testo di Spurio, che accosta a Tamar le “donne vessate e stuprate / figlie concupite e oltraggiate / ragazze abusate e sfruttate”, risiedono, a nostro avviso, nella rievocazione di Amnon. Spurio si scaglia contro il “laido violatore / del candore di primavera”, il “Caino del sesso / sadico fratricida della perversione”, uomo dal “ferino respiro”, che Lorca rappresentava llenas las ingles de espuma (“pieni gli inguini di spuma”). Certo, non stupisce – pensando all’originale lorchiano – che l’autore dei Sonetos del amor oscuro sentisse fortemente su di sé il peso di una colpa d’amore diversa dall’incestuosa passione di Amnon, ma socialmente riprovata perché ritenuta contro natura.

L’opera di Spurio è ulteriormente impreziosita dagli “schizzi ad inchiostro di china interpretati dal maestro Franco Carrarelli” e ispirati ai testi poetici dello scrittore jesino. Quello che colpisce del Recitativo è che, pur muovendo da una tragica vicenda di morte, l’opera è costantemente irrorata di luce, di colori d’oro, di preziose immagini di vita e di bellezza (penso alla magnolia o ai campi di zafferano). È il dono della poesia che dialoga con la poesia e con quella “radice / magnifica e atroce” che all’esistere e al mondo ci lega.

Gli omosessuali e altri scritti


Recensione ad A. Baudry, Gli omosessuali e altri scritti, traduzione di P. Adriano, L. Di Lella, G. Girimonti Greco, F. Musardo, a cura di E. Savarese, Wojtek, Pomigliano d’Arco 2022, Euro 16.

“Due studiosi francesi hanno scritto un libro pedagogico sugli omosessuali, destinato a sostituire nelle edicole (certo utopisticamente) le analoghe opere a carattere erotico, scandalistico, commerciale ecc. è un libro che si presenta come onesto, chiaro, esauriente, democratico, moderato. E effettivamente lo è”. Queste parole introducevano la recensione di Pier Paolo Pasolini al volume Gli omosessuali di André Baudry e Marc Daniel, riferita all’edizione Vallecchi del 1974 e pubblicata il 26 aprile dello stesso anno sul “Tempo”, per poi confluire negli Scritti corsari. Pasolini muoveva alcune critiche al lavoro di Baudry e Daniel, sia in rapporto alle dichiarazioni su Freud, sia in relazione alla volontà degli autori di innestare “Il problema dell’omosessualità nel contesto della nascente tolleranza”. Proprio su quest’ultimo concetto Pasolini avvertiva il bisogno di dire la propria; non si trattava di una tolleranza reale, ma di una spinta “decisa ‘dall’alto: è la tolleranza del potere consumistico, che ha bisogno di un’assoluta elasticità formale nelle ‘esistenze’ perché i singoli divengano buoni consumatori”. Non è casuale ch’egli concludesse la recensione richiamandosi al suicidio del protagonista del Libro bianco di Cocteau.

Fermo restando che le eccezioni sollevate da Pasolini non ci paiono infondate, dobbiamo però constatare che, per quanto i tempi siano mutati e tante situazioni si presentino in forme differenti, la pubblicazione curata da Savarese per le Edizioni Wojtek che offre un significativo florilegio di scritti di André Baudry è opera di grande attualità e verità. L’operazione si colloca in corrispondenza del centenario dalla nascita di André Baudry (1922-2018), scrittore francese che decise di trascorrere un ultimo, lungo segmento della propria esistenza in Italia, in territorio campano. Foucault aveva salutato la sua partenza come Le depart du prophète (1983) e la bellissima introduzione di Savarese, che ebbe occasione di conoscere Baudry personalmente, ne sottolinea il carattere di “vero e proprio sacerdote laico”. Una figura che, dopo un accurato studio di quella che amava definire “omofilia” (e sul termine ritorneremo), aveva sposato, attraverso il movimento “Arcadie” e l’omonima rivista, un impegno attivo, militante, materiato d’ascolto e di soccorso a situazioni di difficoltà, per poi – negli ultimi trent’anni – scegliere “il silenzio in una sorta di eremitaggio perché evidentemente riteneva superfluo sia agire che parlare (o scrivere)”.

Ben venga dunque questa miscellanea tripartita, che presenta al grande pubblico una personalità di intellettuale su cui – come lo stesso Savarese dichiara nella prefazione – ancora nel 2014 sul web si riscontrava solo “qualche scarna notizia biografica su Wikipedia, insieme con pochi altri riferimenti (italiani)”. Il volume si compone di tre sezioni. La prima raccoglie alcuni articoli di “Arcadie”, rivista che rappresentò, insieme al movimento omonimo, il cuore della militanza di Baudry. Gli articoli sono tradotti da Lorenza Di Lella, Giuseppe Girimonti Greco e Federico Musardo. Essi rivestono particolare interesse: il primo, dal titolo di sapore scritturale Nova et vetera, enuncia i fini del movimento e del periodico stesso nel cercare di rispondere “a tante solitudini, a tante infelicità”, nella consapevolezza della veridicità del motto del terenziano Heautontimorumenos (v. 77). Fine che si sostanzia più chiaramente nell’articolo Arcadie: offrire agli omofili una voce amica e ricordare alla società “che l’omofilia dev’essere studiata in modo, oggettivo, scientifico, e che non bisogna confonderla (…) con la prostituzione e l’effeminatezza”. La rivista si coloriva anche di venature polemiche (penso all’articolo Manifestazioni) e non mancava di approfondire alcuni casi di studio. Citeremo, a tal proposito, il saggio dedicato a Sandro Penna, firmato Nissim Bernard (forse pseudonimo per Edouard Roditi), in cui si dà risalto al “candore” del poeta italiano, alla “sorta di freschezza, di neo-realismo, di lirismo delle strade di Roma” che si percepiva nei suoi testi. Un altro esempio è rappresentato dall’articolo di Marc Daniel su Oscar Wilde, in cui il collaboratore di Baudry argomenta lucidamente in merito alla questione se Wilde possa essere considerato vittima o martire della causa omofila.

La seconda parte del volume presenta la monografia di André Baudry e Marc Daniel intitolata Gli omosessuali; si tratta della traduzione Vallecchi di Pino Adriano del 1974, rivista da Lorenza Di Lella (con la collaborazione di Giuseppe Girimonti Greco e Federico Musardo) sulla scorta dell’originale parigino (Casterman, 1973). Ne emerge un’opera di molteplici pregi. Essa scandaglia il fenomeno, dedicando peculiare attenzione anche all’onomastica con cui venivano identificati gli omosessuali di genere maschile e femminile. Al termine corrente e che dà il titolo al volume, Baudry e Daniel suggerivano di sostituire il vocabolo “omofilia”, perché esso non si limita a porre l’accento sull’elemento puramente sensuale e sessuale, ma chiama in gioco tutta quella gamma di emozioni, sensazioni e sentimenti che connotano la realtà dell’Amore. Viene totalmente rigettata la visione patologica dell’omofilia: non si tratta di una malattia da curare; se trattamenti psicologici e psicoanalitici possono avere felice incidenza è soltanto nel momento in cui aiutano chi ad essi ricorre nel percorso di accettazione di sé. Gli autori infatti insistono sulla mancanza di nesso tra omofilia e nevrosi: è semmai vero che la condizione omosessuale possa divenire – per ragioni di ordine sociologico – nevrotizzante. Tra l’altro, Baudry e Daniel, basandosi sulla scala Kinsey e sui rapporti di tale biologo presso l’Università dell’Indiana (Sexual Behaviour in the Human Male e Sexual Behaviour in the Human Female), evidenziavano come la propensione al piacere di matrice omosessuale interessi una vasta gamma di soggetti, quelli che nella suddetta scala si collocano nelle posizioni soprattutto da 3 (perfetta bisessualità) a 6 (omosessualità esclusiva). L’opera offre un articolato ritratto del mondo omofilo, respingendo stereotipi inveterati che confondono tale orientamento con l’effeminatezza o (per fare un esempio) la chiassosità di personaggi vistosi come l’Emory di The Boys in the Band. Non è un caso che una delle figure approfondite da Baudry e Daniel fosse quella dell’omosessuale ipervirile, erede della tradizione del battaglione sacro tebano e dei samurai giapponesi. Altri luoghi comuni erano decostruiti: penso all’idea dell’omosessualità come massoneria o all’idea che la vede strettamente legata al mondo delle arti, della moda, dell’estetica (se ne sottolinea, per esempio, l’incidenza anche in contesti operai). Si tratta, insomma, di un’opera che compie un significativo viaggio nel mondo della letteratura e delle arti, delle religioni (il peso della tradizione giudaico-cristiana nella condanna del fenomeno), della sociologia, della giurisprudenza.

E al mondo giurisprudenziale ci connette l’ultima sezione del volume, che offre per la prima volta in Italia la pièce Le procureur, tradotta da Musardo e Girimonti Greco sulla base di “una copia dattiloscritta conservata nell’archivio Baudry della famiglia Di Martino”. La pièce – come spiega Savarese nell’introduzione – trae ispirazione da un’esperienza compiuta dallo stesso Baudry, quando, coinvolto in una giuria popolare, riuscì a far assolvere un omosessuale accusato di parricidio. Baudry attribuisce simbolicamente il suo intervento suasorio alla figura dell’integerrimo procuratore Morienval, innestando nell’opera tutta una serie di elementi riscontrabili anche nell’inchiesta Les Homosexuels. In essa emergeva, per esempio, l’azione demolitiva della psiche dei giovanissimi omofili da parte di famiglie poco illuminate: ecco che scaturisce nell’opera teatrale la figura del padre di René, evocata in absentia per le violenze anche fisiche inflitte al figlio omosessuale che, esasperato, l’avrebbe assassinato. Affiora la tendenza alla dissimulazione che spesso induce omofili a una vita di frustrazioni e di rinunce: a incarnarla è proprio il procuratore Morienval; educato presso i gesuiti (proprio come Baudry), ha intrapreso la carriera di professionista del diritto e ha soffocato la propria inclinazione omofila, sposando Isabelle e condannandola all’infelicità. Nell’opera Baudry attua una costante azione di rispecchiamento: specchio di Morienval è l’amico Crépy, l’unico personaggio che riesca a instaurare un dialogo col procuratore e con l’insoddisfatta Isabella, perché sostanzialmente rappresenta il lato solare dell’omofilia. Quella condizione che – come evidenziava Baudry – se vissuta serenamente e con la capacità di ritagliarsi un ruolo, ancorché piccolo, nella società, allontana il rischio della nevrosi. Doppio di Baudry è anche la moglie Isabelle, amata e respinta al contempo proprio come la donna respinge e ama lo stesso Gérard, finendo con il desiderare sensualmente ciò ch’egli stesso desidera. Non è casuale che la donna si accorga, nel corso della pièce, che il marito è ben più infelice di lei, finendo con il solidarizzare con l’uomo e forse, in qualche modo, col cominciare ad amarlo così com’è. Doppio di Morienval è anche il figlio putativo Jean-François, nato da una relazione di Isabelle proprio con uno di quegli omofili bisessuali tipici della condizione 3 della scala Kinsey. Jean-François è emblema della gioventù con la sua volontà di rivoluzione (e al portato rivoluzionario dell’omosessualità non sempre fattivamente espresso si dedicavano interessanti riflessioni in Les homosexuels); egli irrompe con la sua ventata di sincerità e vigore nella prigione ascetica di quel padre erroneamente identificato dalle gerarchie quale sacerdote dell’ordine e della conservazione e insignito di un incarico di punitiva moralizzazione della società. L’imprigionamento, reale, di Jean-François aiuterà il procuratore ad assumere consapevolezza della possibilità di scardinare la gabbia in cui si è autoconfinato. Doppio di Morienval è infine René, il parricida, inizialmente evocato dai pensieri dell’uomo in un’ambigua oscillazione tra “fantasma del desiderio” e proiezione di sé. René assurge agli occhi del protagonista come una sorta di sé stesso diciannovenne che, forse, può essere ancora guidato verso una salvifica felicità. Alla fine Morienval stupirà il lettore, perché non bisogna mai dare per scontato quel che s’agita nel cuore di un uomo o di una donna: “PROCURATORE (divertito) Lo sai bene, te lo avrò detto non so quante volte quello che mi hanno insegnato i gesuiti: ‘Per avere successo, qualunque cosa facciate, lasciate sempre aleggiare intorno a voi un’aura di mistero’”.

Sillabario all’incontrario


Recensione a E. Sinigaglia, Sillabario all’incontrario, TerraRossa Edizioni, Bari 2023, Euro 16,90.

Il sillabario ha una sua tradizione, strettamente connessa all’idea di apprendimento. Quell’apprendimento che sui banchi di scuola vedeva impegnati i fanciulli con libri che allenavano alla lettura attraverso il metodo sillabico. Da uno di quei fanciulli Goffredo Parise aveva tratto ispirazione per i suoi due Sillabari, pubblicati su periodico e successivamente, nel 1984, in volume (Adelphi). Si trattava di una serie di racconti, intitolati a “sentimenti umani essenziali” e disposti in ordine alfabetico (Amore, Affetto e così via). Il progetto ha sapore di incompiutezza, arrestandosi alla parola Solitudine.

Nella sua straordinaria tensione al raccontare, Ezio Sinigaglia recupera la struttura del sillabario, compiendo però una sorta di itinerario a ritroso, dalla Z alla A, dalle manifestazioni esterne alla possibile individuazione dell’origine di un disagio, in un’auto-inchiesta dell’io all’insegna di un serissimo – e per questo ancor più efficace – umorismo. Diversamente dai sillabari del vicentino, quello di Sinigaglia connette a ogni lettera alfabetica un solo termine da cui però scaturisce una proliferazione di narrazioni, in una magmatica rete di richiami e corrispondenze sia all’interno del microsistema del Sillabario sia se si guarda all’intera produzione di Sinigaglia, di cui quest’opera diviene summa. Mi piace, infatti, definirla come una sorta di thesaurus delle sue possibilità narrative. Chi abbia anche limitata familiarità con la scrittura di quest’autore, si muove a proprio agio come in una foresta (o, per recuperare l’immagine iniziale, in uno zoo) in cui ogni singolo elemento ti pare rimandare ad altri loci di opere precedenti o successive, dallo splendido Eclissi al geniale dittico di Aram.

Per quanto riguarda le associazioni evidenti all’interno dell’opera, basti pensare all’elemento dello zoo, reale ma iperbolico (per la tendenza al mitografico insita nella narrativa di Sinigaglia) e metaforico al contempo. Un passaggio chiave dell’opera è, infatti, quello dedicato all’Inedito e alla difficile ricerca d’editore che la società giudica quale segnacolo dell’insuccesso. Non a caso il cinquantenne “d’insuccesso, nella società di oggi, suscita gli stessi sentimenti di pietà che, nella società di ieri, suscitava una cinquantenne nubile: la si compiangeva in quanto zitella, eventualmente anche senza conoscerla”. Uno dei corollari possibili per chi affastella inediti nel proprio scriptorium è l’approdo alla tendenza a differire penelopicamente il completamento di un’opera, “così da mantenerla per alcuni anni nella condizione, non già di inedito, ma di opera in corso di ultimazione”. Ne deriva una riflessione molto interessante sul concetto di hantise applicato alla scrittura, oltre che sull’intraducibilità del termine stesso; affiorano memorie dell’autonoma esistenza di creature figlie dell’arte che nella nostra tradizione ha trovato espressione in vari contesti, dal Fogazzaro di Liquidazione (ma anche del carteggio con Giuseppe Giacosa) al Capuana del Decameroncino, sino a giungere a Pirandello. Il capitolo si conclude con la constatazione che “la mia memoria è assediata dai fantasmi inediti come la mia povera casa dagli insaziabili felini”. Ecco che, dunque, nel gioco del Zirkel des Verstehens, l’immagine incipitaria è inquadrata in una nuova prospettiva.

Lo stesso dicasi per il secondo capitolo, V come vegetazione; quello che inizialmente sembrerebbe un paradossale pezzo di bravura, un elogio della vita vegetale – Leopardi nelle Operette aveva tracciato quello degli uccelli –, si carica di ulteriori significazioni quando si giunge a Humour. In tale capitolo si legge, a proposito della madre, che “aveva anche lei, di vegetale, il talento di accettare serenamente la sua zolla, di mettervi radici e di succhiare tutta la linfa dal terreno, per quanto avaro fosse, così da nutrirne rami e foglie e fiori”.

Per quanto concerne, invece, i rapporti col sistema della produzione di Sinigaglia, basterà qualche esempio: le avventure oniriche possono far pensare alle letture conradiane del primo capitolo del dittico; tra l’altro Joseph Conrad nel Sillabario è citato per Tifone. Il dialogo di estrema levità con il ragazzone di E come Eros – felice tentativo di dar luogo a una conversazione in cui la parola si libra come fosse priva di peso – potrebbe evocare il ricordo della dolcissima figura di Sciofì. La tendenza, tipica del puer divinus (e dell’Aram del dittico), a ribattezzare cose e persone emerge nella gustosa sequenza di Service, cameriere così ribattezzato dal termine con cui annuncia il proprio arrivo a servire la colazione in camera. La scena è dominata dal ralenti gestuale, che proietta in un’aura mitica (si pensi ai riferimenti alla dea Kalì o alla fiaccola d’Olimpia) un episodio ripetitivo e un’interazione tutto sommato labile, per non dire insignificante di per sé. Qualcosa di analogo accade anche per l’epicizzazione della lavatrice, in un evento – il lavaggio della biancheria intima – che nella prospettiva di Clara, straniata dallo sguardo dell’io narrante, diviene un rituale “mistico-edonistico”. Appena ho veduto, poi, comparire il personaggio di Carlo Due in B come Bambini, il pensiero è corso subito al Beniamino, detto Ben, di Eclissi, sebbene – lo confesso – immaginassi del tutto diversamente questo personaggio, fantasma del desiderio. Nessuno stupore pertanto, nonostante le dichiarazioni dell’autore, nel leggere, a fine capitolo: “Carlo Due morì: non nel nostro mare: in un altro, lontano: Egadi, o Eolie: morì annegato, per colmo di sventura: è la prima volta che lo estraggo dagli abissi.”

Il Sillabario è un’opera di notevole interesse. La cultura dell’autore affiora costantemente; se altrove Sinigaglia fa riferimento alla gru di Chichibio, in Humour vedi d’improvviso emergere l’icona del cuoco veneziano. Nel finale, mentre narra le scaturigini della sua prima arguzia, una freddura sul termine linguetta, la voce narrante scrive: “vennero su da sole, le parole: su, alla mia bocca”. Così, a ben rammentare, accadeva al personaggio boccacciano: “Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si venisse, rispose”. Le riflessioni condotte da Sinigaglia (si consideri il paradosso della Rosetta) sono prova di un talento umoristico che non finisce mai di sorprenderti, anche per effetto di una capacità di cogliere e squadernare le disarmonie e trarne linfa per il ragionamento.

Non mancano spunti interessanti per i critici, per esempio nella riflessione sui generi letterari; è il caso del capitolo consacrato al Giallo, colore ma anche denominazione italiana di un genere in cui “la morte perde tutta la sua luttuosità, la sua solennità, la sua retorica per diventare semplice spunto narrativo”. Nel capitolo in questione lo scrittore avanza lucide considerazioni sulle differenze tra le declinazioni dello stesso in Conan Doyle, Poe, Christie, Simenon…

Il Sillabario è un’opera che attinge forza anche da uno stile curato, elegante, spesso sornione, in cui nel fluire di proustiana memoria ogni periodo sembra scaturire dall’altro per magica proliferazione, complice l’uso frequente, quasi ossessivo, dei due punti. Se il lettore non ha, alla fine, la certezza che l’“assassino” (la causa del malessere) sia stato effettivamente smascherato, gli resta l’ebbrezza di un itinerario interiore, profondo e scanzonato al contempo, un viaggio che, forse, potrà rivelargli qualcosa anche di sé, per effetto di quel potere conoscitivo indiscutibilmente proprio della scrittura di qualità.

Alfredo Vasco e i suoi eteronimi (sproloqui e poesie)


Recensione ad A. Vasco, Alfredo e i suoi eteronimi (sproloqui e poesie), Francesco Tozzuolo Editore, Perugia 2022, Euro 15.

La raccolta di Alfredo Vasco è un esordio poetico interessante, con alla base un gusto del divertissement di matrice umoristica, ma anche una poderosa componente di amara assunzione di consapevolezza della ferinità della natura umana.

Vasco adotta l’artificio degli eteronimi, che vanta una tradizione significativa nella letteratura internazionale: si va dal caso di Olindo Guerrini, che assunse quelli di Lorenzo Stecchetti, Mercutio e persino dell’umorale zitella Argìa Sbolenfi, a quello, estremamente celebre di Fernando Pessoa. Il poeta portoghese forgiò infatti personalità poetiche complesse, ciascuna con una propria storia e una precisa connotazione, da Álvaro de Campos a Ricardo Reis, da Alberto Caeiro a Bernardo Soares, e così via.

Le tre identità cui Vasco dà voce sono quelle delle sue anime: Alfredo, costruito per analogia ma non in tutto similare (“Ha i miei stessi ricordi. / Invecchia con me. Ama come me”, scrive, senza affermare la piena coincidenza con sé stesso); Narduccio, il “filosofo esistenziale”, dal poeta connotato attraverso un gustoso pastiche linguistico siculo-salentino; Colin, col suo idioma petroso e dai suoni gutturali, ch’è – come scrive Daniele Giancane nella bella prefazione – il dialetto di Grumo. A complicare ulteriormente il quadro è la componente attoriale inscindibile dalla personalità di Vasco (“Penso che Vasco sia un poeta che fa l’attore”, scrive Albertazzi in una testimonianza in appendice al volume); nasce così un ulteriore gruppo di testi che l’autore definisce “sproloqui”. Questi ultimi si dispiegano all’insegna dell’umoralità, spesso connotati dal gusto del gioco linguistico; è il caso dello Sproloquio d’attore (II) in cui Vasco, muovendo dal vocabolo “pedissequo” decide di perseguire una scrittura che si affidi a una sorta di carnevalizzazione fonico-linguistica, in cui l’elemento semantico è del tutto subordinato al gioco degli arguti abbinamenti di suono. Non tutti gli sproloqui, però, sono connotati da questa giocosità erede del gusto palazzeschiano; certo, però, i risultati migliori nascono da associazioni etimologiche o di campi semantici (lo sproloquio VIII) oppure da un disvelamento, caro al Barocco, dell’umano disinganno (sproloquio V).

È una raccolta quella di Vasco in cui spiccano alcuni testi in particolare. Nel canzoniere di Alfredo, la poesia raggiunge a nostro avviso i suoi momenti più limpidi nella rammemorazione dell’infanzia, che, da un lato – forte dello sguardo fanciullo –, mitizza sensazioni, figure ed emozioni, dall’altro non manca di un corposo realismo. Realismo che si traduce nell’uso della parola schietta, materica, anche del turpiloquio e dell’elemento scatologico, non di rado. Versi come questi restituiscono l’agrodolce essenza dell’esistere: “Poi viene il Natale. / Le bucce di mandarino. / Papà non è solo un sogno. / Le miniere del Belgio me lo hanno rimandato indietro. Con la faccia sporca di carbone. / La mamma chiude la porta. / Per questa notte non potrò dormire con lei. / Corro fra i profumi dei fiori di mandorlo. / E fra le gambe mi scoppia la voglia. / Mia sorella c’ha il sangue nelle mutandine”. Essi ci paiono rappresentativi della poetica di Vasco. Ci si muove costantemente tra innalzamento per effetto del puer divinus che guarda poeticamente al mondo, per poi subito dopo sperimentare la precipitazione nelle panie della concretezza e dei sensi. Così, al riferimento al profumo del mandorlo in fiore subito subentra il cenno all’eccitazione fisiologica del fanciullo che scopre il piacere, allo stesso modo in cui la sorella sperimenta i disagi del ciclo mestruale. Nella medesima direzione segnaliamo Il tunnel, altro bel testo che potremmo racchiudere nell’immagine, in cui molti si riconoscerebbero, de “L’estate che non passava mai / Come una corsa / Infinita / Nel tunnel della felicità”.

 Curioso che l’icona, cara a Neruda, del tunnel – solitamente negativa, in letteratura e nel comune sentire, per il suo portato di oscurità – sia qui abbinata alla felicità (non così, invece, in Barlumi di infanzia). Eppure, a pensarci, essa rende bene l’essenza dolceamara degli istanti di felicità che l’uomo assapora, brevi e intensi al punto che, mentre li esperisci, ne provi già nostalgia. Accanto a questi componimenti ci piace ricordare l’explicit di Faust (“Ritrovarmi / sempiterno Faust / ancora una volta nudo / svuotato / al cospetto di un Dio che non c’è”) o ancora Ed all’improvviso, in cui affiora il motivo della pervasività della Morte, che attraversa l’intera raccolta di Vasco (si pensi al finale di La festa di la Madonna o ancora ai testi dedicati alla guerra, tra i quali ci convince particolarmente Mio figlio se n’è andato). Sentore di danse macabre che il poeta cerca di esorcizzare con l’autoironia di testi quali Mi sono amato, con l’umorismo amaro di Parteit a tressett, con il giocoso delirio citazionista degli sproloquio l’Italum acetum dello Sproloquio d’attore (XI). Su tutto, domina la volontà di dare alle cose il loro nome, perché in fondo è questo il grande potere del poeta e dell’attore: passando di eteronimo in eteronimo, può mostrare il fetore di decomposizione dietro le apparenze luminose delle maschere in cui l’umana feritas si trincera.

Legati i maiali


Recensione a T. Mastrototaro, Legati i maiali, Marco Saya Edizioni, Borgoricco 2020, Euro 12.

Legati i maiali di Teodora Mastrototaro è una raccolta poetica che non può non suscitare inquietudini e riflessioni.

A prescindere dal fatto che si condivida o meno l’antispecismo che anima l’autrice e ne guida le battaglie (la problematica è complessa e anche l’uomo può talora restare vittima di altri animali nella catena alimentare), il senso di straniamento che Mastrototaro riesce costantemente a determinare nel lettore rappresenta senz’altro il maggior punto di forza dell’opera.

Essa c’introduce nel microcosmo concentrazionario del macello, tra vittime e carnefici. L’io lirico si sdoppia, in un prospettivismo che l’induce, nella prima sezione dell’opera, a identificarsi con le vittime del brutale massacro e, nella seconda, con gli addetti alla macellazione. È, tuttavia, evidente come la sua adesione interiore vada tutta alle creature destinate alla morte nella convinzione che il loro esistere e sentire sia inferiore a quello degli uomini. Ammesso e non concesso – sia detto per inciso – che oggi si attribuisca ancora valore alle vite umane, problematica su cui a nostro avviso ci sarebbe molto da discutere…

Mastrototaro è poetessa viscerale, che non esita a chiamare le cose con il loro nome, dando forza poetica anche alla crudezza di un lessico che allude alle funzioni fisiologiche, spesso riflesso involontario della brutalità della macellazione.  Nella prima parte, il processo condotto dall’autrice è duplice: da un lato, infatti, la scrittrice insiste sull’umanizzazione dell’elemento animale. Significativo è il continuo alludere a categorie che spesso l’uomo crede propria esclusiva prerogativa; penso alla genitorialità o ai rapporti familiari: “Madre, non ho il permesso per le stagioni: / devo crepare in assenza di stelle, in assenza di sole”. La sottolineatura del contrasto tra i ritmi della natura, con i loro cicli di morte e rigenerazione, e il carattere definitivo del destino che attende le vittime rinvia, peraltro, a riflessioni che da Catullo – applicate all’uomo – avevano trovato terreno fertile in Leopardi e poi ancora, con struggente verità, in Levi. Il lessico dell’affettività sembra negato dalla brutale indifferenza dei carnefici: “Da madre mi chiamo fattrice”, asserisce una delle creature cui Mastrototaro dà voce. Se, quindi, la poetessa umanizza l’elemento animale, d’altro canto ella non manca di squadernare l’anatomia delle vittime, mostrando come l’agire dell’uomo le riduca a corpi inerti, reificandole. Odori sgradevoli, immagini cruente, riferimenti allo scatologico e al basso corporeo finiscono non col destituire di dignità le vittime della macellazione, ma col rivelare la componente ferina insita nell’uomo che nell’asetticità di quei contesti di morte emerge nitida.

Molto efficace anche la seconda sezione. Numerosi sono i testi che colpiscono la nostra attenzione, a cominciare dal primo, in cui campeggia la “macchia a forma di stella” sulla fronte di un cavallo. L’autrice senza infingimenti ci mostra “L’occhio che schizza dalla cavità orbitale”, con la “scia luminosa” assimilabile a una cometa, osservazione che suscita l’amara ironia del finale di questo insensato catasterismo. Il secondo componimento induce a riflettere su quanto il massacro sia a volte inane: “la Trichinella ha deposto le uova / nel maiale ammazzato”. Il terzo vive tutto della serrata iterazione del processo generativo: “La vacca sarà fecondata / per tornare a essere madre / di un figlio che sarà padre / di una figlia che sarà fecondata / per essere madre di un figlio / il cui seme lo renderà padre” e via discorrendo. L’insistenza sulla ciclicità dell’atto di donare la vita appare stridere con l’immagine inziale, brutale, esiziale, delle “Braccia lunghe con lunghi peli” che “estraggono dal ventre della vacca / la sua più bella malattia: un maschio”. Ed è proprio questa, forse, l’intenzione di Mastrototaro: se, nella distorta ottica dell’uomo, gli animali perpetuano la catena della vita al mero scopo di fornire gustose bistecche alla sua tavola, non è certo questa la ragione ultima di quel processo. Altri testi ancora si potrebbero citare: quello consacrato alla lenta morte del feto di vacche gravide; il paradosso della mancata macellazione nel giorno di Passione; l’explicit del testo de La mezzena nella cella frigorifera e infine il Grand Guignol della “sala vuotatura”. A volte, l’espressione si condensa felicemente in pochi versi; si pensi al componimento consacrato all’enigma dei “movimenti ossessivi degli animali in attesa”. E nella poesia che si apre su La prima volta che ho stordito un animale ho chiuso gli occhi emerge un’ulteriore insanabile dualità: se quella che muore era vita, pur disprezzata, pur soggetta alla deminutio specista, si è certi che chi preme il grilletto e perpetua un atto di disamore non sia egli stesso un mort vivant?

La vita nascosta


Recensione a R. Donnarumma, La vita nascosta, Edizioni Il Ramo e la Foglia, Roma 2022, Euro 18.

È un libro interessante La vita nascosta di Raffaele Donnarumma, un’opera che emerge per l’accuratezza della disamina del reale e la lucidità d’analisi psicologica, oltre che per la qualità della scrittura, raffinata nelle sezioni monologanti dell’io narrante e tendente – com’è giusto che sia – alla mimesi del parlato nelle sequenze dialogiche.

In seguito all’abbandono da parte di S., compagno storico, il docente universitario R., narratore interno e protagonista, comincia gradatamente a inoltrarsi prima nei meandri del microcosmo culturistico delle palestre e successivamente nel labirinto virtuale di gaydudes. In cerca di incontri fugaci, conoscerà L., ex dottorando del suo Dipartimento, impattando nel mistero della sua apparente apatia, di cui gradatamente scoprirà le ragioni, tentando – non diciamo con quali strategie né esiti – di porvi un qualche rimedio.

Ci sembra che nell’opera abbia forte incidenza il modello proustiano. Ravvisiamo alcuni punti di tangenza, per esempio, con l’allure dell’Albertine disparue; del resto, sulla crisi di un amore, quello con S. e sulla fuga di quest’ultimo si apre la narrazione. Proustiano è l’inesausto monologare della memoria interiore e contemplativa, così come l’analisi ossessiva di fatti, gesti, sensazioni. Il raffronto che R. conduce tra G., con cui ha tradito il compagno, e S. stesso richiama, con i dovuti distinguo, le comparazioni tra Gilberte e Albertine, con la differenza che è G. ad apparirci più simile all’icona del desiderio e dell’ossessione amorosa della Recherche. Ci sembrerebbe peraltro che il modello proustiano sia mediato – tra gli altri – anche attraverso quello sveviano, citato nel corso del romanzo; ne La vita nascosta, si ha del resto non di rado la sensazione “di osservare dall’alto una scena di impedimento”, elemento che Frye riteneva tipico del modo ironico.

Molteplici sono le implicazioni del titolo che, ammiccando all’epicureo λάθε βιώσας, da un lato allude a tutto un ventaglio di emozioni e relazioni che tende a restare celato alla società, dall’altro potrebbe riferirsi al carattere di separatezza, di remota interazione che dalla virtualità può virare repentinamente a un’effimera concretizzazione. Una dimensione in cui ciò che dell’individuo resta segreto è ben più di quanto si palesi.

L’opera ha anche il pregio di un’ottima dipintura d’ambienti. Sullo sfondo, ma uno sfondo nitido, vedi la vita del mondo accademico, con le sue leggi non scritte, le commissioni di sviluppo, le carriere fulminee e altre che procedono quasi sospese in uno spazio sdrucciolevole. L’autore accompagna alle descrizioni l’attenta analisi dei contesti e delle dinamiche psicologiche a essi sottese. Emerge dunque una matrice ragionativa che s’interroga sull’essenza del desiderio omosessuale o ancora sulle recondite ragioni del culturismo (un tentativo di “trasformare il proprio corpo secondo una norma astratta, artificiale, anonima”; “è l’odio di sé che impone questo esercizio ascetico di umiliazione”). Lucidissima è poi la disamina dei meccanismi che regolano l’ossessione del virtuale, accomunata – al pari del culturalismo – a una straniante ascesi, il cui “primo gradino è l’esproprio della volontà”. “Il virtuale cava fuori di noi il nucleo inscalfibile, miserevole, immutabile di noi stessi”. Fitta è la meditazione sul tempo – e sulla sua sospensione nelle panie della rete -, su inganni e autoinganni, depresse euforie o apostasie della “religione della separatezza”. Il filo della narratività, tenue, s’intreccia alle ekphràseis, ai monologhi, alle apostrofi, a riferimenti letterari (Leopardi, Sereni, Siti, Pasolini), alle delineazioni di vere e proprie categorie e tipi psicologici frequentatori delle piattaforme.  E mentre si assiste alla declinazione del tema del fallimento dell’amore, si ha quasi l’impressione che quest’ultimo finisca con l’apparire– per prendere in prestito un’espressione da Sontag applicata ad altro contesto – “un’altra danza dell’io solitario”.

I grandi Barbari bianchi


Recensione a D. Guarnotta, I grandi Barbari bianchi, L’Erudita, Roma 2022, Euro 32.

In Langueur Paul-Marie Verlaine accostava sé stesso all’Impero romano alla fine della decadenza, intento a guardar passare “les grands Barbares blancs”, componendo acrostici indolenti “D’un style d’or où la langueur du soleil danse”. Il mancato arrivo dei barbari, d’altro canto, in un emblematico testo di Kavafis, finiva con lo scoraggiare la popolazione protagonista del componimento: “E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? / Era una soluzione, quella gente”. La loro forza vitale era stata considerata come un’alternativa alla fiacca indolenza e alla stasi in cui il popolo del testo kavafisiano viveva. Del resto, come dimenticare la straniante minaccia che forse non è realmente tale e la conseguente difesa che probabilmente non mirava nemmeno a difendere effettivamente alcunché in Beim Bau der chinesischen Mauer di Franz Kafka?

La lirica di Verlaine (da cui l’opera deriva il titolo) ha chiaramente attinenza con la vicenda di D., protagonista del romanzo di Davide Guarnotta, nella misura in cui, nella condizione che il personaggio stesso definisce Monstrum, con tutti i suoi annessi e connessi, irrompe la vitalità dei Barbari, i suoi giovani colleghi. Costoro lo ‘distraggono’ dal trascorrere l’esistenza in solitudine, tra rituali apparentemente salvifici e la cura ossessiva, sul lavoro, di “acrostici indolenti”, “gli atti amministrativi” che redige “con tetrapiloctoma meticolosità”. Nel tempo della stasi e della paura di vivere irrompe così quel demone che il protagonista denomina, usando il termine greco corrispondente, Elpìs (la Speranza). Sarà quest’ultima a prevalere e tracciare una nuova via, conducendo verso quello che non sarebbe un “lieto fine” ma un “lieto inizio”, o la Ragione, la cui vittoria condurrebbe allo stato della Porcellanizzazione (“totale rassegnazione a rinchiudersi tra le allegorie della mente, tra le fantasmagorie del sogno, immobile, afasico, un tutt’uno con il proprio mondo interiore”, alla stregua di una bambola di porcellana)?

Il romanzo di Guarnotta ha suscitato il mio interesse per molteplici ragioni. La prima è senz’altro la profondità e l’accuratezza dell’analisi psicologica del protagonista. Significativo che quest’ultimo sia menzionato tramite la sola iniziale, nel solco di una tradizione che conosce in Franz Kafka una delle sue punte più alte (il pensiero corre ovviamente a Das Schloß). D. è “vittima del disturbo ossessivo-compulsivo” e sicuramente mi ha colpito la precisione con cui le caratteristiche di tale condizione sono rispecchiate e ricostruite in maniera fedele. Le ossessioni da contaminazione; i pensieri intrusivi da scacciare con rituali fisici o vere e proprie litanie verbali, spesso recitate mentalmente; la necessità che nulla sfugga al controllo; l’ordine assoluto cui può contrapporsi, per converso, un maximum di disordine; le melodie che risuonano in maniera martellante al punto magari d’impedire il sonno; il timore, ch’è al contempo inconscio desiderio, del cambiamento; la ricerca della solitudine, perché il contatto con gli altri determina la possibilità di vedere le situazioni sfuggire di mano… Ne viene fuori un ritratto in soggettiva estremamente accurato che, a nostro avviso, è il pregio principe del romanzo.

Lo stile stesso è in linea con la natura del protagonista e con le progressioni della sua condizione psicologica. Si tratta di uno stile molto curato (che, si noti bene, attribuisce un nome agli stadi attraversati dallo spirito); il controllo formale è costante e – non a caso – si allenta nelle lunghe lettere di D., in cui la muraglia comincia a mostrare crepe e le aperture all’altro portano allo squadernarsi delle emozioni e dei pensieri dell’io. Guarnotta è molto attento al fatto che alle oscillazioni psichiche di D. corrispondano anche adeguate strategie stilistiche: basterà, per coglierlo, confrontare le descrizioni trancianti del primo capitolo, che attingono al campo semantico dell’obsolescenza, dell’artificiale e artificioso e denotano un’attitudine sprezzante verso il prossimo, con quelle che subentrano gradatamente, per esempio in riferimento a Riccardo o a Max (ma anche alla stessa Rossella).

Il ventaglio lessicale che il lettore riscontra nel romanzo è ampio e vario; si spazia dal lessico aulico della letteratura a quello medico, dal grecismo (con ammiccamenti all’echiano Pendolo) al calco linguistico vero e proprio, dal burocratese (a tale ambito ricondurremmo anche la ricorrenza del “trattasi”) al plebeo. Numerose le citazioni, che sono indicative di un ulteriore aspetto dell’indole del protagonista: il suo trasporto per la musica, la narrativa e la poesia (si coglie che D. sia esperto di storia, ma appassionato anche di linguistica e bibliofilo). Tale passione lo induce a fare spesso della letteratura un filtro mediante il quale leggere il reale, stabilendo analogie. Emblematico, in tal direzione, il già citato caso di Langueur, ma qualcosa del genere avviene anche per Flaubert (l’esempio di Bovary è utilizzato per analizzare il rapporto con Max) e ancora per Andersen. Non a caso, D. scriverà che “La Regina delle nevi è, senza dubbio, la personificazione migliore del Monstrum che io abbia mai incontrato in letteratura”.

Un libro interessante, ben scritto, che cattura il lettore, rendendolo desideroso di conoscere l’esito della Streit tra Elpìs e Ragione, tra l’umanissimo Monstrum e l’Impero vinto dall’ingresso dei barbari e, per effetto di tale terremoto, rinato.

I nomi di Melba


Recensione a S. Notaristefano, I nomi di Melba, Manni, Lecce 2022, Euro 20.

Il romanzo I nomi di Melba della scrittrice tarantina Sara Notaristefano è un’opera che si legge con piacere, perché cattura l’interesse sin dalle prime pagine, grazie al dono di uno stile ben curato e di un’ironia caustica, in linea con lo spirito della protagonista.

La storia di Melba e della sua famiglia si sviluppa in amebeo tra la provincia tarantina e Milano; la morte di Donatello, fratello prediletto della ragazza, accentua le conflittualità tra l’io narrante (Notaristefano opta per una narrazione interna per opera della protagonista) e i genitori, così come l’abissale distanza dal primogenito Arcangelo. Il padre di Melba, proprietario di un’azienda agricola e affarista senza scrupoli, è “concreto, burbero e pragmatico”, un “insopportabile intollerante”, figlio di “fascista riciclatosi nella DC” ed erede della mentalità paterna; la madre, Lucrezia, è una donna bellissima e raffinata, decisamente snob, più capace di mostrare affetto agli animali della sua villa che ai figli stessi. A complicare la situazione saranno il rapporto sentimentale di Melba con l’anticonformista Samuele, ballerino, e lo scricchiolio del matrimonio perfetto tra Arcangelo e la modella Gemma. Il dispiegarsi dei conflitti condurrà a una svolta imprevedibile, di cui non anticipiamo nulla, perché il lettore possa gustare pienamente le sorprese che Notaristefano gli ha riservato.

Facciamo invece alcune osservazioni, partendo dal titolo, il cui significato è spiegato a p. 14, quando la protagonista si sofferma sui suoi tre nomi, Melba Luisa Luciana. Se il secondo e il terzo nome mostrano le radici familiari (le nonne) e il loro peso nella vita della ragazza, il primo è il frutto della volontà materna di “scegliere un nome originale, raro, più che prestigioso”. Diviene emblema quindi della tensione a voler suscitare stupore, meraviglia, ammirazione; il nome Melba verrà peraltro rigettato e disprezzato dalla ragazza per le “assonanze con parole disgustose, quali melma o peggio”, ma soprattutto perché ai suoi occhi finisce con il rivelare il becero velleitarismo upper class dei genitori. Un presuntuoso segno di elezione che risuona, a ben vedere, ridicolo. Il titolo, però, si attaglia bene anche al fatto che ogni capitolo è dedicato a un personaggio e introdotto dal suo nome; il libro si apre con Donatello e si chiude con Melba. L’unico a essere identificato non nominalmente è l’amato Samuele: il suo capitolo è annunciato da un eloquente “LUI”. I nomi di Melba sono dunque anche i nomi delle figure che hanno significato, nel bene e nel male, nella sua esistenza.

Quel nome pretenzioso assurge poi a icona di un vero e proprio stato, la “melbità”, un concetto difficilmente definibile, ma che si apparenta a una condizione accidiosa, un vivere da acquario con corollario di senso di sfiducia nelle proprie qualità e possibilità. Melba si convince di essere un’inetta, anche per effetto della vocazione alla poesia; si identifica con Donatello, considerato un fallimento soprattutto dal padre Gian Maria e detesta invece Arcangelo, il figlio perfetto. Anche nel nome di quest’ultimo sembra essere racchiuso un omen; esso riconduce a un’idea di angelicismo, ch’è sociale più che spirituale. Arcangelo è infatti il figlio che si uniforma in tutto e per tutto (almeno nelle intenzioni) alla volontà dei genitori; quello che eredita l’idea paterna della donna come trofeo di bellezza da esibire nelle feste e nelle occasioni mondane. In realtà, l’angelicismo vero è proprio quello dell’altro Lestingi, Donatello, il solo nella famiglia che sembri mettere in atto tentativi di esperire una vita autentica, affidata ancora una volta all’Arte intesa come valore. La tragica fine del giovane produce un vulnus nello spirito di Melba. Proprio mentre pare voler aderire al verbo dell’apparenza declinato dai familiari – sintomatico il fatto che sia condotta a declinare la scrittura nell’ambito dei blog di moda, divenendo un’influencer, professione emblematica della vuotezza della società odierna -, Melba finisce con l’innamorarsi. Non è affatto causale che lei, protesa a declinare il tempo della stasi e quasi priva di slancio vitale, si innamori di un ragazzo perché lo scopre capace di sciogliersi gioiosamente in danza. Paradossalmente, in quel momento Melba diviene decisionista; se prima ci poneva di fronte costantemente agli scenari della sua frustrazione, ora si rende cacciatrice per conquistare Samuele, giovane per alcuni aspetti affine a Donatello. Notaristefano mostra infatti anche attraverso riferimenti al piano onirico il senso di colpa che coglierà la ragazza nel momento in cui, tentando di affidarsi al “dolce rumore della vita”, le parrà di tradire la memoria del fratello.

Eppure nuove insidie sono in agguato; insidie di cui il lettore ha contezza sin dall’incipit, che lascia ben intendere come qualcosa di grave sia successo, per poi affidare all’analessi il racconto in prima persona della vita della ragazza. La seconda parte del romanzo, illuminata da una luce livida, è figlia dell’esplosione improvvisa di un insospettabile (ma solo per il lettore disattento) mina vagante. Costante è il contrasto tra il frenetico vivere dell’ambiente milanese – luogo delle scoperte, delle esperienze, per alcuni della crisi – e il tempo della lentezza, legato alla tendenza della protagonista a fuggire nel buen (non sempre) retiro della masseria materna sulla costa jonica. In quest’ultima la ragazza può adagiarsi in una “melbità” che gradualmente cede il posto al decisionismo, alla capacità, a costo di sofferenze, di prendere in mano le redini della propria vita. Nell’opera sono numerosi i temi che affiorano: lo sfruttamento della manodopera straniera, magari da parte dei medesimi imprenditori rampanti che, forti della ricchezza economica, tuonano contro gli immigrati; il pregiudizio idiota, onnipresente nella nostra società e che colpisce, per esempio, Samuele per il semplice fatto che, uomo, esercita la professione di danzatore; il senso d’inutilità che l’italiano medio (per non dire mediocre) attribuisce all’Arte e alla Poesia; l’incidenza della violenza fisica e psicologica sulle donne, anche negli ambienti delle cosiddette “brave persone”. Un’opera scritta con intelligenza, che, mentre descrive la struggente bellezza del Sud Italia, ne denota la mentalità spesso provinciale, pur rivelando anche il provincialismo non meno gretto e ignorante che caratterizza una fetta ben consistente di individui dell’altra punta dello Stivale. Il tutto con quell’ironia che ti salva dalla rabbia.

Il fascino della Sirena


Recensione a E. Catalano, Il fascino della Sirena, Progedit, Bari 2022, Euro 15.

È un colto divertissement questo giallo dell’italianista Ettore Catalano, Il fascino della Sirena, prosieguo delle avventure di Donato Tanzarella, vice questore a Brindisi.

Un romanzo agile, che si legge con piacere sin dalle prime pagine e che tiene ben viva l’attenzione del lettore sino allo scioglimento finale. Un’opera che ha il pregio di uno stile curato e al contempo agevolmente fruibile.

Incontriamo Tanzarella alle prese con le interazioni affettuose, non sempre facili, con la patologa melomane Viola Lorusso, e con alcuni delitti dietro i quali sembrerebbe cogliersi la mano di un dotto e lucidamente folle serial killer. Luoghi brindisini iconici e significativi sotto il profilo culturale divengono scenari del macabro ritrovamento dei corpi di uomini accomunati apparentemente solo dal legame tra i loro cognomi e “personaggi storici del passato della città messapica”. Al crudele assassino, che firma i propri delitti con citazioni operistiche o frasi latine, viene attribuito non a caso l’epiteto di “killer dei Palazzi storici”. Una serie di fattori condurrà – complice un medaglione, ma anche la stemmatica dei palazzi nobiliari – all’accostamento della vicenda al mito sirenico. Un’icona, quella della Sirena, che si connota per il connubio di fascinazione e Morte tra mare e terra, nella declinazione di una “femminilità quale duplicità sessuale e divorante”. Tanzarella dovrà ricorrere a molteplici aiuti, da parte di storici, esperti di antropologia, melomani e soprattutto di un errore del killer, che mostrerà le bout de l’oreille, per poter addivenire alla soluzione dell’enigma. Tra i suoi aiutanti, il professor Dionisio La Ciura, il cui nome è un chiaro omaggio a Giuseppe Tomasi di Lampedusa e al suo Il professore e la sirena, da cui Catalano ha tratto l’esergo, non irrilevante ai fini della comprensione della chiave di volta del mistero.

Molti i punti di forza del romanzo: la lucidità della costruzione, lo stile, l’ironia che traspare di pagina in pagina e che accompagna Tanzarella nelle sue ripetute frustrazioni… Non di rado, infatti, il bravo vice questore percepisce la propria inadeguatezza a star dietro non solo all’assassino, ma anche ai propri stessi dotti aiutanti, a cominciare da Viola stessa. Emblematica la mancata individuazione da parte di Tanzarella del fatto che uno dei ‘biglietti da visita’ dell’assassino riportasse una citazione decisamente celebre del Leporello mozartiano; è peraltro da dire che la lentezza del detective nel decifrare gli indizi è espediente narrativo da Catalano adottato per coinvolgere il lettore nelle sciarade del romanzo. Buona la caratterizzazione dei personaggi, da Viola (anche nella sua simpatica rivalità con la dottoressa Gradella) all’amico Mino; anche la figura del “killer dei Palazzi storici” è così ben scandagliata nei suoi tratti caratteriali e moti psichici che, giunti a un momento topico del romanzo, il lettore non ha quasi esitazione nel riconoscerla. Perché l’elemento della detection e del gaddiano garbuglio conta, ma conta ancor più il desiderio di raccontare una storia gradevole e avvincente, divertendo il lettore. Il tutto in un gioco citazionista che va dai modelli giallistici (evidente quello di The A.B.C. Murders della Christie) alla musica di Mahler, dal mito (nelle sue declinazioni dalla classicità ai tempi odierni) alla melomania, per non parlare degli aspetti criminologici.

Domina però una protagonista indiscussa, fattore che ha reso questo romanzo al Giano (che vi ha trascorso l’infanzia e la prima adolescenza) ancora più caro e gradito: la città di Brindisi. È a tale angolo bellissimo della Puglia, dal fascino signorile, che Catalano rende omaggio rievocandone, per esempio, la storia; penso, a tal proposito (per fare alcuni esempi), ai riferimenti alla vicenda del Teatro Verdi o al ricordo di personaggi illustri quali il patriota Cesare Braico (1816-1887). L’itinerario alla ricerca della “Sirena” dall’ambiguo charme mortifero conduce Tanzarella inoltre a indugiare in scenari quali le vicinanze della stupenda Scalinata Virgilio, tra i simboli della città pugliese. Un po’ Sirena anch’essa, pronta a irretire e ammaliare il lettore in questo accattivante viaggio.

Me pudet. Poesie 1994-2017.


Recensione a S. Grasso, Me pudet. Poesie 1994-2017, edizione critica a cura di G. Cascio, Edizioni ETS, Pisa 2019, Archivio Silvana Grasso.

L’edizione critica Me pudet. Poesie 1994-2017, curata da Gandolfo Cascio nell’ambito della Collana “Archivio Silvana Grasso”, fondata e diretta dallo stesso Cascio e da Marco Bardini, consente al lettore di esplorare una sezione quantitativamente minoritaria ma decisamente interessante della produzione della scrittrice nata a Macchia di Giarre. Filologo classico, Silvana Grasso è autrice di racconti, romanzi e pièce teatrali; Me pudet, secondo volume della collana a lei intitolata, è dedicato ai testi poetici, pubblicati “per la prima volta” con un titolo emblematico, che – spiega Cascio – rammenta “la ritrosia e il disagio dell’autrice a esporre la parte più segreta e seducente della sua scrittura”. Si tratta di testi nati spesso in momenti estemporanei, per esempio durante l’assistenza alle verifiche scritte somministrate agli allievi.

Ottime chiavi d’accesso al volume l’introduzione e la postfazione di Gandolfo Cascio, docente di Letteratura italiana presso l’Università di Utrecht, direttore dell’Observatory on Dante Studies. La postfazione dà infatti conto di questioni di ecdotica: i testimoni manoscritti “vanno ritenuti dispersi” (con l’eccezione di P2 e P7), per cui l’edizione è basata sui file word della stessa autrice. Interessante la disomogeneità talora riscontrabile tra i titoli dei file e quelli dei testi in essi contenuti (opportunamente, a nostro avviso, Cascio ha optato per i secondi). Dopo aver ricostruito l’iter editoriale dei non molti testi dati antecedentemente alle stampe (tra questi il più noto è senz’altro Enrichetta sul Corso), lo studioso passa a una disamina stilistico-tematica dei versi di Grasso, individuandone la cifra dominante nella Stilmischung e nella “appartenenza alla cultura ellenistica prima ancora che a quella italiana”. L’esame delle forme metriche, dell’intertestualità e l’esposizione dei temi e dei motivi della poesia di Grasso sono condotti con finezza e acume critico, oltre che con il dono di uno stile elegante e di una scrittura accattivante. Cascio individua anche alcuni schemi costruttivi, esemplificati nella struttura di Fornicazione, testo a nostro avviso geniale. Lo scritto si conclude con una riflessione sul “poeta latitante”, in cui emerge la necessità di dissimulare la tensione alla scrittura poetica in un contesto in cui chi la coltiva “è percepito come uno “strano”, il “babbu (stupido) del paese” , secondo quanto riferiva Grasso stessa al curatore durante una conversazione. Alla luce di questa condizione lo studioso spiega la creazione di alter ego dediti alla poesia nell’opera narrativa e teatrale di Grasso: “ecco svelata la strategia per mettere in atto la personale mitopoiesi: scappare, ma per farsi acchiappare; nascondersi ma per lasciarsi trovare; occultare le proprie poesie inutili e offese”.

È una scrittura poetica di grande interesse quella di Silvana Grasso. Un’autrice in cui conosce piena testimonianza l’inesauribile vitalità della cultura classica. Essa diviene il filtro attraverso il quale leggere la realtà, in una tensione al dionisismo ch’emerge nell’esuberanza rigogliosa di uno stile materico e raffinatissimo anche negli sconfinamenti nel plebeo, così come nella presenza di figure quali la ricorrente icona della Baccante, il dio del vino stesso, Priapo, Sileno e così via. Anche il mito prometeico, con il senso di sfida al mistero metafisico e l’istinto di disobbedienza al divino, è presente, come oggetto di Pirocleptomania, ma anche quale elemento che affiora nel bell’incipit di Jecur (“L’aquila vuole il tuo fegato nero”).

Centrale è poi la figura di Atthis, che fa capolino nell’ennui dell’elenco di Smemoranda (colpisce il fulmen in clausula che riannoda le memorie classiche alla realtà presente), ma anche, ovviamente, nel testo specificamente dedicato al mitico sacerdote di “Cibele / divina”. Atthis, l’“imberbe / fanciullo”, è rappresentazione, cristallizzata nel momento dell’evirazione, di quella che ci sembra una delle componenti chiave del mito personale di Grasso, il παῖς. Ne troviamo traccia in Pedofilia (da intendersi in senso strettamente etimologico), che si chiude con l’immagine del teognideo Cirno; esso affiora poi, con vigore, in Fornicazione. Quest’ultimo è un testo molto interessante, che si pone sulla scia di componimenti ellenistici (penso alle zanzara di Meleagro, per citare uno dei più celebri); in esso, assistiamo alla scena che bene Cascio così riassume: “un granchio va a posarsi sul pube d’un ragazzo nudo quand’egli continua, indifferente, a bere il succo di frutta (di pera)”. L’esito è quello che i versi riportano: “L’assalto al fortino è compiuto / non manca che fulgida insegna / di chela / vessillo fatale sul tenero pene / ferito”. Molti i punti di forza del testo, il quale colpisce per l’inventiva linguistica, che va dall’uso di termini regionali come “muccuso” alle scelte mai scontate suggerite dal gioco di un metaforismo vertiginoso; l’effetto è di grande sensualità ma anche di raffinata ironia (si pensi all’evocazione del “veleno dell’Idra / consunto dall’onda mirtòa”). La poesia di Grasso sa dunque essere carnale ludus, scherzando con l’eros senza infingimenti in una sorta di moderna declinazione dell’erotopaegnion, in cui il granchio diviene doppio dell’autrice. Il ricorso al mito non di rado fa emergere la sproporzione tra i riferimenti colti e l’insignificanza delle situazioni presentate (si veda Inverecunde, in cui il deludente “pasto” amoroso suscita l’invidia di quello che fu “d’Atreo l’allegro banchetto” – e il lettore colto sa quanto sia stato “allegro” per Tieste).

Particolarmente interessante è l’epillio Enrichetta sul Corso, incentrato su una “figura efebica di travestito degli anni Cinquanta” (parole di Marina Castiglione). L’epifania di Enrichetta è delineata con maestria dall’autrice, che riesce, con poche pennellate, a rappresentare il sorgere e il manifestarsi del desiderio maschile, non solo negli sguardi cupidi. Il perenne dispiegarsi dell’istinto sessuale e la violenza gratuita che sfocia nel cruore sono i poli attorno ai quali si sviluppa la rammemorazione di Enrichetta. Il movimento dell’epillio rammenta strutture della tradizione (la pascoliana Digitale purpurea ma anche la montaliana Casa dei doganieri), con il “Ricordi Enrichetta sul Corso?” a fare da refrain, per poi chiudersi, come epigrafe funebre, sul perentorio “RICORDA ENRICHETTA / sul Corso”. Grasso conosce esiti particolarmente felici anche nella poesia d’ispirazione civile, in quanto riesce, senza moralismi o inutile retorica, a far emergere la disumanità di certe situazioni; penso ad Auschwitz 36170866 e al bellissimo dittico sul Pupo niuru.

Il dramma delle morti nel Mediterraneo, uno dei capitoli più controversi della storia del nostro Paese in questo scorcio del nuovo millennio (rispetto al quale la sensibilità di molti sedicenti poeti e intellettuali italiani latita), è espresso con un’icasticità e una forza non comuni. Memorie mitiche, ma anche della letteratura italiana, “menzogne di poeti” e realtà di fatto si fondono nell’epopea disforica del pupo niuru, che approda già cadavere sulle coste italiane, per essere rigettato in mare – anzi, “ruttato”, verbo ricorrente nel testo – da un barbone. Quest’ultimo lo calcia nuovamente in acqua, perché timoroso che l’affioramento del corpo senza vita possa essere respingente per l’umanità alla moda che affolla le spiagge (i corpi “infetteranno l’occhio in festa / di chi fa festa al Mare”), unica speranza di sopravvivenza per il senzatetto. Il lettore è affascinato dal modo in cui la poetessa s’avvale della parola, usando termini come “rugliare”, “ingrottare” o ancora univerbazioni quali “mortannegato” o forme come “sciacquarizzo d’onde che / tamburiano”. Alcuni momenti sono d’efficacia notevole; si pensi all’avvistamento del corpo da parte del barbone. Il lettore osserva la scena coi suoi occhi, segue la delusione che lo coglie quando si accorge che non anelli d’oro od orecchini costituiscono il bottino restituito dalle acque: “Gemme non sono, quel brivido di luce, né / diamanti / fantasmi sono di forestieri del giorno prima. / Occhi sono, / non occhi di Rinaldo né d’Ulisse l’Itacese, venturiero in questo / Mare, di Gela e niuri pupi”. Si consumerà così, per opera di un ultimo a sua volta reietto dalla società, il rifiuto del corpo estraneo da parte della terra sognata. Rifiuto di dare persino sepoltura a un “pupo” ben diverso dai carolingi paladini, un potenziale Ulisse di fatto reificato e più simile a un montaliano “osso di seppia”, ‘inabissato’ “per sudati calci” con l’accompagnamento di una preghiera blasfema.