D come Davide


Recensione a D. Rocco Colacrai, D come Davide. Storie di plurali al singolare, Le Mezzelane, 2023, Euro 13.

Davide Rocco Colacrai si conferma voce interessante e raffinata, dotata di un proprio peculiare timbro anche in questa silloge, D come Davide, che – come specifica l’autore stesso – muovendo “da una dimensione strettamente personale” finisce col “trasformarsi in una storia del mondo”.

Questo accade perché il poeta si fa cassa di risonanza di una serie di vicende, alcune legate a una Storia assurta a dominio di una brutale “selezione naturale” in cui il diverso finisce col soccombere, altre fiorite nelle pagine di romanzi o tra le maglie di altre poesie. Colacrai compie un atto di immedesimazione, dolcemente (ma anche dolorosamente) insinuandosi nelle vite di cui si rende voce; il momentaneo spossessamento di sé dà avvio al processo di identificazione nell’altro che al sé comunque in qualche modo riconduce, perché l’autore riscopre frammenti della propria anima in quella altrui. La maggior parte delle liriche è così costruita in prima persona per effetto di un procedimento che – lo ribadiamo – non è mero esercizio retorico.

In D come Davide, Colacrai riannoda la propria vicenda personale alla storia dell’umanità sin dai suoi progenitori, Adamo ed Eva. I loro archetipi rivivono in ciascuno di noi, che “Dall’oblò delle nostre tasche assaggiamo il paradiso / senza farci il segno della croce”. Loro retaggio è il nostro ritmo di innocenza e trasgressione, la tensione a cogliere “la rugiada vergine del giorno” e a sentirci costantemente rigettati da un Eden che per noi è indefinita saudade. I gulag, il Cile di Pinochet, il confino alle Tremiti per gli omofili, il massacro di Shatila: in queste oscure pagine di storia s’innalzano parole di vinti, quasi preghiere (quello della preghiera è vero e proprio Leitmotiv della silloge) elevate a una più alta, forse utopica, istanza di Giustizia. A queste figure, di cui il poeta puer divinus rivive sogni e traumi, si alternano personaggi scaturiti dalla letteratura, e dal suo potere resi vividi e veri, e ancora le memorie della storia familiare di Davide Rocco, tra cui spicca, in particolare, Anna (Un’Anna tra le altre), creatura limitanea (La porta di Anna), quasi consegnata a una dimensione mitica. È lei che sembra scandire il tempo della preghiera (“Qualche volta parla da sola, mia madre, / scopro le labbra, leggere come un pensiero, / che quasi soffiano ricordi, / o forse preghiere”); è lei la depositaria della dimensione del silenzio (“quei silenzi / che l’avvicinavano al cielo, almeno un po’). Dimensione che si fa pervasiva nella silloge, perché alternativa al rumore assordante di una Storia che aliena. È allora che scaturiscono i soliloqui, carezze allo spirito (“i soliloqui fiorivano / come azalee”), e che i sogni possono ancora subentrare al reale, fondersi e confondersi con esso, riscattarlo, restituire il calore laddove prevarrebbe il freddo della solitudine. Accanto alla figura materna, rivivono anche il padre, che sosta commosso al cospetto de L’albero di Giovanni (Falcone) e che nella sua pietas, ruvida ma gentile, è a suo modo albero egli stesso; il nonno, Venanzo dagli occhi azzurri, occhi che spiccano come “due nudi delfini al mondo” anche per le “ciglia d’arpa”, strumento caro a Colacrai. Significativa, a tal proposito, sarà anche la presenza del violino nel testo dedicato all’assolo di donna nel Gulag, in cui una figura di donna etichettata come “pazza” “impugnava un arco come impugnasse il dolore”, cercando di definire uno spazio di sopravvivenza nell’alienazione della realtà concentrazionaria.

Di quelle sofferenze ma anche dell’abbarbicarsi all’esistere di tante vite interrotte la voce dell’autore si fa “eco”. Quello dell’eco è un altro elemento proprio del mito personale del poeta: è smaterializzazione di ciò che ebbe tangibilità (l’“eco del pane”); è mormorio interiore che riconduce all’archetipo materno per eccellenza (“eco materno / delle madonne immacolate”); è concretizzazione stessa del mistero della vita al suo occaso (l’“eco indefinita” di Trilogia dell’addio III). È l’eco di un pensiero di dolore, a volte nata dalla “malattia del desiderio”, che attraversa oceani spazio-temporali per essere raccolta in quell’ideale conchiglia ch’è la poesia, magari anche volano dell’“iride della nostra risurrezione”. Così, i cromatismi bui (l’“arcobaleno nero”, ma anche il “canto dal roveto nero”), allusivi al ritorno all’“utero sterile” di una terra desolata, conoscono un bilanciamento negli azzurri, nei chiarori aurorali, nel verde del faro, nell’“aureola di fogli di quaderno e biglietti di carta” attorno all’albero di Falcone, testimonianza che forse è ancora possibile estrarre qualcosa che non sia ‘inferno’ dal “grembo indefinito dell’incubo”.

La variabile umana


Recensione a E. Stragapede, La variabile umana, LiberAria, Bari 2022, Euro 12.

La variabile umana di Elisabetta Stragapede è uno sguardo lucido e disincantato, mai giudicante, su una varia umanità. Umanità in cui il lettore stesso finisce in qualche modo con il riconoscersi, perché – come evidenzia Anna Toscano nella Postfazione –, “questi versi non parlano di qualcuno o di qualcosa di generico, ma parlano di te e di me, di noi tutti, parlano delle persone e alle persone, e lo fanno con l’accuratezza e la grazia di chi ha un’impellenza nel dire e il suo dire si fa poesia”.

Con ironia Stragapede assume a impalcatura il formulario del celebre gioco “Nomi, cose e città”… Il primo sguardo è rivolto al “troglodita del Terzo Millennio”, esemplare disponibile in grande abbondanza nel nostro Paese, “analfabeta funzionale / numero votante”, dedito a stordirsi con un riso ch’è tutt’altro che avvertimento del comico, ma piuttosto assimilabile al celebre risus abundans in ore stultorum. Tale riso destituito d’intelligenza, e quindi insegna di abbrutimento, e una totale dedizione al ventre sembrano la condizione ideale per l’abdicazione all’interesse verso l’oìkos comune: “mentre ridi e t’ingozzi / da qualche parte / si spartiscono l’umanità”.

Poi c’è tutto un mondo di vinti, gente che sembra affiorare dai “sotterranei della storia”, quali Antonio delle Buste, declinazione dell’icona del filosofante folle, o Gina. Nell’evocazione di questa figura emerge un senso di dolente pietas: “Quando sei tornata / al ventre silenzioso / la neve era ancora un’ipotesi / e il sole resisteva alla luce”. In Celeno la fatica dell’esistere affiora attraverso l’immaginario gorgoneo, ma anche grazie a una petrosità viva nel “puzzo di paludati gesti”, nelle “bocche molli”, negli “obtorti colli” che ammiccano alla celebre locuzione. Nel movimento della prima sezione della silloge, Stragapede restituisce voce anche a Delia, la celebre donna di Ostuni, morta nell’ultimo stadio di una gravidanza in cui resterà cristallizzata, come se fosse la sua stessa condizione esistenziale. Eppure, se chi ora è racchiusa in una “teca di cristallo” sperava pascalianamente di perpetuare un’umanità che fosse una “canna pensante”, dobbiamo ritenere che la sua aspirazione sia stata tragicamente tradita, non solo nella sua maternità infranta ma nell’insensato andare del genere umano stesso. “Quando abbiamo abitato lo sbaglio?”, si chiede Stragapede, infatti, in un altro componimento, il già citato Gina.

Non a caso, nella seconda sezione, Stragapede asserisce perentoriamente, in riferimento agli uomini: “Vi siete trasfigurati / entità a immagine di Dio”. Eppure questa trasfigurazione appare la hybris di un indiarsi abortito: “il destino / mette sempre una maschera addosso / che punisce, tortura / o ti getta in un fosso” e “L’unica libertà che possediamo / è darsi la morte per propria mano”. Nella seconda parte della silloge prevale un sentire distonico, un tutt’uno con il cemento che si porta via l’incanto, per quanto ruvido, della civiltà contadina; esso procede di pari passo con lo snaturamento del Sud amato, con i suoi paesi “in penombra” e le ore “incartapecorite”. In un’arsura perenne persino la Madonna Ἐλεούσα, madre della tenerezza, sembra partecipe d’un moto di sterilità, un’antipasqua la cui ipostasi è l’“uomo che galleggia nell’acqua di mare”.

Eppure l’uomo continua il suo viaggio, conducesse anche al nulla. Certo, il suo sentire difficilmente sarà sintonico col cosmo: solo improbabilmente egli potrà sentirsi “casa e bottega / arredata con gusto”. E chissà se nel “paniere di Pandora / scoperchiato / da un vento / lungamente covato / divenuto tempesta”, c’è ancora la Speranza… Gli uomini però sono sempre pronti a cercare (bella quest’immagine!) di “risanare / le piaghe che s’incistano nel rumore / sordo delle inquietanti danze”. E la vita prosegue in un tempo che non si sa bene se si possa definire incantato o stregato; tempo di cui la donna è spesso icona violata, etichettata quale strega se sfugge ai lacciuoli o costretta a richiamare “lupommini” “sulla rotonda” da cui non le resta che elevare una preghiera alla “Madre della polvere” perché l’aiuti a volare via.

A chi assiste al triste declino della “variabile umana” non rimane che innalzare “un canto secco / di scorze in gola” oppure lasciare che i pensieri si librino “In mulinelli odorosi”, dando vita a versi interessanti come questi: “Della roverella maestosa / resta l’ombra del canto / il sordo richiamo / del cane che nuvola / intorno al pastore”.

Formulario per la presenza


Recensione a F. Innocenzi, Formulario per la presenza, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2022, 8 Euro.

“Questa piccola raccolta è per me un formulario per la presenza, perché ogni verso è una pietra miliare in più verso l’esserci, in me stessa e per me stessa, nel mondo e per il mondo”. Queste parole della Postfazione chiariscono il senso della nuova raccolta di poesie di Francesca Innocenzi, un’autoantologia allestita nel momento in cui l’autrice ha ritenuto che fosse “giunto il tempo della riflessione e della scrematura” e avvertito la necessità di selezionare le liriche incluse in sillogi precedenti che non avessero cessato di suscitare in lei risonanze interiori.

Ne è nata una plaquette di circa venti pagine, con Anna Achmatova in epigrafe a introdurre il motivo dell’aridità, pervasivo all’interno della raccolta.

Se “ogni verso” – come si diceva – è per Innocenzi “una pietra miliare in più verso l’esserci”, in realtà tra gli elementi dominanti si riscontra, nel Formulario, proprio un bruciante senso dell’assenza.

Non a caso in posizione incipitaria si colloca Un ricordo e la prima immagine è quella di “ombre di gatti”. Esse però paiono altro da ciò che sono, in un serpeggiare che le assimila quasi a un’idea di tentazione che si affaccia nel locus amoenus dell’orto. È forse la tentazione di cedere al portato pietrificante dell’asserzione che segue: “Tutto è passato”.

Un senso di fatica traspare nel secondo componimento, in cui alle ortaglie subentra l’immagine della città. Inutile dire come essa non appaia affatto un luogo in cui ci si possa serenamente e dolcemente affidare al mormorio della vita, perché vi si sperimenta semmai il disinganno: “città di mimi e attori / di manicomi e di ospedali / dove noi ci salutammo frodati di risposte / sul gradino di un portone infranto”.

L’ossessione del jadis affiora un po’ dappertutto: “non sono più nuova per te”; l’abito dell’io è assimilato a “una sottoveste” metaforicamente “usurata di silenzi” e dominano il senso della dismissione, del distacco da una condizione precedente che non tornerà. Il motivo del ricordo riaffiora nelle belle terzine d’inverno, con la prima terzina che presenta un movimento efficace: “si essiccavano gerani /al tempo del nostro finto contratto / scaduto. fumo fitto di incensaglie”.

 Si affacciano volti di un passato ormai relegato nella dimensione del non essere. Tra questi il cugino Luca, con il quale Innocenzi intesse un lucido dialogo, quasi nella speranza di un’epifania improvvisa (“può succedere che tu accada / al primo stormire del mattino”), di un accadere del vero che possa annullare il confine tra la vita e la morte.

Continua e fitta è la meditazione sul tempo, che si fonde con la querimonia per il suo troppo impetuoso scorrere e per la sua portata rapinosa: “se mai fosse scorso altrimenti / il tempo”, si scrive nel componimento a Luca; poi altrove Innocenzi osserva che è “caduto come miele sul selciato / il tempo” o che “il tempo trascorso è come una foto / dove non sai se guardare o morire”. Nel dialogo con un Tu assente, la cui lontananza si ipostatizza nel telefono spento, la poetessa così confessa: “di questo tempo spoglio sei tu l’evento”. Il tempo, insomma, è il protagonista inesorabile del Formulario; l’anelito a un “istante eterno” di cui non si può che constatare l’utopia. Ne consegue il percepire profumi che giungono da un passato cui si contrappone un vivere arido proprio come “un agosto strano”. Una dimensione in cui tutto sembra congiurare per consegnare l’esistere alla Morte; si consideri in tal direzione Andria-Corato, 12 luglio 2016*: “l’orologio il binario il capotreno / eseguono gli ordini della padrona”. E la padrona è la grande livellatrice.

Pure quello del Formulario non è un canto disperato perché molti sono gli elementi di slancio vitale. Slancio forse fine a sé stesso, sì, ma non per questo meno meritevole di perpetuarsi: “vieni, Ondina / la fiaba che giocavi restò incisa nel sole”, recita uno dei componimenti più intensi che, sempre in linea con quell’allure ragionativa e dialogante di cui si parlava, si chiude efficacemente con “tu dici essere saggio l’immobile orizzonte. / ma io amo la fronda / che scardina il novembre, amo l’ombra che risplende / la rugiada che frantuma”. La vita, nel suo mistero che scorre, è forse tanto simile a quel prato che “sa da sé / quel che deve diventare”; un prato la cui erba non ingiallisce a dispetto dell’arsura.

Il dettato di Innocenzi è comunicativo e non impervio; appare asciutto, privo di fronzoli, sommessa prosecuzione di un carme in amebeo col cuore che rifugge le maiuscole perché la sordina di un’ininterrotta preghiera sembra la dimensione a questa poesia maggiormente connaturata.

Dall’altra parte dell’orizzonte


Recensione a B. Costa, Dall’altra parte dell’orizzonte, Edizione e selezione a cura di Vito Davoli, PellicanoCult, Roma 2022, Euro 10.

Poeta e scrittore di lungo corso, fondatore di Pellicano Libri, Beppe Costa pubblica in questo volume, avvalendosi della curatela di Vito Davoli (che ha operato la selezione), un florilegio delle poesie da lui composte negli ultimi anni. Testi in cui – come evidenzia Davoli – l’autore si presenta “armato di una sincerità disarmante” non meno che nella sua opera a nostro avviso migliore, la trilogia confluita in Romanzo Siciliano. “Irriducibile bambino prigioniero di un corpo consumato e canuto” (Marco Cinque), Costa ti induce a guardare il reale secondo la sua prospettiva, in un percorso dolceamaro come l’esistere dell’uomo.

Dall’altra parte dell’orizzonte si apre sulla dichiarazione di un’aporia; emerge, infatti, l’impossibilità dell’individuo di pervenire a risposte sul senso ultimo dell’essere e su questioni metafisiche: “quel che non so / quel che non sapete / come siete nati / quando saremo morti / il resto si può scoprire / (volendo)”. Tutto ciò che si può conoscere è parte della vita dell’uomo e delle interazioni tra esseri viventi; esso si dischiude allo sguardo per effetto di un atto di volontà. L’andamento dei versi appare quasi perplesso, come se la parola si facesse strada a fatica da una riflessione avviata nel silenzio. Non è un caso che manchi il verbo principale, quello che dovrebbe reggere i pronomi dimostrativi in apertura.

Quasi scaturito dalla riflessione sull’oltre inconoscibile e su quanto celato dall’altra parte dell’orizzonte, il secondo testo è dominato – come altri della raccolta – dal pensiero della morte, che porta l’individuo all’assunzione di pose contratte, a voler quasi occupare il minor spazio possibile, nell’illusione che quell’esiguo spazio non possa essere sottratto. Nel finale, per contrasto, vibra il dono dell’alba, con lo stupore di essere vivi; il senso di stupefazione che ne consegue è l’altro volto della silloge di Costa.

Da un lato assistiamo a una cogitatio mortis permanente (il “possibile traguardo / d’un dolore infinito”, l’“attesa dell’infinita notte”, generatrice di testi quali “quando verrà il giorno di dimenticate cose”). Essa porta a percepire costantemente accanto a sé “il freddo respiro” della livellatrice. D’altro canto, però, Costa dà voce all’ebbrezza di vivere, al desiderio di partecipare ancora, in pienezza, al ballo stralunato dell’esistere. Una delle manifestazioni più intense di vitalità è senz’altro l’amore. Esso è rammemorazione (“mi ritrovo balbettante com’è giusto che sia / un vecchio di cent’anni che crede d’averti vicina”; “qui adesso da questa terra amata rivedo le stelle / ma a che servono se non a ricordarmi i tuoi occhi / e riviverli per sempre”) in un inesausto riordinare cartoline di sé, ma è anche dimensione che si misura nel presente, compensando il dramma del tempo che passa e restituendo linfa a uno spirito mai invecchiato.

È dunque quello di Costa un canzoniere d’amore, ma anche di amara constatazione dei guasti prodotti dall’uomo, dal suo egoismo e dalla sua vanità: scaturiscono così i testi dell’“agra vita”, in cui si arriva persino quasi ad auspicare la scomparsa del genere umano perché possa salvarsi il pianeta. Trovano spazio così la delusione per l’involuzione del secolo breve (“abbiamo seppellito lettere d’amore e altro”) e l’amarezza per quei plutocrati che giocano a scacchi con il futuro della gente comune, per quel trionfo del consumismo contro cui si scagliò Pasolini, per l’ottusità che offusca anche quella dovrebbe essere una terra di elezione, la poesia. Costa ironizza sul narcisismo di quanti “appendono / targhe e diplomi” credendo che i riconoscimenti effimeri in premi letterari (con giurie talora compiacenti) possano garantire un’aura quasi di immortalità. Eppure la poesia può essere ancora il terreno dell’autenticità, soprattutto nel fertile connubio con la Musica (si pensi al testo a Marcos Vinicius); essa è rabbia e protesta di chi coglie che “le strade dell’odio si affollano”; è lotta contro il nulla che avanza. Non a caso, la Morte è “restare immobile e senza più parole”. La poesia per Costa è anche tributo di sodalità, come in ai pochi rimasti, una sorta di ballade du temps jadis in cui rivivono Amelia Rosselli, Goliarda Sapienza, “forse spinta o forse per la nebbia prodotta dal fumo / delle infinite sigarette” precipitata “dalle scale di Gaeta”, e altre figure della nostra letteratura di cui Costa ha incrociato le strade, in quanto operoso animatore culturale.

La poesia di Costa incede in un’aura crepuscolare, senza intellettualismi, attingendo al parlato (“vada a farsi fottere (anche) il canto delizioso / d’uccelli in primavera, ché di questi tempi / le primavere ci hanno detto male”). La sua estraneità alle consorterie intellettualistiche è testimoniata, a livello stilistico, anche dalla totale assenza delle maiuscole a inizio componimento. La mancanza di interpunzione conferisce ai testi un carattere di frammentarietà, quasi fossero lacerti rapiti a un pensiero permanente che si avvolge su sé stesso, si perde e si ritrova per vie scalcinate, per poi colpirti all’improvviso con parole sommesse (“risana questo cuore antico / memore di ricordi che lo hanno traversato”) o riscattare l’insensatezza dominante con un’immagine luminosa. Germoglia così il testo per noi più bello della silloge, posto a suggello della stessa e innestato sulla scia di un topos che ha attraversato l’intera tradizione occidentale, da Mimnermo a Virgilio a Dante, da Leopardi a Giacosa a Ungaretti. Si tratta di una poesia semplice, senza fronzoli, ma che con il vento, e quella foglia che potresti essere proprio tu, ti trasporta libero, per un istante, lontano dalle brutture: “nessuna foglia è triste nel cadere / avrà vita più breve ma finalmente libera / complice il vento viaggia dai Parioli a Testaccio / ma se ha fortuna cambia anche paese e città / talvolta vestita di parole dà luce alla notte”.

Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca


Recensione a L. Spurio, Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca, seconda edizione, PoetiKanten Edizioni, Collana L’Appello, Rogliano 2020, Euro 10.

Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca, opera di Lorenzo Spurio giunta alla seconda edizione, è senz’altro un lavoro che colpisce per la visionarietà, la cura stilistica e l’intensità con cui la tragica esperienza del poeta spagnolo è rivissuta in una sorta di laica via crucis (quest’ultima componente è ben evidenziata nella bella introduzione di Nazario Pardini).

L’opera è costituita da undici componimenti in cui si consuma la rimeditazione del destino di García Lorca, fucilato a Víznar, nell’agosto 1936, dalla polizia franchista per le sue idee politiche ma anche per il suo stile di vita e le inclinazioni omosessuali.

In Memento il poeta andaluso aveva scritto: “Cuando yo me muera / enterradme con mi guitarra / bajo la arena. // Cuando yo me muera, / entre los naranjos / y la hierbabuena”. Proprio da quei versi Spurio ha tratto il titolo del suo Recitativo; purtroppo il corpo dello scrittore non è mai stato ritrovato, ma, in uno dei testi che compongono la plaquette, Spurio sembra evidenziare come oramai García Lorca appartenga all’immensa natura ed esista in molteplici frammenti in cui vibra vita interiore. L’io lirico dice, sì, “cercatemi là, non lontano dal limoneto nauseante”, ma al contempo dichiara di “vagare nei dintorni confusi / e abitare smanioso ogni luogo del campo”. Non va, dunque, ricercato nell’utero di Gea ma tra gli spiriti dell’aria.

L’opera vive di due differenti movimenti. Il primo è quello che segue la vicenda di García Lorca condotto alla fucilazione. In Nella roccia vescovile pare operante la tensione alla cristificazione, che però non deve essere intesa come forma di irriverenza, perché concorre a proiettare in un’aura sacrale il martirio di chi muore per oltraggio. Testimone dell’atto una natura bellissima, popolata dalle presenze care alla poesia di García Lorca, con cui Spurio stabilisce continui legami intertestuali. Così, Il bivio di campagna si apre con l’immagine delle formiche (le hormigas di Alma ausente, per esempio), che sembrano quasi, nel loro febbrile attivismo, spiare l’altrettanto frenetica ma nociva attività dei carnefici. In quel contesto spiccano ancora gli aranci e i “capelli scomposti” dello scrittore sembrano abbracciare l’aria. Quanta differenza dai “maldestri assassini” che lo abbatteranno, scherani del “plotone-fantoccio”! La Natura è partecipe dell’evento: “L’acqua putrida dei pozzi si disseccò” o ancora “Le piante quel giorno hanno smesso di parlare / gli acuminati rami superbi imposero il silenzio”. E che dire delle rane che “vagano stordite e deluse”? Alla disumanizzazione dell’uomo-Caino pare corrispondere, per contrasto, un’intensa umanizzazione di elementi vegetali e animali, al cospetto della poetica icona dello scrittore (“Sul volto un sorriso di gigli freschi”). Spurio insiste come la morte dell’andaluso non sia davvero tale: “Morto è solo chi si dimentica e scompare / come una cicogna nera nella notte petrolio”. La resurrezione dell’artista assassinato sarà affidata ai suoi versi.

Ed ecco che si spiega il secondo movimento della plaquette, che non è giustapposto al primo, ma ad esso intimamente connesso. Spurio rivive la magia di alcuni testi di García Lorca, quasi che – nella liberazione dello spirito del poeta – essi si rimodulassero nell’aria circostante. Tagliami l’ombra riprende il famoso incipit (“Leñador. / Córtame la sombra”) della Canción del naranjo seco, dando voce all’arancio senza frutto, al suo disperato desiderio (“Quiero vivir sin verme”). Esso percepisce “l’oltraggio” del cardo; le sue “mammelle arancioni penzolanti” sono “avvizzite dalla disperazione”; per un attimo balena l’idea che l’albero che vuole vivere senza vedersi e chiede al falegname di tagliargli l’ombra sia il poeta stesso, che esprime il suo sentire distonico. Nel finale, torna l’immagine delle formiche: “Nella sfida del cardo / col pompelmo / vince la formica / che domina entrambi”. Intenso è anche il Lamento dell’infante sprofondato (particolarmente efficaci l’explicit e la strofa che punta l’obiettivo sulla mater dolorosa che “rimesta nell’utero con dita adunche”), testo che si colloca prima di un’altra variazione di sapore lorchiano, C’era Amnon, testo ispirato a Tamar y Amnon.  

La poesia lorchiana rievocava con forza visionaria l’incesto di Amnon, figlio di David, che viola la sorellastra Tamar sotto l’impulso di un amore violento, maledetto (“Violador enfurecido, / Amnón huye con su jaca”), al cospetto del quale il canto smuore nel silenzio (“David con unas tijeras cortó / las cuerdas del arpa”). I passaggi più forti del testo di Spurio, che accosta a Tamar le “donne vessate e stuprate / figlie concupite e oltraggiate / ragazze abusate e sfruttate”, risiedono, a nostro avviso, nella rievocazione di Amnon. Spurio si scaglia contro il “laido violatore / del candore di primavera”, il “Caino del sesso / sadico fratricida della perversione”, uomo dal “ferino respiro”, che Lorca rappresentava llenas las ingles de espuma (“pieni gli inguini di spuma”). Certo, non stupisce – pensando all’originale lorchiano – che l’autore dei Sonetos del amor oscuro sentisse fortemente su di sé il peso di una colpa d’amore diversa dall’incestuosa passione di Amnon, ma socialmente riprovata perché ritenuta contro natura.

L’opera di Spurio è ulteriormente impreziosita dagli “schizzi ad inchiostro di china interpretati dal maestro Franco Carrarelli” e ispirati ai testi poetici dello scrittore jesino. Quello che colpisce del Recitativo è che, pur muovendo da una tragica vicenda di morte, l’opera è costantemente irrorata di luce, di colori d’oro, di preziose immagini di vita e di bellezza (penso alla magnolia o ai campi di zafferano). È il dono della poesia che dialoga con la poesia e con quella “radice / magnifica e atroce” che all’esistere e al mondo ci lega.

Alfredo Vasco e i suoi eteronimi (sproloqui e poesie)


Recensione ad A. Vasco, Alfredo e i suoi eteronimi (sproloqui e poesie), Francesco Tozzuolo Editore, Perugia 2022, Euro 15.

La raccolta di Alfredo Vasco è un esordio poetico interessante, con alla base un gusto del divertissement di matrice umoristica, ma anche una poderosa componente di amara assunzione di consapevolezza della ferinità della natura umana.

Vasco adotta l’artificio degli eteronimi, che vanta una tradizione significativa nella letteratura internazionale: si va dal caso di Olindo Guerrini, che assunse quelli di Lorenzo Stecchetti, Mercutio e persino dell’umorale zitella Argìa Sbolenfi, a quello, estremamente celebre di Fernando Pessoa. Il poeta portoghese forgiò infatti personalità poetiche complesse, ciascuna con una propria storia e una precisa connotazione, da Álvaro de Campos a Ricardo Reis, da Alberto Caeiro a Bernardo Soares, e così via.

Le tre identità cui Vasco dà voce sono quelle delle sue anime: Alfredo, costruito per analogia ma non in tutto similare (“Ha i miei stessi ricordi. / Invecchia con me. Ama come me”, scrive, senza affermare la piena coincidenza con sé stesso); Narduccio, il “filosofo esistenziale”, dal poeta connotato attraverso un gustoso pastiche linguistico siculo-salentino; Colin, col suo idioma petroso e dai suoni gutturali, ch’è – come scrive Daniele Giancane nella bella prefazione – il dialetto di Grumo. A complicare ulteriormente il quadro è la componente attoriale inscindibile dalla personalità di Vasco (“Penso che Vasco sia un poeta che fa l’attore”, scrive Albertazzi in una testimonianza in appendice al volume); nasce così un ulteriore gruppo di testi che l’autore definisce “sproloqui”. Questi ultimi si dispiegano all’insegna dell’umoralità, spesso connotati dal gusto del gioco linguistico; è il caso dello Sproloquio d’attore (II) in cui Vasco, muovendo dal vocabolo “pedissequo” decide di perseguire una scrittura che si affidi a una sorta di carnevalizzazione fonico-linguistica, in cui l’elemento semantico è del tutto subordinato al gioco degli arguti abbinamenti di suono. Non tutti gli sproloqui, però, sono connotati da questa giocosità erede del gusto palazzeschiano; certo, però, i risultati migliori nascono da associazioni etimologiche o di campi semantici (lo sproloquio VIII) oppure da un disvelamento, caro al Barocco, dell’umano disinganno (sproloquio V).

È una raccolta quella di Vasco in cui spiccano alcuni testi in particolare. Nel canzoniere di Alfredo, la poesia raggiunge a nostro avviso i suoi momenti più limpidi nella rammemorazione dell’infanzia, che, da un lato – forte dello sguardo fanciullo –, mitizza sensazioni, figure ed emozioni, dall’altro non manca di un corposo realismo. Realismo che si traduce nell’uso della parola schietta, materica, anche del turpiloquio e dell’elemento scatologico, non di rado. Versi come questi restituiscono l’agrodolce essenza dell’esistere: “Poi viene il Natale. / Le bucce di mandarino. / Papà non è solo un sogno. / Le miniere del Belgio me lo hanno rimandato indietro. Con la faccia sporca di carbone. / La mamma chiude la porta. / Per questa notte non potrò dormire con lei. / Corro fra i profumi dei fiori di mandorlo. / E fra le gambe mi scoppia la voglia. / Mia sorella c’ha il sangue nelle mutandine”. Essi ci paiono rappresentativi della poetica di Vasco. Ci si muove costantemente tra innalzamento per effetto del puer divinus che guarda poeticamente al mondo, per poi subito dopo sperimentare la precipitazione nelle panie della concretezza e dei sensi. Così, al riferimento al profumo del mandorlo in fiore subito subentra il cenno all’eccitazione fisiologica del fanciullo che scopre il piacere, allo stesso modo in cui la sorella sperimenta i disagi del ciclo mestruale. Nella medesima direzione segnaliamo Il tunnel, altro bel testo che potremmo racchiudere nell’immagine, in cui molti si riconoscerebbero, de “L’estate che non passava mai / Come una corsa / Infinita / Nel tunnel della felicità”.

 Curioso che l’icona, cara a Neruda, del tunnel – solitamente negativa, in letteratura e nel comune sentire, per il suo portato di oscurità – sia qui abbinata alla felicità (non così, invece, in Barlumi di infanzia). Eppure, a pensarci, essa rende bene l’essenza dolceamara degli istanti di felicità che l’uomo assapora, brevi e intensi al punto che, mentre li esperisci, ne provi già nostalgia. Accanto a questi componimenti ci piace ricordare l’explicit di Faust (“Ritrovarmi / sempiterno Faust / ancora una volta nudo / svuotato / al cospetto di un Dio che non c’è”) o ancora Ed all’improvviso, in cui affiora il motivo della pervasività della Morte, che attraversa l’intera raccolta di Vasco (si pensi al finale di La festa di la Madonna o ancora ai testi dedicati alla guerra, tra i quali ci convince particolarmente Mio figlio se n’è andato). Sentore di danse macabre che il poeta cerca di esorcizzare con l’autoironia di testi quali Mi sono amato, con l’umorismo amaro di Parteit a tressett, con il giocoso delirio citazionista degli sproloquio l’Italum acetum dello Sproloquio d’attore (XI). Su tutto, domina la volontà di dare alle cose il loro nome, perché in fondo è questo il grande potere del poeta e dell’attore: passando di eteronimo in eteronimo, può mostrare il fetore di decomposizione dietro le apparenze luminose delle maschere in cui l’umana feritas si trincera.

Legati i maiali


Recensione a T. Mastrototaro, Legati i maiali, Marco Saya Edizioni, Borgoricco 2020, Euro 12.

Legati i maiali di Teodora Mastrototaro è una raccolta poetica che non può non suscitare inquietudini e riflessioni.

A prescindere dal fatto che si condivida o meno l’antispecismo che anima l’autrice e ne guida le battaglie (la problematica è complessa e anche l’uomo può talora restare vittima di altri animali nella catena alimentare), il senso di straniamento che Mastrototaro riesce costantemente a determinare nel lettore rappresenta senz’altro il maggior punto di forza dell’opera.

Essa c’introduce nel microcosmo concentrazionario del macello, tra vittime e carnefici. L’io lirico si sdoppia, in un prospettivismo che l’induce, nella prima sezione dell’opera, a identificarsi con le vittime del brutale massacro e, nella seconda, con gli addetti alla macellazione. È, tuttavia, evidente come la sua adesione interiore vada tutta alle creature destinate alla morte nella convinzione che il loro esistere e sentire sia inferiore a quello degli uomini. Ammesso e non concesso – sia detto per inciso – che oggi si attribuisca ancora valore alle vite umane, problematica su cui a nostro avviso ci sarebbe molto da discutere…

Mastrototaro è poetessa viscerale, che non esita a chiamare le cose con il loro nome, dando forza poetica anche alla crudezza di un lessico che allude alle funzioni fisiologiche, spesso riflesso involontario della brutalità della macellazione.  Nella prima parte, il processo condotto dall’autrice è duplice: da un lato, infatti, la scrittrice insiste sull’umanizzazione dell’elemento animale. Significativo è il continuo alludere a categorie che spesso l’uomo crede propria esclusiva prerogativa; penso alla genitorialità o ai rapporti familiari: “Madre, non ho il permesso per le stagioni: / devo crepare in assenza di stelle, in assenza di sole”. La sottolineatura del contrasto tra i ritmi della natura, con i loro cicli di morte e rigenerazione, e il carattere definitivo del destino che attende le vittime rinvia, peraltro, a riflessioni che da Catullo – applicate all’uomo – avevano trovato terreno fertile in Leopardi e poi ancora, con struggente verità, in Levi. Il lessico dell’affettività sembra negato dalla brutale indifferenza dei carnefici: “Da madre mi chiamo fattrice”, asserisce una delle creature cui Mastrototaro dà voce. Se, quindi, la poetessa umanizza l’elemento animale, d’altro canto ella non manca di squadernare l’anatomia delle vittime, mostrando come l’agire dell’uomo le riduca a corpi inerti, reificandole. Odori sgradevoli, immagini cruente, riferimenti allo scatologico e al basso corporeo finiscono non col destituire di dignità le vittime della macellazione, ma col rivelare la componente ferina insita nell’uomo che nell’asetticità di quei contesti di morte emerge nitida.

Molto efficace anche la seconda sezione. Numerosi sono i testi che colpiscono la nostra attenzione, a cominciare dal primo, in cui campeggia la “macchia a forma di stella” sulla fronte di un cavallo. L’autrice senza infingimenti ci mostra “L’occhio che schizza dalla cavità orbitale”, con la “scia luminosa” assimilabile a una cometa, osservazione che suscita l’amara ironia del finale di questo insensato catasterismo. Il secondo componimento induce a riflettere su quanto il massacro sia a volte inane: “la Trichinella ha deposto le uova / nel maiale ammazzato”. Il terzo vive tutto della serrata iterazione del processo generativo: “La vacca sarà fecondata / per tornare a essere madre / di un figlio che sarà padre / di una figlia che sarà fecondata / per essere madre di un figlio / il cui seme lo renderà padre” e via discorrendo. L’insistenza sulla ciclicità dell’atto di donare la vita appare stridere con l’immagine inziale, brutale, esiziale, delle “Braccia lunghe con lunghi peli” che “estraggono dal ventre della vacca / la sua più bella malattia: un maschio”. Ed è proprio questa, forse, l’intenzione di Mastrototaro: se, nella distorta ottica dell’uomo, gli animali perpetuano la catena della vita al mero scopo di fornire gustose bistecche alla sua tavola, non è certo questa la ragione ultima di quel processo. Altri testi ancora si potrebbero citare: quello consacrato alla lenta morte del feto di vacche gravide; il paradosso della mancata macellazione nel giorno di Passione; l’explicit del testo de La mezzena nella cella frigorifera e infine il Grand Guignol della “sala vuotatura”. A volte, l’espressione si condensa felicemente in pochi versi; si pensi al componimento consacrato all’enigma dei “movimenti ossessivi degli animali in attesa”. E nella poesia che si apre su La prima volta che ho stordito un animale ho chiuso gli occhi emerge un’ulteriore insanabile dualità: se quella che muore era vita, pur disprezzata, pur soggetta alla deminutio specista, si è certi che chi preme il grilletto e perpetua un atto di disamore non sia egli stesso un mort vivant?

Me pudet. Poesie 1994-2017.


Recensione a S. Grasso, Me pudet. Poesie 1994-2017, edizione critica a cura di G. Cascio, Edizioni ETS, Pisa 2019, Archivio Silvana Grasso.

L’edizione critica Me pudet. Poesie 1994-2017, curata da Gandolfo Cascio nell’ambito della Collana “Archivio Silvana Grasso”, fondata e diretta dallo stesso Cascio e da Marco Bardini, consente al lettore di esplorare una sezione quantitativamente minoritaria ma decisamente interessante della produzione della scrittrice nata a Macchia di Giarre. Filologo classico, Silvana Grasso è autrice di racconti, romanzi e pièce teatrali; Me pudet, secondo volume della collana a lei intitolata, è dedicato ai testi poetici, pubblicati “per la prima volta” con un titolo emblematico, che – spiega Cascio – rammenta “la ritrosia e il disagio dell’autrice a esporre la parte più segreta e seducente della sua scrittura”. Si tratta di testi nati spesso in momenti estemporanei, per esempio durante l’assistenza alle verifiche scritte somministrate agli allievi.

Ottime chiavi d’accesso al volume l’introduzione e la postfazione di Gandolfo Cascio, docente di Letteratura italiana presso l’Università di Utrecht, direttore dell’Observatory on Dante Studies. La postfazione dà infatti conto di questioni di ecdotica: i testimoni manoscritti “vanno ritenuti dispersi” (con l’eccezione di P2 e P7), per cui l’edizione è basata sui file word della stessa autrice. Interessante la disomogeneità talora riscontrabile tra i titoli dei file e quelli dei testi in essi contenuti (opportunamente, a nostro avviso, Cascio ha optato per i secondi). Dopo aver ricostruito l’iter editoriale dei non molti testi dati antecedentemente alle stampe (tra questi il più noto è senz’altro Enrichetta sul Corso), lo studioso passa a una disamina stilistico-tematica dei versi di Grasso, individuandone la cifra dominante nella Stilmischung e nella “appartenenza alla cultura ellenistica prima ancora che a quella italiana”. L’esame delle forme metriche, dell’intertestualità e l’esposizione dei temi e dei motivi della poesia di Grasso sono condotti con finezza e acume critico, oltre che con il dono di uno stile elegante e di una scrittura accattivante. Cascio individua anche alcuni schemi costruttivi, esemplificati nella struttura di Fornicazione, testo a nostro avviso geniale. Lo scritto si conclude con una riflessione sul “poeta latitante”, in cui emerge la necessità di dissimulare la tensione alla scrittura poetica in un contesto in cui chi la coltiva “è percepito come uno “strano”, il “babbu (stupido) del paese” , secondo quanto riferiva Grasso stessa al curatore durante una conversazione. Alla luce di questa condizione lo studioso spiega la creazione di alter ego dediti alla poesia nell’opera narrativa e teatrale di Grasso: “ecco svelata la strategia per mettere in atto la personale mitopoiesi: scappare, ma per farsi acchiappare; nascondersi ma per lasciarsi trovare; occultare le proprie poesie inutili e offese”.

È una scrittura poetica di grande interesse quella di Silvana Grasso. Un’autrice in cui conosce piena testimonianza l’inesauribile vitalità della cultura classica. Essa diviene il filtro attraverso il quale leggere la realtà, in una tensione al dionisismo ch’emerge nell’esuberanza rigogliosa di uno stile materico e raffinatissimo anche negli sconfinamenti nel plebeo, così come nella presenza di figure quali la ricorrente icona della Baccante, il dio del vino stesso, Priapo, Sileno e così via. Anche il mito prometeico, con il senso di sfida al mistero metafisico e l’istinto di disobbedienza al divino, è presente, come oggetto di Pirocleptomania, ma anche quale elemento che affiora nel bell’incipit di Jecur (“L’aquila vuole il tuo fegato nero”).

Centrale è poi la figura di Atthis, che fa capolino nell’ennui dell’elenco di Smemoranda (colpisce il fulmen in clausula che riannoda le memorie classiche alla realtà presente), ma anche, ovviamente, nel testo specificamente dedicato al mitico sacerdote di “Cibele / divina”. Atthis, l’“imberbe / fanciullo”, è rappresentazione, cristallizzata nel momento dell’evirazione, di quella che ci sembra una delle componenti chiave del mito personale di Grasso, il παῖς. Ne troviamo traccia in Pedofilia (da intendersi in senso strettamente etimologico), che si chiude con l’immagine del teognideo Cirno; esso affiora poi, con vigore, in Fornicazione. Quest’ultimo è un testo molto interessante, che si pone sulla scia di componimenti ellenistici (penso alle zanzara di Meleagro, per citare uno dei più celebri); in esso, assistiamo alla scena che bene Cascio così riassume: “un granchio va a posarsi sul pube d’un ragazzo nudo quand’egli continua, indifferente, a bere il succo di frutta (di pera)”. L’esito è quello che i versi riportano: “L’assalto al fortino è compiuto / non manca che fulgida insegna / di chela / vessillo fatale sul tenero pene / ferito”. Molti i punti di forza del testo, il quale colpisce per l’inventiva linguistica, che va dall’uso di termini regionali come “muccuso” alle scelte mai scontate suggerite dal gioco di un metaforismo vertiginoso; l’effetto è di grande sensualità ma anche di raffinata ironia (si pensi all’evocazione del “veleno dell’Idra / consunto dall’onda mirtòa”). La poesia di Grasso sa dunque essere carnale ludus, scherzando con l’eros senza infingimenti in una sorta di moderna declinazione dell’erotopaegnion, in cui il granchio diviene doppio dell’autrice. Il ricorso al mito non di rado fa emergere la sproporzione tra i riferimenti colti e l’insignificanza delle situazioni presentate (si veda Inverecunde, in cui il deludente “pasto” amoroso suscita l’invidia di quello che fu “d’Atreo l’allegro banchetto” – e il lettore colto sa quanto sia stato “allegro” per Tieste).

Particolarmente interessante è l’epillio Enrichetta sul Corso, incentrato su una “figura efebica di travestito degli anni Cinquanta” (parole di Marina Castiglione). L’epifania di Enrichetta è delineata con maestria dall’autrice, che riesce, con poche pennellate, a rappresentare il sorgere e il manifestarsi del desiderio maschile, non solo negli sguardi cupidi. Il perenne dispiegarsi dell’istinto sessuale e la violenza gratuita che sfocia nel cruore sono i poli attorno ai quali si sviluppa la rammemorazione di Enrichetta. Il movimento dell’epillio rammenta strutture della tradizione (la pascoliana Digitale purpurea ma anche la montaliana Casa dei doganieri), con il “Ricordi Enrichetta sul Corso?” a fare da refrain, per poi chiudersi, come epigrafe funebre, sul perentorio “RICORDA ENRICHETTA / sul Corso”. Grasso conosce esiti particolarmente felici anche nella poesia d’ispirazione civile, in quanto riesce, senza moralismi o inutile retorica, a far emergere la disumanità di certe situazioni; penso ad Auschwitz 36170866 e al bellissimo dittico sul Pupo niuru.

Il dramma delle morti nel Mediterraneo, uno dei capitoli più controversi della storia del nostro Paese in questo scorcio del nuovo millennio (rispetto al quale la sensibilità di molti sedicenti poeti e intellettuali italiani latita), è espresso con un’icasticità e una forza non comuni. Memorie mitiche, ma anche della letteratura italiana, “menzogne di poeti” e realtà di fatto si fondono nell’epopea disforica del pupo niuru, che approda già cadavere sulle coste italiane, per essere rigettato in mare – anzi, “ruttato”, verbo ricorrente nel testo – da un barbone. Quest’ultimo lo calcia nuovamente in acqua, perché timoroso che l’affioramento del corpo senza vita possa essere respingente per l’umanità alla moda che affolla le spiagge (i corpi “infetteranno l’occhio in festa / di chi fa festa al Mare”), unica speranza di sopravvivenza per il senzatetto. Il lettore è affascinato dal modo in cui la poetessa s’avvale della parola, usando termini come “rugliare”, “ingrottare” o ancora univerbazioni quali “mortannegato” o forme come “sciacquarizzo d’onde che / tamburiano”. Alcuni momenti sono d’efficacia notevole; si pensi all’avvistamento del corpo da parte del barbone. Il lettore osserva la scena coi suoi occhi, segue la delusione che lo coglie quando si accorge che non anelli d’oro od orecchini costituiscono il bottino restituito dalle acque: “Gemme non sono, quel brivido di luce, né / diamanti / fantasmi sono di forestieri del giorno prima. / Occhi sono, / non occhi di Rinaldo né d’Ulisse l’Itacese, venturiero in questo / Mare, di Gela e niuri pupi”. Si consumerà così, per opera di un ultimo a sua volta reietto dalla società, il rifiuto del corpo estraneo da parte della terra sognata. Rifiuto di dare persino sepoltura a un “pupo” ben diverso dai carolingi paladini, un potenziale Ulisse di fatto reificato e più simile a un montaliano “osso di seppia”, ‘inabissato’ “per sudati calci” con l’accompagnamento di una preghiera blasfema.

Tempo d’opera


Recensione ad Alberto Toni, Tempo d’opera, a cura di Roberto Deidier, Il ramo e la foglia edizioni, Roma 2022, Euro 13 (in copertina riproduzione di Niente storie, olio su tela di Enrico Luzzi, 1993).

Tempo d’opera, volume postumo dello scrittore romano Alberto Toni, è un bellissimo libro di poesia, “viatico e testamento”, come scrive Roberto Deidier nell’Introduzione. Curatore del testo è stato Deidier stesso, che illustra i criteri di edizione nella Nota al testo a chiusura del volume. Quest’ultimo è costituito dai testi presenti “in un file in formato Word, denominato ‘Nuove poesie 2018-2019’”, cui Toni lavorava al momento della sua morte nel 2019. Il titolo era suggerito nel file stesso e la presenza di un occhiello “Tempo 1” lasciava intuire la volontà di una ripartizione in sezioni che di fatto non è stata condotta a compimento dall’autore. Deidier, infatti, precisa come il materiale versasse “in una fase progettuale; non embrionale, ma ancora non del tutto stabilita e soprattutto senza alcuna proiezione editoriale”. Il curatore ha operato nel pieno rispetto dello stato testuale, provvedendo principalmente alla correzione dei refusi e operando altri, discreti, interventi segnalati nella Nota al testo.

Deidier, coadiuvato nella “revisione del testo e nella correzione delle bozze” da Patrizia La Via, moglie del poeta, ci ha così offerto una significativa occasione di bellezza e di meditazione. La raccolta ha una sua unità tutta racchiusa nel sommesso ritmo interiore dei testi. Si pensi, per esempio, alla connessione tra Senti, i cani abbaiano, ma tu già dormi che conosce un’ideale continuazione (in linea con l’explicit della “lingua che passa e schiude lingue diverse”) nel dialogo con il merlo, il tordo sassello e la cincia del testo successivo. Ad essi è a sua volta legata la poesia che si apre con Ma anche il paradosso della veglia; dalla veglia, infatti, era nato il tentativo di decifrazione del linguaggio dei cani e non è ozioso segnalare che “l’estate della betulla” della poesia successiva è “un buon inizio nella veglia”. È lo stato di veglia a lasciar cogliere le ombre e le penombre di cui è popolata l’apertura della silloge: le “infinite ombre” in cui “frana e si sfalda” la luce e che pullulano nella mente e nel cuore dell’uomo che si percepisce all’occaso. Uomo che riesce ad auscultare la vita silenziosa degli oggetti, che spia le creature del suo giardino e traduce in poesia purissima l’esistere arboricolo.

È una poesia robusta, tutta innervata di pensiero, quella di Toni, che sussume Platone come Leopardi, mentre medita sul passo fuggevole e leggero di un esistere di cui l’autore percepiva allora, e ti fa percepire nell’allure dei suoi versi, tutta la bellezza. Lo fa con levità struggente, con l’intensa grazia di un’onda musicale scaturita dall’anima, che ti avvolge e ti conduce con sé. È l’onda di quel “dolce dolore” che chiamano malinconia.

Non è un libro per tutti; bisogna avere la pazienza di esplicitare i riferimenti culturali che si annidano in ogni testo, in un gioco intellettuale estremamente stimolante. Man mano che il lettore si addentra nell’enciclopedia dell’autore, i tesori del suo spirito gli si disvelano.  Questo avviene a partire dall’incipit, in cui, sin dal primo verso, Toni si riallaccia a una tradizione che dal petrarchesco Voi che ascoltate conduce all’attacco – terribile e maestoso (ma chi lo ricorda più in una società in cui l’arroganza dei fascistelli è tornata di moda?) – del leviano Shemà. Toni guarda spesso il mondo attraverso il filtro dell’arte e della letteratura e ti esplicita com’esse stesse – sì – siano vita. Vita profonda, dai colori smaglianti, dalle mille lacerazioni e contraddizioni. Perché i cretti di Alberto Burri sono come i kavafisiani Lestrigoni che ciascuno porta nel proprio cuore; figure colte in istantanee, alberi o uomini?, riproducono pose, che sono attitudini esistenziali, di sculture di Attardi o Giacometti o di dipinti di Guccione; il silenzio del giardino sembra riecheggiare del tempo sospeso e stregato del “cold hill’s side” della Belle dame sans merci di John Keats. Il dialogo con la propria Musa ha mellificato il Montale di Ho tanta fede in te (cui si allude in più testi), ma per acquisire una tonalità del tutto peculiare.

La poesia diventa dunque forma della Vita; i testi possono nascere da occasioni quotidiane, ma anche da eserghi o contemplazioni di dipinti o sculture che con l’esistere divengono un tutt’uno. Il poeta, il giardino, gli alberi, le opere d’arte, i Tu con cui egli dialoga – sia la Musa amata, Patrizia, siano i sodales poeti o siano le ombre, “il viso caro / che perdiamo” – sono voci e strumenti che si stagliano in una raffinata e struggente polifonia. Canto elevato a un “mistero antico” e alla “casa antica” dell’Essere (non è casuale la ricorrenza dell’aggettivo “antico”, Leitmotiv di un’opera che ha l’incedere della Gradiva) in cui ciascuno di noi viene alla luce pur in parte celandosi. Straniare gli oggetti, la cui “vita” “sta tutta nel pensiero che li fa vivere”; cogliere, come voleva Char, l’accadere delle Cose, preludio a inattese e fugaci epifanie (“L’incantamento è finito e chiusa la porta sul nostro infinito?”); resistere al latrato di Cerbero e tentare la fortuna cercando “il frutto nuovo” “Tra qualche ramo secco” nel giardino (il motivo dei rami è ricorrente in tutta la raccolta). Sono questi i doni ed è questo il fascinoso mistero di una Poesia che ti fa intravedere la luce di un’anima senza tutto svelare. “Va bene, dico, se su noi restano frammenti, la vita, insomma”.

SENZA TEMA! Poesie coraggiosamente atematiche


Recensione ad AA.VV., SENZA TEMA! Poesie coraggiosamente atematiche –Antologia a cura di Pietro Pancamo–, Edizioni Simple, Macerata 2022.

È una proposta interessante quest’antologia SENZA TEMA! Poesie coraggiosamente atematiche, curata dal poeta e critico Pietro Pancamo, editor professionista. Il titolo allude alla volontà di respingere la moda delle antologie tematiche. Il volume raccoglie voci, tra cui anche il curatore stesso, molto diverse ma ben armonizzate, caratterizzate dalla meditazione esistenziale, non priva di ironia, e dalla tensione a una scrittura comunicativa, non oscura per il lettore. Ogni sezione, dedicata a un autore o a un’autrice, è introdotta da una nota critica di Pancamo.

Si apre con Kikai, “specializzata in montaggio video e regia” presso l’Accademia di Brera. La sua scrittura ha tratti di angelicismo (emblematica, in tal direzione La ballata dell’angelo) e si connota per un valido connubio tra slancio verticale e senso della materia. I legami della fisicità emergono con il loro corollario di odori e gravami, ma all’improvviso sulla caduta e sui pesi della “carne del mondo” prevale la capacità di proiettarsi “Oltre i cancelli del tempo”. “Dentro qualcosa che non so. / Più grande di me.” Dal punto di vista tecnico, Kikai tende al verso lungo; alcuni componimenti possono essere classificati quali prose liriche. Si avverte fortemente l’impronta delle culture orientali, ma non mancano rinvii alla letteratura europea; certi momenti, infatti, risuonano di echi rimbaudiani o baudelairiani. “I luoghi restano? / Santuari pietrificati, sembrano addormentati; / respirano […], come animali mansueti, che ci hanno amato.”

La seconda sezione è costituita dai testi di Angela Lombardozzi, “già membro fondatore del ‘Lyric Group Vuoto3’ e paroliere della cantante Consuelo Orsingher”. Emerge subito la tensione al volo in Ali, con il bell’incipit: “Ho una poesia sulla lingua / Il petto batte / Ma non trovo le ali”. Germogliano versi evocativi come questi della poesia già citata: “Folle! Folle è l’uomo che tesse / la sua più grande virtù / Un ponte di salvezza / Un filo instabile di luce e precipizio”. In Provaci la complessità dell’essere umano e la sua irriducibilità a un’immagine unitaria trova il suggello nell’invito a guardare nell’interiorità “tra lanterne e tane”. Emerge tra gli altri il motivo del filo, quel tanto di bellezza che resta nel diluvio e che ci aiuta a muoverci nel labirinto; Leitmotiv è ancora la luce, che può essere quella del sole, di una lanterna, di una lama o di un segnale salvifico che aiuti a superare i limiti.

Seguono le poesie di Tommaso Mendolesi, che “ha insegnato presso gli atenei di Limoges, Catania, Verona e Milano”. Rispetto alla riflessione sulla pandemia di Bambina e bolle di sapone, i suoi versi ci sembrano esprimersi in maniera più felice quando Meldolesi pennella paesaggi interiori (è il caso del bel Reggerà l’orizzonte il tuo fardello) o rivolge il suo sguardo a scenari in cui le nubi e la nebbia divengono numi tutelari di smorte solitudini che paiono inghiottite dalla Natura. Non è nemmeno un caso che il primo testo della sua sezione si apra con il riaffiorare “Dalla nebbia degli anni” di memorie col loro carico di nostalgia.

Molto interessante ci sembra l’esperienza di Pietro Pancamo. L’autore si esprime con perizia nel frammento (Aeroplano) ma anche in testi brevi dall’allure surreale come In incognito. Di quest’ultimo piace l’incipit (“Dormo in incognito / per non farmi riconoscere dagli incubi”), ma colpisce anche l’assimilazione degli incubi a talpe con “un paio d’occhi / larghi e fotofobici”, intente a scavare “nell’aria”. Ben riuscite ancora la gnome perplessa di Filosofia e l’ironia del poeta che contempla “l’interessante morte / antologica permanente / delle mie speranze / migliori” (Morte antologica permanente). Pancamo mostra di sapersi ben destreggiare anche con il verso lungo di testi come Verande d’azzurro di cui segnaliamo ancora una volta l’incipit e poi versi come “Canicola di gioia, tanfo d’allegria / negli sguardi ciclopici del solo occhio giornaliero” o “Tachicardia di vento nei vestiti: il vento, cuore del cielo…”

Chiude l’antologia Fabio Sebastiani, “attualmente conduttore di programmi web-radiofonici”. Torna nuovamente il motivo delle ali (TRA ALI DI FOLLA SENZ’ALI è il titolo del primo testo), ma piuttosto per negare le possibilità di volo dell’uomo. Bella l’immagine di quest’ultimo considerato quale “ostacolo / alla caduta provvidenziale”, pronto a negarsi “al perdono che l’universo gli offre.” Sostanzialmente quella di Sebastiani è una reazione al tempo dell’inautenticità, alle alchimie asfittiche ed escludenti del potere, nella ricerca di un nuovo umanesimo che ci salvi. Nascono così testi come il convincente Ci salverà il disumano “Quello che serra le labbra / in punta di parola / sputa il puro nulla negli occhi / e fino in fondo”. Eppure, se son venute meno le ali (il concetto torna in La terza guerra mondiale), forse le mani potranno fare le loro veci (Guardandoci le mani). E se anche non atterreranno mai nel loro covare sogni, saranno strumento del farsi della parola poetica. Il ribadire con forza il fare di quest’ultima “come il crogiuolo delle stelle / fa la notte” è un’ottima conclusione di sezione e di raccolta.

Se non salverà il Mondo (inutile illudersi di porgere salvezza a ciò che non ha alcun interesse né qualsivoglia tensione alla salvazione e corre inesorabilmente verso l’implodere nella propria nullità), la poesia aiuterà chi è in grado di accoglierla e percepirla a ritrovare una dimensione interiore e uno spazio di autenticità nella schizofrenia assoluta e nell’idiozia largamente prevalente che ci circondano.