
Recensione ad A. Vasco, Alfredo e i suoi eteronimi (sproloqui e poesie), Francesco Tozzuolo Editore, Perugia 2022, Euro 15.
La raccolta di Alfredo Vasco è un esordio poetico interessante, con alla base un gusto del divertissement di matrice umoristica, ma anche una poderosa componente di amara assunzione di consapevolezza della ferinità della natura umana.
Vasco adotta l’artificio degli eteronimi, che vanta una tradizione significativa nella letteratura internazionale: si va dal caso di Olindo Guerrini, che assunse quelli di Lorenzo Stecchetti, Mercutio e persino dell’umorale zitella Argìa Sbolenfi, a quello, estremamente celebre di Fernando Pessoa. Il poeta portoghese forgiò infatti personalità poetiche complesse, ciascuna con una propria storia e una precisa connotazione, da Álvaro de Campos a Ricardo Reis, da Alberto Caeiro a Bernardo Soares, e così via.
Le tre identità cui Vasco dà voce sono quelle delle sue anime: Alfredo, costruito per analogia ma non in tutto similare (“Ha i miei stessi ricordi. / Invecchia con me. Ama come me”, scrive, senza affermare la piena coincidenza con sé stesso); Narduccio, il “filosofo esistenziale”, dal poeta connotato attraverso un gustoso pastiche linguistico siculo-salentino; Colin, col suo idioma petroso e dai suoni gutturali, ch’è – come scrive Daniele Giancane nella bella prefazione – il dialetto di Grumo. A complicare ulteriormente il quadro è la componente attoriale inscindibile dalla personalità di Vasco (“Penso che Vasco sia un poeta che fa l’attore”, scrive Albertazzi in una testimonianza in appendice al volume); nasce così un ulteriore gruppo di testi che l’autore definisce “sproloqui”. Questi ultimi si dispiegano all’insegna dell’umoralità, spesso connotati dal gusto del gioco linguistico; è il caso dello Sproloquio d’attore (II) in cui Vasco, muovendo dal vocabolo “pedissequo” decide di perseguire una scrittura che si affidi a una sorta di carnevalizzazione fonico-linguistica, in cui l’elemento semantico è del tutto subordinato al gioco degli arguti abbinamenti di suono. Non tutti gli sproloqui, però, sono connotati da questa giocosità erede del gusto palazzeschiano; certo, però, i risultati migliori nascono da associazioni etimologiche o di campi semantici (lo sproloquio VIII) oppure da un disvelamento, caro al Barocco, dell’umano disinganno (sproloquio V).
È una raccolta quella di Vasco in cui spiccano alcuni testi in particolare. Nel canzoniere di Alfredo, la poesia raggiunge a nostro avviso i suoi momenti più limpidi nella rammemorazione dell’infanzia, che, da un lato – forte dello sguardo fanciullo –, mitizza sensazioni, figure ed emozioni, dall’altro non manca di un corposo realismo. Realismo che si traduce nell’uso della parola schietta, materica, anche del turpiloquio e dell’elemento scatologico, non di rado. Versi come questi restituiscono l’agrodolce essenza dell’esistere: “Poi viene il Natale. / Le bucce di mandarino. / Papà non è solo un sogno. / Le miniere del Belgio me lo hanno rimandato indietro. Con la faccia sporca di carbone. / La mamma chiude la porta. / Per questa notte non potrò dormire con lei. / Corro fra i profumi dei fiori di mandorlo. / E fra le gambe mi scoppia la voglia. / Mia sorella c’ha il sangue nelle mutandine”. Essi ci paiono rappresentativi della poetica di Vasco. Ci si muove costantemente tra innalzamento per effetto del puer divinus che guarda poeticamente al mondo, per poi subito dopo sperimentare la precipitazione nelle panie della concretezza e dei sensi. Così, al riferimento al profumo del mandorlo in fiore subito subentra il cenno all’eccitazione fisiologica del fanciullo che scopre il piacere, allo stesso modo in cui la sorella sperimenta i disagi del ciclo mestruale. Nella medesima direzione segnaliamo Il tunnel, altro bel testo che potremmo racchiudere nell’immagine, in cui molti si riconoscerebbero, de “L’estate che non passava mai / Come una corsa / Infinita / Nel tunnel della felicità”.
Curioso che l’icona, cara a Neruda, del tunnel – solitamente negativa, in letteratura e nel comune sentire, per il suo portato di oscurità – sia qui abbinata alla felicità (non così, invece, in Barlumi di infanzia). Eppure, a pensarci, essa rende bene l’essenza dolceamara degli istanti di felicità che l’uomo assapora, brevi e intensi al punto che, mentre li esperisci, ne provi già nostalgia. Accanto a questi componimenti ci piace ricordare l’explicit di Faust (“Ritrovarmi / sempiterno Faust / ancora una volta nudo / svuotato / al cospetto di un Dio che non c’è”) o ancora Ed all’improvviso, in cui affiora il motivo della pervasività della Morte, che attraversa l’intera raccolta di Vasco (si pensi al finale di La festa di la Madonna o ancora ai testi dedicati alla guerra, tra i quali ci convince particolarmente Mio figlio se n’è andato). Sentore di danse macabre che il poeta cerca di esorcizzare con l’autoironia di testi quali Mi sono amato, con l’umorismo amaro di Parteit a tressett, con il giocoso delirio citazionista degli sproloquio l’Italum acetum dello Sproloquio d’attore (XI). Su tutto, domina la volontà di dare alle cose il loro nome, perché in fondo è questo il grande potere del poeta e dell’attore: passando di eteronimo in eteronimo, può mostrare il fetore di decomposizione dietro le apparenze luminose delle maschere in cui l’umana feritas si trincera.