D come Davide


Recensione a D. Rocco Colacrai, D come Davide. Storie di plurali al singolare, Le Mezzelane, 2023, Euro 13.

Davide Rocco Colacrai si conferma voce interessante e raffinata, dotata di un proprio peculiare timbro anche in questa silloge, D come Davide, che – come specifica l’autore stesso – muovendo “da una dimensione strettamente personale” finisce col “trasformarsi in una storia del mondo”.

Questo accade perché il poeta si fa cassa di risonanza di una serie di vicende, alcune legate a una Storia assurta a dominio di una brutale “selezione naturale” in cui il diverso finisce col soccombere, altre fiorite nelle pagine di romanzi o tra le maglie di altre poesie. Colacrai compie un atto di immedesimazione, dolcemente (ma anche dolorosamente) insinuandosi nelle vite di cui si rende voce; il momentaneo spossessamento di sé dà avvio al processo di identificazione nell’altro che al sé comunque in qualche modo riconduce, perché l’autore riscopre frammenti della propria anima in quella altrui. La maggior parte delle liriche è così costruita in prima persona per effetto di un procedimento che – lo ribadiamo – non è mero esercizio retorico.

In D come Davide, Colacrai riannoda la propria vicenda personale alla storia dell’umanità sin dai suoi progenitori, Adamo ed Eva. I loro archetipi rivivono in ciascuno di noi, che “Dall’oblò delle nostre tasche assaggiamo il paradiso / senza farci il segno della croce”. Loro retaggio è il nostro ritmo di innocenza e trasgressione, la tensione a cogliere “la rugiada vergine del giorno” e a sentirci costantemente rigettati da un Eden che per noi è indefinita saudade. I gulag, il Cile di Pinochet, il confino alle Tremiti per gli omofili, il massacro di Shatila: in queste oscure pagine di storia s’innalzano parole di vinti, quasi preghiere (quello della preghiera è vero e proprio Leitmotiv della silloge) elevate a una più alta, forse utopica, istanza di Giustizia. A queste figure, di cui il poeta puer divinus rivive sogni e traumi, si alternano personaggi scaturiti dalla letteratura, e dal suo potere resi vividi e veri, e ancora le memorie della storia familiare di Davide Rocco, tra cui spicca, in particolare, Anna (Un’Anna tra le altre), creatura limitanea (La porta di Anna), quasi consegnata a una dimensione mitica. È lei che sembra scandire il tempo della preghiera (“Qualche volta parla da sola, mia madre, / scopro le labbra, leggere come un pensiero, / che quasi soffiano ricordi, / o forse preghiere”); è lei la depositaria della dimensione del silenzio (“quei silenzi / che l’avvicinavano al cielo, almeno un po’). Dimensione che si fa pervasiva nella silloge, perché alternativa al rumore assordante di una Storia che aliena. È allora che scaturiscono i soliloqui, carezze allo spirito (“i soliloqui fiorivano / come azalee”), e che i sogni possono ancora subentrare al reale, fondersi e confondersi con esso, riscattarlo, restituire il calore laddove prevarrebbe il freddo della solitudine. Accanto alla figura materna, rivivono anche il padre, che sosta commosso al cospetto de L’albero di Giovanni (Falcone) e che nella sua pietas, ruvida ma gentile, è a suo modo albero egli stesso; il nonno, Venanzo dagli occhi azzurri, occhi che spiccano come “due nudi delfini al mondo” anche per le “ciglia d’arpa”, strumento caro a Colacrai. Significativa, a tal proposito, sarà anche la presenza del violino nel testo dedicato all’assolo di donna nel Gulag, in cui una figura di donna etichettata come “pazza” “impugnava un arco come impugnasse il dolore”, cercando di definire uno spazio di sopravvivenza nell’alienazione della realtà concentrazionaria.

Di quelle sofferenze ma anche dell’abbarbicarsi all’esistere di tante vite interrotte la voce dell’autore si fa “eco”. Quello dell’eco è un altro elemento proprio del mito personale del poeta: è smaterializzazione di ciò che ebbe tangibilità (l’“eco del pane”); è mormorio interiore che riconduce all’archetipo materno per eccellenza (“eco materno / delle madonne immacolate”); è concretizzazione stessa del mistero della vita al suo occaso (l’“eco indefinita” di Trilogia dell’addio III). È l’eco di un pensiero di dolore, a volte nata dalla “malattia del desiderio”, che attraversa oceani spazio-temporali per essere raccolta in quell’ideale conchiglia ch’è la poesia, magari anche volano dell’“iride della nostra risurrezione”. Così, i cromatismi bui (l’“arcobaleno nero”, ma anche il “canto dal roveto nero”), allusivi al ritorno all’“utero sterile” di una terra desolata, conoscono un bilanciamento negli azzurri, nei chiarori aurorali, nel verde del faro, nell’“aureola di fogli di quaderno e biglietti di carta” attorno all’albero di Falcone, testimonianza che forse è ancora possibile estrarre qualcosa che non sia ‘inferno’ dal “grembo indefinito dell’incubo”.

Anna sta coi morti


Recensione a D. Scalese, Anna sta coi morti, Pidgin Edizioni, Napoli 2023, Euro 17.

È un libro lunare Anna sta coi morti di Daniele Scalese; un’opera da leggere e rileggere per coglierne le molteplici sfumature.

Il plot si apre sulla vicenda di Anna ed Enzo; incinta, lei ha scoperto di essere affetta da leucemia. Sostenere le cure necessarie significherebbe nuocere al bambino e forse perdere definitivamente l’occasione della maternità biologica; proseguire con la gravidanza rischierebbe di tradursi in condanna a morte per la donna e forse anche per il piccolo (o la piccola). La scelta di portare avanti la gravidanza sarà foriera di conseguenze che Scalese rappresenta nel romanzo. In realtà, però, ciò che diviene centrale nella narrazione è non tanto la vicenda di Anna con la sua malattia, quanto l’atmosfera dell’obitorio, non luogo in cui la donna lavorava e in cui si ritroverà a sostituirla, per il periodo dell’assenza, proprio lo stesso compagno Enzo.

Anna sta coi morti assume così, gradualmente, l’allure di una meditazione al confine tra il mondo dei vivi e gli spazi della morte. Una partitura che si dispiega in un’aura in cui il limes tra una condizione e l’altra appare decisamente fluttuante, complice la costante tensione all’onirismo che connota la struttura del romanzo.

Molti sono i motivi che affiorano. Tra questi la spettacolarizzazione del dolore, di cui è fautrice la trasmissione dall’umoristica intitolazione Ricordati di santificare i vivi. Anna ne diverrà ospite abituale (successivamente anche Enzo), orizzontandosi a proprio agio in quel limbo tra realtà e finzione che connota il medium televisivo. Indicativo, a tal proposito, il passo in cui, con eco kunderiana, Scalese indugia sul divario tra le asserzioni retoriche e quietanti della donna e il vibrante non detto ad esse sottese.

Altro motivo ricorrente è dato dalle trasformazioni che la malattia induce nell’individuo. Scalese insiste sul corpo di Anna, sul suo graduale fragilizzarsi, quasi prepararsi alla dimensione della morte, di cui Enzo arriva addirittura a percepire già l’odore sulla pelle muliebre, complice anche la pratica dei trapassati.

Scalese indugia, inoltre, nella rappresentazione di un’umanità allucinata, che sembra operare nell’obitorio perché nessun altra dimensione le è consentanea. Pare quasi che quel posto venga eletto dai protagonisti quale zona franca per sfuggire all’esistere stesso per poi ritornarvi con accresciuta autenticità.

 In questo microcosmo s’intuisce l’allusione al topos del doppio rankiano. Emblematico è il rapporto, mai compresente, tra le figure di Anna ed Emilia; Anna è apparentemente il solo personaggio psicologicamente solido che gravita in quell’ambiente, almeno prima della malattia con il suo portato di inquietudini e nevrosi. Nel momento in cui la stabilità di Anna sembrerebbe cedere, Enzo si rivolge a Emilia, figura complessa, sfuggente, di cui emblema è il “bosco”, una sorta di spazio della rimozione. L’amore stesso sembra vampirizzante nella compagine del romanzo; Emilia ha un legame appena accennato con un altro degli impiegati dell’obitorio, Federico, di cui si racconta che abbia ucciso la sua precedente amante, colpevole di atti di stalking. Federico è stato dunque colpevole della morte della persona che aveva amato, in modalità analoghe a quelle con cui Enzo rischia ora di provocare, pur involontariamente, la fine di Anna, nel disperato tentativo della donna di generare un figlio e superare una crisi i cui dettagli affiorano gradatamente. Anche il personaggio di Alberto ha motivi che l’accostano a Enzo; innanzitutto egli appare complementare a Federico (quasi mai i due colleghi di Enzo sono compresenti). In secondo luogo, in lui si coglie una tensione necrofila ch’è materializzazione del legame indissolubile di Enzo con la sorella Eva. Proprio qui sembra celarsi l’elemento nodale della narrazione: se il titolo è Anna sta coi morti, il personaggio che appare ‘esistere per la morte’ è invece decisamente quello di Enzo. Enzo che reca nel cuore un profondo senso di colpa per le nefandezze che attribuisce alla figura paterna, atti che rivive in una dimensione ai limiti della rêverie; Enzo che si sente responsabile della fine della sorella Eva e anche per questo non sembra poter fare a meno di rapportarsi all’obitorio, addirittura concentrando la propria attenzione su donne, Anna prima ed Emilia poi, che “stanno coi morti”, come fossero vestali della dimensione incognita. Enzo che vendeva il proprio corpo, quasi per renderlo altro da sé; Enzo che decide di sostituirsi ad Anna nella catabasi obituaria, perché avverte che forse solo nel silenzio delle stanze in cui si familiarizza quotidianamente con la Grande Livellatrice potrà ritrovare sé stesso.

Un romanzo originale, ben scritto, che spazia dall’onirismo allucinato alla mimesi di frequenti sequenze dialogiche. Un’opera in cui, se emerge il ‘cannibalismo’ d’amore, affiora anche il disperato bisogno che ciascun individuo ne avverte durante la propria esistenza.

Un luogo giusto in cui morire


Recensione a G. Benassi, Un luogo giusto in cui morire, L’Erudita, Roma 2022, Euro 19.

Che ci sia “un tempo per nascere e un tempo per morire” non è nuovo; basta leggere Qohelet 3,2… Che però la cosa si possa estendere al concetto di luogo, che esistano luoghi giusti e luoghi ingiusti per il trapasso è un motivo che percorre in maniera ora evidente ora sottocutanea l’accattivante noir di Giuseppe Benassi.

Un luogo giusto in cui morire è una nuova avventura dell’avvocato Borrani o, semmai, nel caso specifico, dovremmo parlare di ‘disavventura’. Attendendo un antipatico collega da accogliere nelle vesti di conferenziere, un “trombone” – così viene definito nell’adozione del punto di vista di Borrani –, l’avvocato si trova, suo malgrado, a dover usufruire dei bagni della stazione ferroviaria. La sequenza è costruita da Benassi col preciso intento di evocare una scena di squallore, in cui emergono le manie – piccole e grandi – del protagonista. Borrani infatti evita di toccare qualunque oggetto, persino di lavarsi le mani, in preda a una sorta di fobia da contaminazione. Eppure, nella “latrina fetida”, ode strani rumori provenire dalle porte chiuse nelle vicinanze e non sarà così con particolare sorpresa che nei giorni successivi apprenderà la notizia di un delitto avvenuto in quel bagno pubblico. Compreso d’essere stato testimone degli eventi, l’avvocato, detective dilettante, comincerà così a indagare sulla morte del giovane, sventurato, Nado Leri, per poi scoprire che anche lo sgradevole penalista che aveva accolto quel giorno è – coincidenza oppure no? – anche lui deceduto. Collegherà, per una serie di coincidenze, la figura di Leri all’asta per l’acquisizione di un vecchio casolare a Pomarance, connessa alla scomparsa di tale Bondi. Deciso a investigare – e peraltro seccato di esser finito addirittura tra i sospettati – acquisterà la casa di Pomarance, intenzionato a trasferirvisi, tutto sommato colto anche da un’improvvisa propensione per la quiete campestre. Inutile dire che la dimora riserverà curiose sorprese…

Un luogo giusto in cui morire si lascia leggere con vero diletto. Accanto alla capacità di suscitare curiosità in relazione all’enigma del gabinetto e del casolare, il romanzo si fa apprezzare per il senso dell’umorismo dell’autore, per la sua capacità di costruire figure nevrotiche, sopra le righe, eppure umanissime nei loro tic e nelle loro fragilità e aspirazioni. La scrittura è scorrevole, mimetica a tratti; non manca al lavoro di Benassi un’allure ragionativa. In ogni capitolo, come se fossero effetti di un fermoimmagine, lo scrittore innesta pause narrative e lascia scorrere i pensieri di Borrani e soprattutto i suoi interrogativi. Domande di senso, disvelamento di aspetti paradossali del reale, ipotesi – anche balzane – prendono corpo in quegli istanti in cui il fluire degli eventi pare momentaneamente interrompersi.

Questa caratteristica, del resto, sembra in linea con l’indole di Borrani, una sorta di cultore del tempo cairologico, della propensione a cogliere l’occasio. Egli farà in qualche modo sua l’aspirazione di uno dei personaggi, come se con la sua morte Leri avesse trasferito nell’involontario testimone degli eventi il suo più grande desiderio: trovare un posto giusto per vivere e, al momento opportuno, anche per morire…

Numerose le citazioni, con Benassi che sembra quasi divertirsi a richiamare topoi e situazioni di celebri gialli per calarle in un contesto più dimesso, sebbene non privo di inquietudini. Un classico è, per esempio, l’esistenza di un particolare che il detective non riesce a mettere a fuoco: “Sì, forse c’era qualcosa che la prima volta aveva visto senza farci troppo caso, senza che quel certo particolare (ma quale?) gli si fosse impresso nella mente”. Siamo, infatti, di fronte a un motivo canonico del giallo all’italiana, soprattutto cinematografico: basti citare, a tal proposito, due capolavori argentiani, L’uccello dalle piume di cristallo e Profondo rosso, con Tony Musante e David Hemmings ad arrovellarsi per il dettaglio nebuloso. Anche la villa con delitto, con teschio per la precisione (N.B.: non stiamo svelando niente perché questo dettaglio è sulle alette di copertina), è elemento decisamente di prassi. Chi non ricorda la Villa del Bambino Urlante ancora in Profondo rosso o il terrificante casale di Gianni Garko e Jennifer O’ Neill in Sette note in nero? Si potrebbe quasi dire che acquistare una dimora campestre, nel contesto di un giallo o di un noir, sia una sorta di atto di hybris: come minimo ci si deve aspettare di essere puniti (o premiati, dipende dai punti di vista) col ritrovamento di uno scheletro o parti anatomiche di corpi umani. E se celebre titolo di Crispino era L’etrusco uccide ancora, ecco che tra memorie catulliane e reminiscenze di sarcofagi  del Museo Guarnacci di Volterra, Benassi ci regala un enigmatico obesus etruscus, che tra l’altro compare dormiente per poi destarsi in un’atmosfera ai confini tra l’horror e il grottesco (“Finalmente i pensieri di Borrani s’interruppero: l’obesus etruscus aveva spalancato gli occhi”). Un “ragazzo triste”, per citare Patty Pravo, la cui musica ha un effetto non irrilevante nella psiche di alcuni personaggi, come l’aveva nel Delitti e profumi diretto da Vittorio De Sisti (1988).

Un’avventura che comincia “In un pomeriggio piovoso di fine novembre” per finire che “La primavera era scoppiata. A Pomarance i fiori spandevano aromi dai prati e dagli alberi”. Su un’operosità che – complice la “morosa” di Benassi, l’arguta Messori – sembra voler mettere in fuga “i topi e i fantasmi che infestavano il casolare” si chiude il romanzo. Resta tuttavia l’impressione che forse lo scoglio più duro da superare sia proprio la melancolia di chi non riesce a concretizzare il proprio “pensiero stupendo”. “Si potrebbe trattare di bisogno d’amore”?

La variabile umana


Recensione a E. Stragapede, La variabile umana, LiberAria, Bari 2022, Euro 12.

La variabile umana di Elisabetta Stragapede è uno sguardo lucido e disincantato, mai giudicante, su una varia umanità. Umanità in cui il lettore stesso finisce in qualche modo con il riconoscersi, perché – come evidenzia Anna Toscano nella Postfazione –, “questi versi non parlano di qualcuno o di qualcosa di generico, ma parlano di te e di me, di noi tutti, parlano delle persone e alle persone, e lo fanno con l’accuratezza e la grazia di chi ha un’impellenza nel dire e il suo dire si fa poesia”.

Con ironia Stragapede assume a impalcatura il formulario del celebre gioco “Nomi, cose e città”… Il primo sguardo è rivolto al “troglodita del Terzo Millennio”, esemplare disponibile in grande abbondanza nel nostro Paese, “analfabeta funzionale / numero votante”, dedito a stordirsi con un riso ch’è tutt’altro che avvertimento del comico, ma piuttosto assimilabile al celebre risus abundans in ore stultorum. Tale riso destituito d’intelligenza, e quindi insegna di abbrutimento, e una totale dedizione al ventre sembrano la condizione ideale per l’abdicazione all’interesse verso l’oìkos comune: “mentre ridi e t’ingozzi / da qualche parte / si spartiscono l’umanità”.

Poi c’è tutto un mondo di vinti, gente che sembra affiorare dai “sotterranei della storia”, quali Antonio delle Buste, declinazione dell’icona del filosofante folle, o Gina. Nell’evocazione di questa figura emerge un senso di dolente pietas: “Quando sei tornata / al ventre silenzioso / la neve era ancora un’ipotesi / e il sole resisteva alla luce”. In Celeno la fatica dell’esistere affiora attraverso l’immaginario gorgoneo, ma anche grazie a una petrosità viva nel “puzzo di paludati gesti”, nelle “bocche molli”, negli “obtorti colli” che ammiccano alla celebre locuzione. Nel movimento della prima sezione della silloge, Stragapede restituisce voce anche a Delia, la celebre donna di Ostuni, morta nell’ultimo stadio di una gravidanza in cui resterà cristallizzata, come se fosse la sua stessa condizione esistenziale. Eppure, se chi ora è racchiusa in una “teca di cristallo” sperava pascalianamente di perpetuare un’umanità che fosse una “canna pensante”, dobbiamo ritenere che la sua aspirazione sia stata tragicamente tradita, non solo nella sua maternità infranta ma nell’insensato andare del genere umano stesso. “Quando abbiamo abitato lo sbaglio?”, si chiede Stragapede, infatti, in un altro componimento, il già citato Gina.

Non a caso, nella seconda sezione, Stragapede asserisce perentoriamente, in riferimento agli uomini: “Vi siete trasfigurati / entità a immagine di Dio”. Eppure questa trasfigurazione appare la hybris di un indiarsi abortito: “il destino / mette sempre una maschera addosso / che punisce, tortura / o ti getta in un fosso” e “L’unica libertà che possediamo / è darsi la morte per propria mano”. Nella seconda parte della silloge prevale un sentire distonico, un tutt’uno con il cemento che si porta via l’incanto, per quanto ruvido, della civiltà contadina; esso procede di pari passo con lo snaturamento del Sud amato, con i suoi paesi “in penombra” e le ore “incartapecorite”. In un’arsura perenne persino la Madonna Ἐλεούσα, madre della tenerezza, sembra partecipe d’un moto di sterilità, un’antipasqua la cui ipostasi è l’“uomo che galleggia nell’acqua di mare”.

Eppure l’uomo continua il suo viaggio, conducesse anche al nulla. Certo, il suo sentire difficilmente sarà sintonico col cosmo: solo improbabilmente egli potrà sentirsi “casa e bottega / arredata con gusto”. E chissà se nel “paniere di Pandora / scoperchiato / da un vento / lungamente covato / divenuto tempesta”, c’è ancora la Speranza… Gli uomini però sono sempre pronti a cercare (bella quest’immagine!) di “risanare / le piaghe che s’incistano nel rumore / sordo delle inquietanti danze”. E la vita prosegue in un tempo che non si sa bene se si possa definire incantato o stregato; tempo di cui la donna è spesso icona violata, etichettata quale strega se sfugge ai lacciuoli o costretta a richiamare “lupommini” “sulla rotonda” da cui non le resta che elevare una preghiera alla “Madre della polvere” perché l’aiuti a volare via.

A chi assiste al triste declino della “variabile umana” non rimane che innalzare “un canto secco / di scorze in gola” oppure lasciare che i pensieri si librino “In mulinelli odorosi”, dando vita a versi interessanti come questi: “Della roverella maestosa / resta l’ombra del canto / il sordo richiamo / del cane che nuvola / intorno al pastore”.

Formulario per la presenza


Recensione a F. Innocenzi, Formulario per la presenza, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2022, 8 Euro.

“Questa piccola raccolta è per me un formulario per la presenza, perché ogni verso è una pietra miliare in più verso l’esserci, in me stessa e per me stessa, nel mondo e per il mondo”. Queste parole della Postfazione chiariscono il senso della nuova raccolta di poesie di Francesca Innocenzi, un’autoantologia allestita nel momento in cui l’autrice ha ritenuto che fosse “giunto il tempo della riflessione e della scrematura” e avvertito la necessità di selezionare le liriche incluse in sillogi precedenti che non avessero cessato di suscitare in lei risonanze interiori.

Ne è nata una plaquette di circa venti pagine, con Anna Achmatova in epigrafe a introdurre il motivo dell’aridità, pervasivo all’interno della raccolta.

Se “ogni verso” – come si diceva – è per Innocenzi “una pietra miliare in più verso l’esserci”, in realtà tra gli elementi dominanti si riscontra, nel Formulario, proprio un bruciante senso dell’assenza.

Non a caso in posizione incipitaria si colloca Un ricordo e la prima immagine è quella di “ombre di gatti”. Esse però paiono altro da ciò che sono, in un serpeggiare che le assimila quasi a un’idea di tentazione che si affaccia nel locus amoenus dell’orto. È forse la tentazione di cedere al portato pietrificante dell’asserzione che segue: “Tutto è passato”.

Un senso di fatica traspare nel secondo componimento, in cui alle ortaglie subentra l’immagine della città. Inutile dire come essa non appaia affatto un luogo in cui ci si possa serenamente e dolcemente affidare al mormorio della vita, perché vi si sperimenta semmai il disinganno: “città di mimi e attori / di manicomi e di ospedali / dove noi ci salutammo frodati di risposte / sul gradino di un portone infranto”.

L’ossessione del jadis affiora un po’ dappertutto: “non sono più nuova per te”; l’abito dell’io è assimilato a “una sottoveste” metaforicamente “usurata di silenzi” e dominano il senso della dismissione, del distacco da una condizione precedente che non tornerà. Il motivo del ricordo riaffiora nelle belle terzine d’inverno, con la prima terzina che presenta un movimento efficace: “si essiccavano gerani /al tempo del nostro finto contratto / scaduto. fumo fitto di incensaglie”.

 Si affacciano volti di un passato ormai relegato nella dimensione del non essere. Tra questi il cugino Luca, con il quale Innocenzi intesse un lucido dialogo, quasi nella speranza di un’epifania improvvisa (“può succedere che tu accada / al primo stormire del mattino”), di un accadere del vero che possa annullare il confine tra la vita e la morte.

Continua e fitta è la meditazione sul tempo, che si fonde con la querimonia per il suo troppo impetuoso scorrere e per la sua portata rapinosa: “se mai fosse scorso altrimenti / il tempo”, si scrive nel componimento a Luca; poi altrove Innocenzi osserva che è “caduto come miele sul selciato / il tempo” o che “il tempo trascorso è come una foto / dove non sai se guardare o morire”. Nel dialogo con un Tu assente, la cui lontananza si ipostatizza nel telefono spento, la poetessa così confessa: “di questo tempo spoglio sei tu l’evento”. Il tempo, insomma, è il protagonista inesorabile del Formulario; l’anelito a un “istante eterno” di cui non si può che constatare l’utopia. Ne consegue il percepire profumi che giungono da un passato cui si contrappone un vivere arido proprio come “un agosto strano”. Una dimensione in cui tutto sembra congiurare per consegnare l’esistere alla Morte; si consideri in tal direzione Andria-Corato, 12 luglio 2016*: “l’orologio il binario il capotreno / eseguono gli ordini della padrona”. E la padrona è la grande livellatrice.

Pure quello del Formulario non è un canto disperato perché molti sono gli elementi di slancio vitale. Slancio forse fine a sé stesso, sì, ma non per questo meno meritevole di perpetuarsi: “vieni, Ondina / la fiaba che giocavi restò incisa nel sole”, recita uno dei componimenti più intensi che, sempre in linea con quell’allure ragionativa e dialogante di cui si parlava, si chiude efficacemente con “tu dici essere saggio l’immobile orizzonte. / ma io amo la fronda / che scardina il novembre, amo l’ombra che risplende / la rugiada che frantuma”. La vita, nel suo mistero che scorre, è forse tanto simile a quel prato che “sa da sé / quel che deve diventare”; un prato la cui erba non ingiallisce a dispetto dell’arsura.

Il dettato di Innocenzi è comunicativo e non impervio; appare asciutto, privo di fronzoli, sommessa prosecuzione di un carme in amebeo col cuore che rifugge le maiuscole perché la sordina di un’ininterrotta preghiera sembra la dimensione a questa poesia maggiormente connaturata.

Navi nel deserto


Recensione a L. Weber, Navi nel deserto, Il Ramo e la Foglia, Roma 2023, 19 Euro.

Navi nel deserto dell’italianista Luigi Weber è a nostro avviso una delle proposte letterarie più interessanti di questo primo scorcio del 2023.

Un’opera fortemente radicata nella letteratura, che nasce come omaggio allo scrittore Joseph Conrad e vive di un felice gioco combinatorio che vede Weber recuperare personaggi, motivi e situazioni della narrativa conradiana e compiere feconde operazioni di contaminazione, “lungo le piste di una storia tutta nuova” cui il lettore si appassiona sin dalle prime battute, anche in virtù dell’attualità delle tematiche che affiorano.

Teatro delle vicende è un mondo futuro lentamente trasformato in deserto, puntellato da rocche fortificate e oasi, abitate dai cosiddetti isolani (questi ultimi in realtà soprattutto donne). Lungo questo scenario distopico ha luogo l’ossimoro delle “navi nel deserto”, i cui equipaggi sono guardati con diffidenza, in alcuni casi addirittura disprezzo, dai cittadini: “certe volte mi chiedo perché la gente delle Città ci odî tanto… -“, si domanderà il cambusiere Haldin, personaggio interessantissimo, una sorta di meteora nel corpo del romanzo.

In questo contesto il lettore assiste a un’epopea dei destini incrociati in un prologo (non dichiaratamente definito tale), dieci interludi e un epilogo. Una vicenda sapientemente orchestrata da Weber attraverso l’alternanza tra narrazione interna (opera del traditore dei pirati, il cui nome è rivelato solo nel finale), narrazione esterna, scene di sapore teatrale e persino stralci diaristici o flussi di coscienza come nell’incipit dell’ottavo interludio. Lo stile è elegante e curato, con grande attenzione di Weber alla congruenza con il tenore che la materia di volta in volta assume e con il linguaggio dei personaggi in gioco (penso alle licenze della novella incastonata nel quarto interludio).

L’antefatto è ricostruibile dalle informazioni che il lettore riceve nel corso della narrazione. Il capitano della Lalene Julian Sands è riuscito, diversamente dal suo equipaggio, a salvarsi dalle grinfie del pirata Schomberg e dei suoi scherani grazie al tradimento di uno dei pirati. È proprio a quest’ultimo ch’è affidato l’incipit della narrazione: “Uscii dal mio nascondiglio soltanto quando fui certo che gli alianti se ne fossero andati”. I due fuggitivi si sono separati; Julian Sands cerca disperatamente di salvare dalla barbarie piratesca il maggior numero possibile di abitanti delle oasi. Anima il suo spirito generoso anche l’intenzione di ricongiungersi a Freya, l’amata che vive con il padre e altre due donne (tra cui l’affascinante e ambigua Aglae) nella Settima Oasi, luogo verso cui inevitabilmente finisce col tendere la vicenda stessa. Il traditore, invece, viene, nei primissimi capitoli del romanzo, accolto sulla nave Kairòs (luogo della crisi e dell’Occasio, come il nome stesso suggerisce) dal suo capitano, il giovane cittadino Joseph Conrad. L’omonimo dello scrittore e navigatore polacco subito proverà simpatia per l’ospite inatteso (che si qualificherà come Sands) e lo nasconderà (gli estranei non sono infatti ben accetti dagli equipaggi delle navi) nel proprio alloggio. Sarà il traditore a fornire a Conrad preziosi consigli, spingendolo a rifugiarsi, per sfuggire all’inseguimento del rabbioso Schomberg e salvare sé stesso e i marinai, nella vicina Rocca di Banka. Dagli abitanti di quest’ultima i marinai saranno accolti con diffidenza e ritrosia; gli incauti cittadini non mancheranno peraltro, non valutandone la pericolosità, di aprire le porte della rocca a Schomberg e ai suoi sgherri, convinti che la nave Kairòs abbia dato ricetto al traditore. Anche Sands chiederà aiuto all’inetto sindaco di Banka Morrison, domandando un modesto mezzo cingolato per compiere il salvataggio degli abitanti delle oasi vicine e soprattutto della sua Freya con la famiglia. Riuscirà a vincere le resistenze dei cittadini, tutt’altro che inclini alla solidarietà (“Lei è un uomo pericoloso, Sands. La sventura segue i suoi passi”)? Ovviamente non anticipiamo nulla dell’evoluzione degli eventi.

Cominciamo col precisare che tutti i nomi dei personaggi del romanzo sono mutuati dalla narrativa di Conrad o a lui alludono; sfuggono a questa regola Julian Sands (forse omaggio all’attore britannico, purtroppo irreperibile dal gennaio 2023) e i nomi delle tre ancelle del pirata Schomberg, che rinviano invece alle Moire della mitologia greca. Da notare, peraltro, che se ad agire sulla scena sono Clotho e Lachesis; Atropo è pressoché assente e sorge nel lettore il dubbio che la funzione dell’“inflessibile”, di colei che con le cesoie recide la vita, sia assunta dallo stesso feroce Schomberg.

La vicenda di Conrad e del traditore contamina elementi di ben tre romanzi di Conrad: il primo è, inutile dirlo, il celeberrimo Heart of Darkness; gli altri due sono The Shadow Line (La linea d’ombra) e The Secret Share (Il compagno segreto). In entrambi i romanzi, infatti, un capitano giovane e inesperto assume la direzione di una nave, suscitando i malumori dell’equipaggio. Evidenti le analogie con il plot del Compagno segreto, laddove Leggart, ‘evaso’ dalla Sephora, rivive nel traditore dei pirati e Schomberg assume la funzione del capitano della Sephora, Archbold, che pretendeva di visitare la nave diretta dal protagonista per scovarvi il fuggitivo. Anche nel romanzo di Weber emerge il tema del doppio caro a Conrad e sviluppato – con esiti diversi – nei tre romanzi citati: in tal direzione leggerei il colloquio tra il capitano Conrad e il cambusiere Haldin, figura che – guarda caso – non avrà più alcun rilievo nel momento in cui a salire a bordo sarà il traditore. Tra quest’ultimo e Conrad si crea un’intesa che sembra collocarsi quasi (sottolineo il quasi, perché il limes non è oltrepassato) ai confini con l’attrazione erotica. Del resto, anche il traditore e Sands sembrano ricondurci al motivo del doppio: non è casuale che il pirata pentito si presenti a Conrad fingendosi il comandante della Lalene; non è ancora un caso il fatto che i due (Sands e il traditore) assumano su di sé l’esercizio della funzione “salvataggio”. A sua volta l’insistenza, l’accanimento con cui Schomberg ricerca il fuggitivo fa pensare all’idea che – al di là del desiderio di vendetta – egli ne percepisca la mancanza, quasi fosse una parte di sé, necessaria per vivere… o morire. E poi c’è la volubile e ambigua Freya, chiaro omaggio alla conradiana Freya of the Seven Islands; del resto, la vediamo abitare proprio la Settima Oasi… La scorgiamo in apertura spiare alla Butterfly l’orizzonte, in attesa della desiderata nave Lalene. Chissà, però, se questo personaggio continuerà a sentirsi a suo agio nella funzione Penelope o non raccoglierà piuttosto l’eredità di Carmen che rifiuta don José dopo averne risvegliato il cuore di tenebra…

Non c’è però solo la memoria conradiana nel romanzo di Weber. Si ammicca ad Omero nella città in pericolo, ma vivissime sono le memorie di Giovanni Boccaccio, soprattutto della novella di Andreuccio da Perugia. Queste reminiscenze letterarie affiorano nella terribile avventura di Sands. Il capitano della Lalene si ritrova prigioniero dei pirati, “nella gabbia dei dannati”, che – come accade ad Andreuccio nella sua caduta dall’alto verso l’interno del chiassetto  – si colloca “più in basso delle altre”. Una cella fetida in cui il capitano si ritrova “ginocchioni nello sterco, nudo”, proprio come l’ingenuo giovanotto del Decameron scivolato negli escrementi del Malpertugio privo dei suoi panni. Questi ammiccamenti divengono scoperti nel passaggio in cui l’“aguzzino convertito” (il traditore motore delle vicende) si allontana sibillinamente: “E tra l’uscire, il serrare e lo scomparire quasi non vi fu modo di distinguere” (chiaro riferimento alla gestualità della servigiale della sedicente madonna Fiordaliso in Decameron II, 5: “- Buono uomo, e’ mi par che tu sogni- , e il dir questo e il tornarsi dentro e chiuder la finestra fu una cosa”). Del resto, la prigionia di Sands presso i pirati ammicca ancora all’episodio di Odisseo nell’antro di Polifemo: anche il Laerziade, infatti, assisteva inerme al massacro dei suoi compagni e il banchetto di Schomberg, con la conseguente ebbrezza, risulta propizio alla fuga dalla nave pirata al pari dell’ubriachezza del Ciclope. La fuga è inoltre coronata da “quella magnifica fredda pioggia che ci rinnovellava entrambi”, vero e proprio crogiolo di memorie: la pioggia dantesca che sferza i golosi (punitiva) è contaminata, assumendo valore positivo, con quella benefica, voluta da Dio, della Gerusalemme e poi dei Promessi sposi, in un ammiccare anche alla panica pioggia dannunziana.

Un percorso letterario ingegnoso, in cui rivivono le inquietudini di questi anni, in primis la paura della diversità. Essa può essere identificata, da chi si arrocca in un selettivo e asfittico microcosmo comunitario, con l’androceo dei marinai o con la spregiudicata modernità delle isolane. Il timore di un miasma portato dallo straniero entro le mura, di una contaminazione misteriosa (si pensi agli eventi della casa del Messo) da cui mantenersi immuni può condurre alla chiusura, all’indifferenza, alla cecità che non consente di distinguere le vittime dagli aggressori. Una mancanza di chiarezza di visione che può indurre chiunque a rendersi carnefice di un’umanità già piagata dalla sofferenza. Il rischio di navigare nella desertica aridità dello spirito diviene così altissimo.

Dall’altra parte dell’orizzonte


Recensione a B. Costa, Dall’altra parte dell’orizzonte, Edizione e selezione a cura di Vito Davoli, PellicanoCult, Roma 2022, Euro 10.

Poeta e scrittore di lungo corso, fondatore di Pellicano Libri, Beppe Costa pubblica in questo volume, avvalendosi della curatela di Vito Davoli (che ha operato la selezione), un florilegio delle poesie da lui composte negli ultimi anni. Testi in cui – come evidenzia Davoli – l’autore si presenta “armato di una sincerità disarmante” non meno che nella sua opera a nostro avviso migliore, la trilogia confluita in Romanzo Siciliano. “Irriducibile bambino prigioniero di un corpo consumato e canuto” (Marco Cinque), Costa ti induce a guardare il reale secondo la sua prospettiva, in un percorso dolceamaro come l’esistere dell’uomo.

Dall’altra parte dell’orizzonte si apre sulla dichiarazione di un’aporia; emerge, infatti, l’impossibilità dell’individuo di pervenire a risposte sul senso ultimo dell’essere e su questioni metafisiche: “quel che non so / quel che non sapete / come siete nati / quando saremo morti / il resto si può scoprire / (volendo)”. Tutto ciò che si può conoscere è parte della vita dell’uomo e delle interazioni tra esseri viventi; esso si dischiude allo sguardo per effetto di un atto di volontà. L’andamento dei versi appare quasi perplesso, come se la parola si facesse strada a fatica da una riflessione avviata nel silenzio. Non è un caso che manchi il verbo principale, quello che dovrebbe reggere i pronomi dimostrativi in apertura.

Quasi scaturito dalla riflessione sull’oltre inconoscibile e su quanto celato dall’altra parte dell’orizzonte, il secondo testo è dominato – come altri della raccolta – dal pensiero della morte, che porta l’individuo all’assunzione di pose contratte, a voler quasi occupare il minor spazio possibile, nell’illusione che quell’esiguo spazio non possa essere sottratto. Nel finale, per contrasto, vibra il dono dell’alba, con lo stupore di essere vivi; il senso di stupefazione che ne consegue è l’altro volto della silloge di Costa.

Da un lato assistiamo a una cogitatio mortis permanente (il “possibile traguardo / d’un dolore infinito”, l’“attesa dell’infinita notte”, generatrice di testi quali “quando verrà il giorno di dimenticate cose”). Essa porta a percepire costantemente accanto a sé “il freddo respiro” della livellatrice. D’altro canto, però, Costa dà voce all’ebbrezza di vivere, al desiderio di partecipare ancora, in pienezza, al ballo stralunato dell’esistere. Una delle manifestazioni più intense di vitalità è senz’altro l’amore. Esso è rammemorazione (“mi ritrovo balbettante com’è giusto che sia / un vecchio di cent’anni che crede d’averti vicina”; “qui adesso da questa terra amata rivedo le stelle / ma a che servono se non a ricordarmi i tuoi occhi / e riviverli per sempre”) in un inesausto riordinare cartoline di sé, ma è anche dimensione che si misura nel presente, compensando il dramma del tempo che passa e restituendo linfa a uno spirito mai invecchiato.

È dunque quello di Costa un canzoniere d’amore, ma anche di amara constatazione dei guasti prodotti dall’uomo, dal suo egoismo e dalla sua vanità: scaturiscono così i testi dell’“agra vita”, in cui si arriva persino quasi ad auspicare la scomparsa del genere umano perché possa salvarsi il pianeta. Trovano spazio così la delusione per l’involuzione del secolo breve (“abbiamo seppellito lettere d’amore e altro”) e l’amarezza per quei plutocrati che giocano a scacchi con il futuro della gente comune, per quel trionfo del consumismo contro cui si scagliò Pasolini, per l’ottusità che offusca anche quella dovrebbe essere una terra di elezione, la poesia. Costa ironizza sul narcisismo di quanti “appendono / targhe e diplomi” credendo che i riconoscimenti effimeri in premi letterari (con giurie talora compiacenti) possano garantire un’aura quasi di immortalità. Eppure la poesia può essere ancora il terreno dell’autenticità, soprattutto nel fertile connubio con la Musica (si pensi al testo a Marcos Vinicius); essa è rabbia e protesta di chi coglie che “le strade dell’odio si affollano”; è lotta contro il nulla che avanza. Non a caso, la Morte è “restare immobile e senza più parole”. La poesia per Costa è anche tributo di sodalità, come in ai pochi rimasti, una sorta di ballade du temps jadis in cui rivivono Amelia Rosselli, Goliarda Sapienza, “forse spinta o forse per la nebbia prodotta dal fumo / delle infinite sigarette” precipitata “dalle scale di Gaeta”, e altre figure della nostra letteratura di cui Costa ha incrociato le strade, in quanto operoso animatore culturale.

La poesia di Costa incede in un’aura crepuscolare, senza intellettualismi, attingendo al parlato (“vada a farsi fottere (anche) il canto delizioso / d’uccelli in primavera, ché di questi tempi / le primavere ci hanno detto male”). La sua estraneità alle consorterie intellettualistiche è testimoniata, a livello stilistico, anche dalla totale assenza delle maiuscole a inizio componimento. La mancanza di interpunzione conferisce ai testi un carattere di frammentarietà, quasi fossero lacerti rapiti a un pensiero permanente che si avvolge su sé stesso, si perde e si ritrova per vie scalcinate, per poi colpirti all’improvviso con parole sommesse (“risana questo cuore antico / memore di ricordi che lo hanno traversato”) o riscattare l’insensatezza dominante con un’immagine luminosa. Germoglia così il testo per noi più bello della silloge, posto a suggello della stessa e innestato sulla scia di un topos che ha attraversato l’intera tradizione occidentale, da Mimnermo a Virgilio a Dante, da Leopardi a Giacosa a Ungaretti. Si tratta di una poesia semplice, senza fronzoli, ma che con il vento, e quella foglia che potresti essere proprio tu, ti trasporta libero, per un istante, lontano dalle brutture: “nessuna foglia è triste nel cadere / avrà vita più breve ma finalmente libera / complice il vento viaggia dai Parioli a Testaccio / ma se ha fortuna cambia anche paese e città / talvolta vestita di parole dà luce alla notte”.

Baby rosa gang


Recensione a P. Della Mariga, Baby rosa gang, Scatole parlanti, Viterbo 2021, Euro 14.

L’intenso romanzo di Paola Della Mariga dal titolo Baby rosa gang ci introduce nella viscosa atmosfera della periferia milanese all’interno della quale vivono una faticosa adolescenza le quattro protagoniste, Rosaria, Arianna, Betta e Chicca.

Ciascuna di loro alimenta in sé un profondo disagio. Tutte condividono la dimensione dell’insuccesso scolastico, con l’eccezione della brillante Betta, che però appare subito la più ribelle sotto il profilo caratteriale. Rosaria fatica a fare i conti con un corpo obeso, ostacolo al suo desiderio di sentirsi bella e amare, ricambiata. Arianna detesta il padre ubriaco e contesta le scelte della madre, operatrice socio-sanitaria votata al sacrificio; avverte inoltre in sé un senso di distonia rispetto alla società per le spiccate inclinazioni omofile che vorrebbe liberamente assecondare. Chicca è figlia di un pregiudicato, che coinvolge talvolta anche la moglie nelle attività illecite cui è dedito. Betta non sopporta lo stile di vita piccolo-borghese della madre e del suo compagno e si sente invece affascinata dall’aura del padre spostato, peraltro assente dalla scena del romanzo.

Della Mariga segue queste vite allo sbando, che conoscono momenti di luce solo grazie all’amicizia che le lega. Sodalità che peraltro si rivela un’arma a doppio taglio, perché, nei momenti in cui le quattro ragazze si coalizzano, finiscono – soprattutto per sollecitazione della trasgressiva e sventata Betta – con l’abbandonarsi ad atti di microcriminalità. Aggrediscono una coetanea per rubarle un paio di scarpe alla moda che finirà nei navigli, perché, dopo la prodezza, la baby rosa gang scoprirà che la ‘refurtiva’ non s’adatta al piede di nessuna di loro. Accettano di assecondare il desiderio lubrico di alcuni pensionati, per poi – anche in questo caso – rendersi artefici di un furto che a nessuno converrà denunciare. Non mancheranno nel loro caotico calderone atti di bullismo, con corollario di minacce o con l’umiliazione delle vittime di volta in volta designate. Le figure adulte, comprese le assistenti sociali, appaiono del tutto inadeguate ad attuare con loro un’azione incisiva e, anzi, sono esse stesse, il più delle volte, soggette a dinamiche involutive; anche il parroco, che pure cerca di destare le coscienze, sembra in preda alla sensazione di ballare il rigodon, in cui – tra passi avanti e passi indietro – si finisce col restare perennemente fermi nel medesimo punto.

Il romanzo si dispiega attraverso brevi capitoli, in cui la voce narrante interviene, soprattutto a conclusione delle singole ‘avventure’, per interpretare i moventi degli attori delle vicende, senza alcuna intenzione giudicante. Come una sorta di speaker radiofonica (il nostro pensiero, pur con le dovute differenze, è involontariamente corso al Gedeon Burkhard della Radio Tam Tam de La piovra 5), la narratrice assurge a genius loci che ora accarezza ora sferza – ma sempre con dolente pietas – le anime alla deriva di quel microcosmo sbagliato. Tali interventi sono connotati da maggiore pathos, con il prevalere in alcuni casi di una prospettiva quasi lirica e in altri dell’elemento retorico. Il linguaggio delle sezioni dialogate tende invece decisamente alla mimèsi, sino a offrire un saggio, nel capitolo Chat, della scrittura tipica delle conversazioni su whatsapp.

Come in un inchiesta giornalistica, emergono dunque i temi del disagio giovanile, dell’omofilia e della sua percezione sociale, della dipendenza da droghe, delle reazioni a catena innescate da un atto delinquenziale anche minimo, dei condizionamenti che possono indurre all’assunzione di sostanze stupefacenti anche chi non avrebbe mai immaginato di farne uso né in fondo lo desiderava. Su tutti il personaggio più felicemente disegnato dalla penna di Della Mariga ci pare proprio quello di Rosaria, nel contrasto tra l’anelito alla leggerezza e il carico di un corpo percepito quale gravame, tra l’aspirazione alla bellezza e il sentirsene fatalmente esclusa, tra l’attenzione agli altri e la tendenza a trascurare sé stessa. Il lettore ha la sensazione che proprio lei sarebbe stata l’ideale erede dell’unica figura che nel romanzo appare fattivamente salvifica, la madre di Arianna, l’operatrice socio-sanitaria. Il destino, però, avrà altro in serbo per lei…

Eppure colei che non riesce a sciogliersi in danza diverrà ispiratrice del catartico ballo su cui si conclude il romanzo: “quella delle ragazze è la danza del loro tempo, quella che scongiura le iatture, quella che flagella i benpensanti, che onora le amicizie, che consolida le esistenze”. Un gesto quasi apotropaico, insomma, che – nelle intenzioni dell’autrice – connette idealmente quelle giovanissime perennemente sull’orlo di una crisi di nervi alle pietre di scarto delle banlieue di tutto il mondo. In fondo, proprio tra materiali negletti dai costruttori può annidarsi quella (un caso su mille) che, per effetto di un improvviso cambio di rotta, diventa “la pietra d’angolo” [Sal 118,22-23].

Sillabario all’incontrario


Recensione a E. Sinigaglia, Sillabario all’incontrario, TerraRossa Edizioni, Bari 2023, Euro 16,90.

Il sillabario ha una sua tradizione, strettamente connessa all’idea di apprendimento. Quell’apprendimento che sui banchi di scuola vedeva impegnati i fanciulli con libri che allenavano alla lettura attraverso il metodo sillabico. Da uno di quei fanciulli Goffredo Parise aveva tratto ispirazione per i suoi due Sillabari, pubblicati su periodico e successivamente, nel 1984, in volume (Adelphi). Si trattava di una serie di racconti, intitolati a “sentimenti umani essenziali” e disposti in ordine alfabetico (Amore, Affetto e così via). Il progetto ha sapore di incompiutezza, arrestandosi alla parola Solitudine.

Nella sua straordinaria tensione al raccontare, Ezio Sinigaglia recupera la struttura del sillabario, compiendo però una sorta di itinerario a ritroso, dalla Z alla A, dalle manifestazioni esterne alla possibile individuazione dell’origine di un disagio, in un’auto-inchiesta dell’io all’insegna di un serissimo – e per questo ancor più efficace – umorismo. Diversamente dai sillabari del vicentino, quello di Sinigaglia connette a ogni lettera alfabetica un solo termine da cui però scaturisce una proliferazione di narrazioni, in una magmatica rete di richiami e corrispondenze sia all’interno del microsistema del Sillabario sia se si guarda all’intera produzione di Sinigaglia, di cui quest’opera diviene summa. Mi piace, infatti, definirla come una sorta di thesaurus delle sue possibilità narrative. Chi abbia anche limitata familiarità con la scrittura di quest’autore, si muove a proprio agio come in una foresta (o, per recuperare l’immagine iniziale, in uno zoo) in cui ogni singolo elemento ti pare rimandare ad altri loci di opere precedenti o successive, dallo splendido Eclissi al geniale dittico di Aram.

Per quanto riguarda le associazioni evidenti all’interno dell’opera, basti pensare all’elemento dello zoo, reale ma iperbolico (per la tendenza al mitografico insita nella narrativa di Sinigaglia) e metaforico al contempo. Un passaggio chiave dell’opera è, infatti, quello dedicato all’Inedito e alla difficile ricerca d’editore che la società giudica quale segnacolo dell’insuccesso. Non a caso il cinquantenne “d’insuccesso, nella società di oggi, suscita gli stessi sentimenti di pietà che, nella società di ieri, suscitava una cinquantenne nubile: la si compiangeva in quanto zitella, eventualmente anche senza conoscerla”. Uno dei corollari possibili per chi affastella inediti nel proprio scriptorium è l’approdo alla tendenza a differire penelopicamente il completamento di un’opera, “così da mantenerla per alcuni anni nella condizione, non già di inedito, ma di opera in corso di ultimazione”. Ne deriva una riflessione molto interessante sul concetto di hantise applicato alla scrittura, oltre che sull’intraducibilità del termine stesso; affiorano memorie dell’autonoma esistenza di creature figlie dell’arte che nella nostra tradizione ha trovato espressione in vari contesti, dal Fogazzaro di Liquidazione (ma anche del carteggio con Giuseppe Giacosa) al Capuana del Decameroncino, sino a giungere a Pirandello. Il capitolo si conclude con la constatazione che “la mia memoria è assediata dai fantasmi inediti come la mia povera casa dagli insaziabili felini”. Ecco che, dunque, nel gioco del Zirkel des Verstehens, l’immagine incipitaria è inquadrata in una nuova prospettiva.

Lo stesso dicasi per il secondo capitolo, V come vegetazione; quello che inizialmente sembrerebbe un paradossale pezzo di bravura, un elogio della vita vegetale – Leopardi nelle Operette aveva tracciato quello degli uccelli –, si carica di ulteriori significazioni quando si giunge a Humour. In tale capitolo si legge, a proposito della madre, che “aveva anche lei, di vegetale, il talento di accettare serenamente la sua zolla, di mettervi radici e di succhiare tutta la linfa dal terreno, per quanto avaro fosse, così da nutrirne rami e foglie e fiori”.

Per quanto concerne, invece, i rapporti col sistema della produzione di Sinigaglia, basterà qualche esempio: le avventure oniriche possono far pensare alle letture conradiane del primo capitolo del dittico; tra l’altro Joseph Conrad nel Sillabario è citato per Tifone. Il dialogo di estrema levità con il ragazzone di E come Eros – felice tentativo di dar luogo a una conversazione in cui la parola si libra come fosse priva di peso – potrebbe evocare il ricordo della dolcissima figura di Sciofì. La tendenza, tipica del puer divinus (e dell’Aram del dittico), a ribattezzare cose e persone emerge nella gustosa sequenza di Service, cameriere così ribattezzato dal termine con cui annuncia il proprio arrivo a servire la colazione in camera. La scena è dominata dal ralenti gestuale, che proietta in un’aura mitica (si pensi ai riferimenti alla dea Kalì o alla fiaccola d’Olimpia) un episodio ripetitivo e un’interazione tutto sommato labile, per non dire insignificante di per sé. Qualcosa di analogo accade anche per l’epicizzazione della lavatrice, in un evento – il lavaggio della biancheria intima – che nella prospettiva di Clara, straniata dallo sguardo dell’io narrante, diviene un rituale “mistico-edonistico”. Appena ho veduto, poi, comparire il personaggio di Carlo Due in B come Bambini, il pensiero è corso subito al Beniamino, detto Ben, di Eclissi, sebbene – lo confesso – immaginassi del tutto diversamente questo personaggio, fantasma del desiderio. Nessuno stupore pertanto, nonostante le dichiarazioni dell’autore, nel leggere, a fine capitolo: “Carlo Due morì: non nel nostro mare: in un altro, lontano: Egadi, o Eolie: morì annegato, per colmo di sventura: è la prima volta che lo estraggo dagli abissi.”

Il Sillabario è un’opera di notevole interesse. La cultura dell’autore affiora costantemente; se altrove Sinigaglia fa riferimento alla gru di Chichibio, in Humour vedi d’improvviso emergere l’icona del cuoco veneziano. Nel finale, mentre narra le scaturigini della sua prima arguzia, una freddura sul termine linguetta, la voce narrante scrive: “vennero su da sole, le parole: su, alla mia bocca”. Così, a ben rammentare, accadeva al personaggio boccacciano: “Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si venisse, rispose”. Le riflessioni condotte da Sinigaglia (si consideri il paradosso della Rosetta) sono prova di un talento umoristico che non finisce mai di sorprenderti, anche per effetto di una capacità di cogliere e squadernare le disarmonie e trarne linfa per il ragionamento.

Non mancano spunti interessanti per i critici, per esempio nella riflessione sui generi letterari; è il caso del capitolo consacrato al Giallo, colore ma anche denominazione italiana di un genere in cui “la morte perde tutta la sua luttuosità, la sua solennità, la sua retorica per diventare semplice spunto narrativo”. Nel capitolo in questione lo scrittore avanza lucide considerazioni sulle differenze tra le declinazioni dello stesso in Conan Doyle, Poe, Christie, Simenon…

Il Sillabario è un’opera che attinge forza anche da uno stile curato, elegante, spesso sornione, in cui nel fluire di proustiana memoria ogni periodo sembra scaturire dall’altro per magica proliferazione, complice l’uso frequente, quasi ossessivo, dei due punti. Se il lettore non ha, alla fine, la certezza che l’“assassino” (la causa del malessere) sia stato effettivamente smascherato, gli resta l’ebbrezza di un itinerario interiore, profondo e scanzonato al contempo, un viaggio che, forse, potrà rivelargli qualcosa anche di sé, per effetto di quel potere conoscitivo indiscutibilmente proprio della scrittura di qualità.

Legati i maiali


Recensione a T. Mastrototaro, Legati i maiali, Marco Saya Edizioni, Borgoricco 2020, Euro 12.

Legati i maiali di Teodora Mastrototaro è una raccolta poetica che non può non suscitare inquietudini e riflessioni.

A prescindere dal fatto che si condivida o meno l’antispecismo che anima l’autrice e ne guida le battaglie (la problematica è complessa e anche l’uomo può talora restare vittima di altri animali nella catena alimentare), il senso di straniamento che Mastrototaro riesce costantemente a determinare nel lettore rappresenta senz’altro il maggior punto di forza dell’opera.

Essa c’introduce nel microcosmo concentrazionario del macello, tra vittime e carnefici. L’io lirico si sdoppia, in un prospettivismo che l’induce, nella prima sezione dell’opera, a identificarsi con le vittime del brutale massacro e, nella seconda, con gli addetti alla macellazione. È, tuttavia, evidente come la sua adesione interiore vada tutta alle creature destinate alla morte nella convinzione che il loro esistere e sentire sia inferiore a quello degli uomini. Ammesso e non concesso – sia detto per inciso – che oggi si attribuisca ancora valore alle vite umane, problematica su cui a nostro avviso ci sarebbe molto da discutere…

Mastrototaro è poetessa viscerale, che non esita a chiamare le cose con il loro nome, dando forza poetica anche alla crudezza di un lessico che allude alle funzioni fisiologiche, spesso riflesso involontario della brutalità della macellazione.  Nella prima parte, il processo condotto dall’autrice è duplice: da un lato, infatti, la scrittrice insiste sull’umanizzazione dell’elemento animale. Significativo è il continuo alludere a categorie che spesso l’uomo crede propria esclusiva prerogativa; penso alla genitorialità o ai rapporti familiari: “Madre, non ho il permesso per le stagioni: / devo crepare in assenza di stelle, in assenza di sole”. La sottolineatura del contrasto tra i ritmi della natura, con i loro cicli di morte e rigenerazione, e il carattere definitivo del destino che attende le vittime rinvia, peraltro, a riflessioni che da Catullo – applicate all’uomo – avevano trovato terreno fertile in Leopardi e poi ancora, con struggente verità, in Levi. Il lessico dell’affettività sembra negato dalla brutale indifferenza dei carnefici: “Da madre mi chiamo fattrice”, asserisce una delle creature cui Mastrototaro dà voce. Se, quindi, la poetessa umanizza l’elemento animale, d’altro canto ella non manca di squadernare l’anatomia delle vittime, mostrando come l’agire dell’uomo le riduca a corpi inerti, reificandole. Odori sgradevoli, immagini cruente, riferimenti allo scatologico e al basso corporeo finiscono non col destituire di dignità le vittime della macellazione, ma col rivelare la componente ferina insita nell’uomo che nell’asetticità di quei contesti di morte emerge nitida.

Molto efficace anche la seconda sezione. Numerosi sono i testi che colpiscono la nostra attenzione, a cominciare dal primo, in cui campeggia la “macchia a forma di stella” sulla fronte di un cavallo. L’autrice senza infingimenti ci mostra “L’occhio che schizza dalla cavità orbitale”, con la “scia luminosa” assimilabile a una cometa, osservazione che suscita l’amara ironia del finale di questo insensato catasterismo. Il secondo componimento induce a riflettere su quanto il massacro sia a volte inane: “la Trichinella ha deposto le uova / nel maiale ammazzato”. Il terzo vive tutto della serrata iterazione del processo generativo: “La vacca sarà fecondata / per tornare a essere madre / di un figlio che sarà padre / di una figlia che sarà fecondata / per essere madre di un figlio / il cui seme lo renderà padre” e via discorrendo. L’insistenza sulla ciclicità dell’atto di donare la vita appare stridere con l’immagine inziale, brutale, esiziale, delle “Braccia lunghe con lunghi peli” che “estraggono dal ventre della vacca / la sua più bella malattia: un maschio”. Ed è proprio questa, forse, l’intenzione di Mastrototaro: se, nella distorta ottica dell’uomo, gli animali perpetuano la catena della vita al mero scopo di fornire gustose bistecche alla sua tavola, non è certo questa la ragione ultima di quel processo. Altri testi ancora si potrebbero citare: quello consacrato alla lenta morte del feto di vacche gravide; il paradosso della mancata macellazione nel giorno di Passione; l’explicit del testo de La mezzena nella cella frigorifera e infine il Grand Guignol della “sala vuotatura”. A volte, l’espressione si condensa felicemente in pochi versi; si pensi al componimento consacrato all’enigma dei “movimenti ossessivi degli animali in attesa”. E nella poesia che si apre su La prima volta che ho stordito un animale ho chiuso gli occhi emerge un’ulteriore insanabile dualità: se quella che muore era vita, pur disprezzata, pur soggetta alla deminutio specista, si è certi che chi preme il grilletto e perpetua un atto di disamore non sia egli stesso un mort vivant?