Il giorno sulla foglia


Recensione a G. Maleti, Il giorno sulla foglia, Il ramo e la foglia edizioni, Roma 2023, Euro 13.

È un’operazione meritoria questa compiuta dalle edizioni Il ramo e la foglia, che hanno raccolto ne Il giorno sulla foglia una selezione di testi della poetessa Gabriella Maleti (1942-2016), con l’aggiunta di un significativo gruppo di inediti dal titolo IL BOSCO, canto  nel complesso unitario articolato (evidenti i fattori numerologici) in trenta momenti.

L’opera è introdotta dalla commossa nota introduttiva di Mariella Bettarini, curatrice del volume, e si chiude con una postfazione tratta dalla tesi di laurea di Marta Moretti, incentrata, appunto, su Maleti.

I primi testi antologizzati risalgono alla raccolta Memoria, pubblicata nel 1989 da Gazebo, casa editrice fondata da Maleti e Bettarini. I testi presentano una densità di senso che a tratti li rende difficili, ma che certo non impedisce il raggiungimento di punte di intensità come queste: “La madre che dorme non ode l’alba: / nei suoi letti posiziona i fissi capelli / ride fulva come la volpe accucciata / e gonfia”.

In Fotografia (Gazebo, 1999) Il libro dell’inquietudine di Pessoa funge da genius loci; con lui Maleti dialoga con voce nitida, insistendo sul “sacro fenomenologico della campagna” in cui, non a caso, presenza significativa è il canto del gallo, dal cui “colore nascono, albine, / le albe”. La prefazione è d’ausilio nel comprendere l’incidenza pervasiva dell’immaginario campestre; Maleti aveva trascorso l’infanzia – tutt’altro che rosea – “a Marano sul Panaro, un piccolo paese della campagna emiliana”. Lì aveva sperimentato un vissuto familiare distonico, in cui la mitezza della figura materna spiccava, per contrasto, con la “febbrile ansietà” (Moretti) che pervadeva le stanze domestiche. Questa dimensione infantile è spesso richiamata nella poesia di Maleti, quasi che l’autrice volesse mantenerla in vita e distanziarsene al contempo o, almeno, questa è l’impressione che ne abbiamo ricavato. “Sarchierò, vangherò, difenderò – pensavo – messa precocemente / a guardia di memorabili quasi decessi, di probabili eccessi, / di tutto ciò che si deteriorava, intristiva le mie zampette / di bambino. // Ma di quale infanzia sto parlando?” Da notare la presenza, in questa raccolta, di versi lunghi quasi al confine con la prosa, a respingere idealmente una musica che, dissimulata, ritorna nelle rime interne e negli emistichi (si pensi al “Sarchierò, vangherò, difenderò”, ch’è endecasillabo tronco). Non mancano la riflessione sulla scrittura, che acquisisce forza in versi come l’assertivo “Scrivo tutto ciò che si muove e respira” in risposta agli interrogativi incalzanti della prima strofa. Sul filo del paradosso corre poi la meditazione relativa al metamorfosarsi delle cose in “Sediamo approssimati e metodici / a vari alberi”.

In Parola e silenzio (Gazebo, 2004) il dettato guadagna ulteriormente in nitore e comunicatività. Tornano le domande di senso, incalzanti, e si affaccia l’icona del bosco: “E qui, priva di fogli / con foglie ma d’ombra, / qui assenti gli inchiostri / spezzo solo bacche nere tra / unghia e unghia”. Scrittura e cammino della vita appaiono strettamente collegati. Un viaggio che, perennemente, nella poesia di Maleti sembra condotto con scarpe scomode e l’io circondato – come sottolinea ironicamente – da “cose caneiformi attorno”. Segnaliamo versi belli come “Chi scrive, chi canta, chi degenera in scomparsa?” e il finale di questo stesso testo – “Mutuare l’ingegno (quel poco) in” – che elenca le caratteristiche dello scrittore, “avventuriero minimo / della propria storia”. Quest’enumerazione si connota per la disparità tonale e stilistica degli elementi: trova spazio un aggettivo sostantivato mutuato dai dominî della filosofia (“il fenomenologico”) accanto a termini del linguaggio comune e persino dialettali (crapa büsa per “testa vuota”).

In Prima o poi (Gazebo, 2014) continua l’avvicinarsi alla natura, unitamente all’accostarsi al mondo come orto in cui dialogare col “verde sedano” e la “patata tonda che ti sfarini”. Emblematico il crescere della vite come ipostasi di una “ricchezza povera” e per questo ancor più vera. “Giro nel piccolo cortile / raccatto foglie, campi, / è il meglio della mia vita”.

Prende sempre più forma così l’icona del Bosco dell’ultima sezione. Il suo attraversamento è reale e al contempo metaforico, perché l’intero esistere dell’uomo può assimilarsi all’andare senza scarpe adatte in mezzo alla “mota”. Un camminare in cui “noi non vediamo che i nostri piedi” e i calzari si sformano, bucano e imbarcano erba e foglie. Eppure molti elementi positivi lo connotano: l’odore del bosco è “mistico”. In esso l’astratto sembra sostituirsi al concreto esperienziale: “L’infinito copre il cielo / e non possiamo che immaginarlo” (semmai nella vita sperimentiamo l’opposto). Nel bosco è possibile sotterrarsi “nel terreno caldo delle vaghezze” e vincere le asincronie del cuore, per cui amore e disamore appaiono thesaurus di possibilità cui attingere anche simultaneamente.

“Ora nel bosco capita poco”, eppure ciò che accade acquisisce – in una sorta di epoché dello spirito – il carattere di miracolo. Nel bosco si può essere – come si è – “stremati, umili viaggiatori” e contemporaneamente “Bambini che vogliono ristoro, risposte”. Perché tali, in fondo, sono gli uomini. In esso risuonano voci: voci estranee, notturne, che inducono allo smarrimento, ma anche voci rivenienti dal passato (“‘Sei incomprensibile’” diceva mia madre / Che vuol dire? / Perché vado nel bosco con l’altra me?”). Nel finale, in cui compare l’icona del rilucere del “giorno sulla foglia”, il dettato si libra sempre più limpido, nell’esprimere verità quotidianamente sotto gli occhi di chiunque, eppure rilevate da ben pochi: “è verde verde la foglia e la vita la tiene stretta / come salvezza. Ha bisogno di vita la vita”. Nel momento in cui emerge ciò ch’era prima sottinteso, che, cioè, siamo noi stessi bosco e che “Il fallace mondo è su un / balcone e guarda”, le voci silvane impongono il silenzio. “In punta di piedi ce ne andiamo”.

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