Il serenissimo borghese


Raunceroy

Recensione a Alberto Frappa Raunceroy, Il serenissimo borghese, Arkadia, 2012, Euro 6.99

Riesce a tener desta l’attenzione del lettore questo bel romanzo di Alberto Frappa Raunceroy, friulano residente a Udine, edito nel 2012 da Arkadia e poi ripubblicato da Solfanelli.

Il serenissimo borghese è un romanzo ispirato alla vita di Ludovico Manin, ultimo doge della Repubblica di Venezia, caduta il 15 maggio, con successivo ingresso in città del Bonaparte. Si attendeva una democratizzazione della vita politica del centro lagunare e invece, nel 1798, il Trattato di Campoformio sanciva la grande delusione: Venezia era ceduta all’Austria e il cognato di Manin, Francesco Pesaro, divenne commissario straordinario per Venezia e la Terraferma.

Muovendo dai dati storici, Frappa Raunceroy arabesca, componendo un’opera pregevole sia stilisticamente che nell’architettura compositiva.

Nella prima sezione del romanzo, il personaggio del Procuratore di San Marco, futuro doge, si muove in sordina, con la sua dedizione al lavoro e la visione del mondo fortemente improntata alla morale cattolica. Tale caratteristica lo fa apparire agli occhi altrui (persino della moglie) ben più clericale nell’aspetto del fratello Lauro, sacerdote dedito agli amori maschili, con speciale predilezione per i proletari giovani e belli. A dominare, invece, è la figura della sposa di Manin, Elisabetta Grimani, personaggio a tutto tondo, che si muove rispondendo non alla logica del decoro formale, ma alle spinte affettive, alla passione per l’arte (si pensi ai dipinti della ritrattista settecentesca Rosalba Carriera), a una selettività nelle compagnie. Quest’ultimo aspetto la indurrà a privilegiare la compagnia di Alphonsine, nobile francese decaduta, ribattezzata con disprezzo dai parenti “Marchesa Onavé” (per la sua costante rammemorazione del fulgore passato della condizione aristocratica, icasticamente espresso con la formula “On avait”). Soprattutto, Elisabetta coltiva nel suo cuore il desiderio di ricongiungersi alla figlia, l’unica, che crede esserle stata sottratta in fasce per effetto del moralismo bigotto e dello smisurato senso dell’onore familiare dalla suocera-padrona, Lucrezia Basadonna. Figura quest’ultima che, pur morta ai tempi della narrazione, aleggia costantemente tra le pagine del romanzo. La riottosità di Elisabetta ad adattarsi al contesto straniante della famiglia del marito si ipostatizza nella repulsione per le stanze della, al suo sguardo, cupa villa di Passariano (poi idealmente ‘violate’ da Napoleone nella seconda parte del romanzo) e nel bacio mortifero dell’epilessia, male che la espone a continue crisi sino al momento della morte, in cui il romanzo vive un momento di svolta. Se la prima sezione, infatti, si era fondata su una focalizzazione interna atta a privilegiare la figura di Elisabetta, ora protagonista della narrazione diviene proprio Manin, in un percorso che lo indurrà, nella progressiva esautorazione dalle occupazioni pubbliche, a riappropriarsi degli spazi privati. Raggiungerà così compimento – nel momento in cui perderà le insegne dogali – quel moto d’amore che lo ricongiungerà idealmente alla defunta consorte e lo spingerà a riappropriarsi, tardivamente, della paternità negata. Così il Doge tutt’altro che “serenissimo” acquisirà una parvenza di felicità proprio nella dimensione del vivere borghese, in compagnia di quegli affetti che il tempo edace non avrà potuto cancellare.

È un romanzo complesso quello di Frappa Raunceroy. Ci muoviamo su scenari resi celebri dalla storia ed è bello l’emergere di figure come Napoleone, presentato secondo una prospettiva insolita, persino vittima di una sorta di ideale scambio di ‘scortesie a distanza’ con madama Caterina Pesaro, la cognata del Doge. Suggestivo il trascorrere dei veneziani dalle malie carnascialesche, vissute in un’ebrezza dimentica del pericolo, alla dimensione dell’incertezza per un futuro inizialmente indecifrabile. Affascinante lo stile, connotato da fluida eleganza; notevole la capacità introspettiva, che offre una galleria di personaggi molto ben caratterizzati e tutt’altro che stereotipati. Memorabili gli scenari, dalla proprietà di Passariano, dominata dall’icona della Basadonna, ai bassifondi di Venezia; per non parlare della celeberrima Villa Barbaro, che fu proprietà dei Basadonna e poi dei Manin. Nella sezione che s’avvia alla conclusione, Alphonsine leva lo sguardo e vede “la nobildonna in azzurro e perle che sporgeva dalla balaustra e guardava verso di loro” e la memoria del lettore subito identifica l’affresco di Veronese che rappresenta Giustiniana Giustiniani e la nutrice. E, nel finale, egli non può non solidarizzare con una figura che, seppur vinta dalla storia, Frappa Raunceroy ha insegnato ad apprezzare, pennellandola con tratti di onestà e generosità.