Noir in abito da sera


Noir in abito da sera

Recensione ad Aa.Vv., Noir in abito da sera, a cura di Dario Brunetti, Damster, Città di Castello 2022, Euro 13.

È un’operazione interessante quella alla base dell’agile volume Noir in abito da sera, curato da Dario Brunetti e recentemente pubblicato da Damster, con l’intento di devolvere parte del ricavato dalle vendite del libro a favore dell’Associazione SOS Donna (Bologna). Premessa ai racconti è l’introduzione di Brunetti stesso, che rivela i fini del progetto, “focalizzare l’attenzione sul soggetto della donna, vista come protagonista assoluta in ognuno di questi undici intriganti racconti”; segue un intervento di Francesca Chiaravalloti e di Valentina Ferri per SOS Donna, le quali, sottolineando “il tocco femminile di queste penne, una specie di raffinatezza nella scrittura che riesce a non scivolare mai nello scontato o nel volgare”, pongono l’accento anche sull’importanza del superamento di stereotipi legati ai generi.

Difatti, questa raccolta di racconti elegge la donna a sua assoluta protagonista, superando la triste (purtroppo realistica e attuale) narrazione che la vuole vittima per antonomasia. Le donne di Noir in abito da sera sono ora detective ora assassine folli o lucidamente spietate (magari killer di professione come nella Festa del sole) ora anche – ma non esclusivamente –  vittime, non di rado cadute per mano di altre donne. Certo, al fondo, si avverte quanto certi atti delittuosi siano il portato di uno stato di cose che ha condannato per secoli il genere femminile alla remissiva accettazione di qualunque sopruso o tradimento perpetrato dagli uomini (si pensi allo “scellerato gesto d’amore” alla base de La suora e il talebano); una tradizione che le ha magari relegate in cucina (luogo canonico da cui scaturisce la rabbiosa reazione di Lenta cottura) o ancorate a stereotipati dettami di bellezza i quali hanno trasformato in escluse dall’amorosa elezione donne da essi lontane (è il caso della protagonista di Seta blu).

Tipica del noir è, infatti, non a caso l’attenzione al contesto sociale in cui il delitto matura. Non di rado i protagonisti sono figure coinvolte, in modalità che si diversificano di volta in volta, nell’azione criminosa stessa; si consideri, a tal proposito, l’io narrante di Argia, uno dei racconti meglio riusciti per l’abilità dell’autrice, Piera Carlomagno, nella costruzione del personaggio fulcro delle vicende. Tale figura, dal pomposo nome mitologico, spicca per l’anticonformismo che si rivela nella “scandalosa ostentazione” di un audace tatuaggio nei “primi anni Ottanta” (oggi è semmai anticonformista l’esserne privi). La ragazza colpisce la narratrice (e anche il lettore) per il fascino magnetico e inquieto e la personalità misteriosa, che resta – per il lettore come per l’io narrante, che si definisce “l’invisibile” – un enigma da decifrare. Del noir è ancora la possibilità di un finale non necessariamente consolatorio; pressoché quasi nessuno dei racconti si conclude con la perfetta ricomposizione dell’ordine, forse proprio in quanto la convinzione che quest’ultimo possa esistere è chimerica al pari del mostro leggendario.

Il lettore potrà subito avvedersi di come uno dei fil rouge, complice l’ironia della maggior parte delle autrici, sia rappresentato dalla tensione al diletto. Noir in abito da sera intrattiene piacevolmente, con intelligenza e humour. Francesca Bertuzzi (Lenta cottura), Piera Carlomagno (Argia), Mimma Leone (L’assistente), Lorena Lusetti (Ossessione mortale), Chicca Maralfa (La suora e il talebano), Marzia Musneci (Pietre e polvere), Giada Trebeschi (La mano di Corso Oporto), Luana Troncanetti (L’ora del thè), Paola Varalli (La festa del sole), Serena Venditto (Fiori d’arancio), Letizia Vicidomini (Seta blu) contribuiscono, ciascuna con il proprio stile, a traghettare il lettore in un dilettoso labirinto dalle molteplici atmosfere. Percorso in cui non mancano il motivo del banchetto fatale e del “cannibalismo forzato”, che dalla tragedia di Tieste fu consegnato a più elegiache note in Boccaccio; le improbabili e proprio per questo vincenti accoppiate investigative (si veda Maralfa); la memoria del noir anni Quaranta con dame alla Stanwyck in Pietre e polvere (di stelle, anche). E poi il motivo dello stalking, con il curioso paradosso che puntualmente conduce alla colpevolizzazione della vittima; la sete di dominio e il feticismo della gerarchia non di rado spinti ai limiti della follia in contesto accademico; l’infanzia tradita e violata; ritratti di melanconici satiri in veste nobiliare ammiccanti all’avvocato Orimbelli della Stanza del vescovo di Piero Chiara; il suicidio che assurge a “delitto” perfetto, vendetta sopraffina degna di dark ladies emule della famosa Rebecca de Winter; il lato oscuro dei “fiori d’arancio” con tutto ciò che rappresentano; la rivincita della donna fisicamente – ma non intellettualmente – “opaca” sulla carnefice bamboleggiante, bulla di una gioventù infelice… L’elenco di temi e motivi potrebbe proseguire, ma non si vuole inficiare l’effetto sorpresa che terrà costantemente desto il lettore nell’assaporare le undici portate – per recuperare la metafora usata da Brunetti – di Noir in abito da sera.

L’inferno è vuoto.


 

Giuliano PesceRecensione a G. Pesce, L’inferno è vuoto, Marcos y Marcos, 2018.
Sulla notizia del suicidio di un immaginario papa Goffredo, in odore di santificazione, ambasciatore della fratellanza tra i popoli, al punto da esser stato insignito per ben due volte del premio Nobel per la pace, si apre il romanzo L’inferno è vuoto dello scrittore monzese Giuliano Pesce, edito da Marcos y Marcos. L’autore, focalizzando l’ottica sull’aspirante Grande Scrittore Fabio Acerbi, registra, già nel capitolo primo, gli effetti di tale evento a livello di tam tam mediatico, snocciolando in maniera incalzante le cifre riportate dai telegiornali e le reazioni convulse sui social network. Il folle volo del Pontefice è però solo il primo gradino di una sorta di apocalisse postmoderna che investe la Capitale, trascinandola in una spirale di violenze che si succedono a ritmo indiavolato. Non a caso questo è stato definito “un romanzo on the rock che scorre a perdifiato”.
L’opera si sviluppa in tre sezioni, ciascuna costituita da quindici brevi capitoli, con l’eccezione della terza, che ne conta sedici. Ogni macrosequenza è introdotta da un’epigrafe in lingua inglese, coerente rispetto ai temi e allo sviluppo della narrazione.
Il titolo, piuttosto interessante, potrebbe alludere alle ultime parole del pontefice Goffredo, che avrebbe negato l’esistenza di Dio, e quindi rinviare al crollo della speranza metafisica, ma potrebbe celare un ulteriore significato. Popolato da figure bestiali, che recano l’impronta della ferinità già nei loro nomi e soprannomi (si vedano il Cobra o il Nibbio, di manzoniana memoria), il mondo sembra modellato a immagine dell’Inferno e sorge pertanto il dubbio che quest’ultimo sia vuoto, perché l’elemento demonico si sarebbe in realtà integralmente riversato sulla terra.
Il romanzo squaderna quindi una realtà connotata da una deriva etica pressoché totale. Fabio Acerbi è un giovane grigio impiegato di un Grande Editore. Viene inviato a Roma, perché, allo scopo di scrivere un libro, possa carpire, complice un informatore, i segreti inconfessati che avrebbero condotto papa Goffredo al suicidio; il Cobra è il boss che con i suoi loschi affari domina l’Urbe; Alberto Gasman (come si evince dal cognome, che allude alla grandeur di una famiglia di artisti, con la deminutio tradotta nell’eliminazione della doppia) è un attore fallito, del tutto asservito al criminale sopra ricordato. Incaricato di uccidere il segretario di stato, il cardinale Bianchetti, altro manipolatore senza scrupoli, si rivelerà del tutto inetto. Intorno a loro ruotano il commissario De Santis, intuitivo ma pigro e sfortunato, i bravacci Bara e Beccamorto, la triste prostituta Mimì la Bruna e altre figure deformate dalla feritas e dalla follia.
Carri funebri involati rocambolescamente, cadaveri scorticati da personaggi degni di comparire in un film argentiano, improbabili sosia che si rivelano inquieti e/o depressi Doppelgänger destinati al suicidio… Sono gli ingredienti di un libro spiazzante, divertente, ma non privo dell’amaro. Gli esseri umani sono ridotti a burattini che si agitano in preda al parossismo; basta un soffio di vento per spazzare via le loro esistenze fragili e convulse. “Cos’è quella forza che fa nascere i fiori?”, si chiede morendo un personaggio. L’inferno è vuoto in realtà parrebbe infatti concepire esclusivamente il meccanismo di disgregazione e distruzione.
Una casualità spietata sembra far sì che ogni personaggio si trovi nel posto sbagliato al momento sbagliato o, pur presentandosi l’Occasio, finisca con l’abbarbicarsi alla scelta peggiore. Anche l’amore, che potrebbe per i personaggi concretizzarsi nel sogno di una Rossa da concepire secondo l’ottica stilnovante, si traduce in una corsa sfrenata in una strada senza uscita. Eppure Pesce pennella questo suo mondo stralunato e schizofrenico con leggerezza, grazie all’ausilio di uno stile che ora si eleva (si veda Beccamorto che filosofeggia) ora s’ingaglioffisce nei discorsi dei bravi. Stile a metà tra il sardonico e il giocoso, come il volto di questo pazzo mondo che fa sulla terra le veci degli Inferi.