
Recensione a D. Rocco Colacrai, D come Davide. Storie di plurali al singolare, Le Mezzelane, 2023, Euro 13.
Davide Rocco Colacrai si conferma voce interessante e raffinata, dotata di un proprio peculiare timbro anche in questa silloge, D come Davide, che – come specifica l’autore stesso – muovendo “da una dimensione strettamente personale” finisce col “trasformarsi in una storia del mondo”.
Questo accade perché il poeta si fa cassa di risonanza di una serie di vicende, alcune legate a una Storia assurta a dominio di una brutale “selezione naturale” in cui il diverso finisce col soccombere, altre fiorite nelle pagine di romanzi o tra le maglie di altre poesie. Colacrai compie un atto di immedesimazione, dolcemente (ma anche dolorosamente) insinuandosi nelle vite di cui si rende voce; il momentaneo spossessamento di sé dà avvio al processo di identificazione nell’altro che al sé comunque in qualche modo riconduce, perché l’autore riscopre frammenti della propria anima in quella altrui. La maggior parte delle liriche è così costruita in prima persona per effetto di un procedimento che – lo ribadiamo – non è mero esercizio retorico.
In D come Davide, Colacrai riannoda la propria vicenda personale alla storia dell’umanità sin dai suoi progenitori, Adamo ed Eva. I loro archetipi rivivono in ciascuno di noi, che “Dall’oblò delle nostre tasche assaggiamo il paradiso / senza farci il segno della croce”. Loro retaggio è il nostro ritmo di innocenza e trasgressione, la tensione a cogliere “la rugiada vergine del giorno” e a sentirci costantemente rigettati da un Eden che per noi è indefinita saudade. I gulag, il Cile di Pinochet, il confino alle Tremiti per gli omofili, il massacro di Shatila: in queste oscure pagine di storia s’innalzano parole di vinti, quasi preghiere (quello della preghiera è vero e proprio Leitmotiv della silloge) elevate a una più alta, forse utopica, istanza di Giustizia. A queste figure, di cui il poeta puer divinus rivive sogni e traumi, si alternano personaggi scaturiti dalla letteratura, e dal suo potere resi vividi e veri, e ancora le memorie della storia familiare di Davide Rocco, tra cui spicca, in particolare, Anna (Un’Anna tra le altre), creatura limitanea (La porta di Anna), quasi consegnata a una dimensione mitica. È lei che sembra scandire il tempo della preghiera (“Qualche volta parla da sola, mia madre, / scopro le labbra, leggere come un pensiero, / che quasi soffiano ricordi, / o forse preghiere”); è lei la depositaria della dimensione del silenzio (“quei silenzi / che l’avvicinavano al cielo, almeno un po’). Dimensione che si fa pervasiva nella silloge, perché alternativa al rumore assordante di una Storia che aliena. È allora che scaturiscono i soliloqui, carezze allo spirito (“i soliloqui fiorivano / come azalee”), e che i sogni possono ancora subentrare al reale, fondersi e confondersi con esso, riscattarlo, restituire il calore laddove prevarrebbe il freddo della solitudine. Accanto alla figura materna, rivivono anche il padre, che sosta commosso al cospetto de L’albero di Giovanni (Falcone) e che nella sua pietas, ruvida ma gentile, è a suo modo albero egli stesso; il nonno, Venanzo dagli occhi azzurri, occhi che spiccano come “due nudi delfini al mondo” anche per le “ciglia d’arpa”, strumento caro a Colacrai. Significativa, a tal proposito, sarà anche la presenza del violino nel testo dedicato all’assolo di donna nel Gulag, in cui una figura di donna etichettata come “pazza” “impugnava un arco come impugnasse il dolore”, cercando di definire uno spazio di sopravvivenza nell’alienazione della realtà concentrazionaria.
Di quelle sofferenze ma anche dell’abbarbicarsi all’esistere di tante vite interrotte la voce dell’autore si fa “eco”. Quello dell’eco è un altro elemento proprio del mito personale del poeta: è smaterializzazione di ciò che ebbe tangibilità (l’“eco del pane”); è mormorio interiore che riconduce all’archetipo materno per eccellenza (“eco materno / delle madonne immacolate”); è concretizzazione stessa del mistero della vita al suo occaso (l’“eco indefinita” di Trilogia dell’addio III). È l’eco di un pensiero di dolore, a volte nata dalla “malattia del desiderio”, che attraversa oceani spazio-temporali per essere raccolta in quell’ideale conchiglia ch’è la poesia, magari anche volano dell’“iride della nostra risurrezione”. Così, i cromatismi bui (l’“arcobaleno nero”, ma anche il “canto dal roveto nero”), allusivi al ritorno all’“utero sterile” di una terra desolata, conoscono un bilanciamento negli azzurri, nei chiarori aurorali, nel verde del faro, nell’“aureola di fogli di quaderno e biglietti di carta” attorno all’albero di Falcone, testimonianza che forse è ancora possibile estrarre qualcosa che non sia ‘inferno’ dal “grembo indefinito dell’incubo”.