
Recensione a T. Mastrototaro, Legati i maiali, Marco Saya Edizioni, Borgoricco 2020, Euro 12.
Legati i maiali di Teodora Mastrototaro è una raccolta poetica che non può non suscitare inquietudini e riflessioni.
A prescindere dal fatto che si condivida o meno l’antispecismo che anima l’autrice e ne guida le battaglie (la problematica è complessa e anche l’uomo può talora restare vittima di altri animali nella catena alimentare), il senso di straniamento che Mastrototaro riesce costantemente a determinare nel lettore rappresenta senz’altro il maggior punto di forza dell’opera.
Essa c’introduce nel microcosmo concentrazionario del macello, tra vittime e carnefici. L’io lirico si sdoppia, in un prospettivismo che l’induce, nella prima sezione dell’opera, a identificarsi con le vittime del brutale massacro e, nella seconda, con gli addetti alla macellazione. È, tuttavia, evidente come la sua adesione interiore vada tutta alle creature destinate alla morte nella convinzione che il loro esistere e sentire sia inferiore a quello degli uomini. Ammesso e non concesso – sia detto per inciso – che oggi si attribuisca ancora valore alle vite umane, problematica su cui a nostro avviso ci sarebbe molto da discutere…
Mastrototaro è poetessa viscerale, che non esita a chiamare le cose con il loro nome, dando forza poetica anche alla crudezza di un lessico che allude alle funzioni fisiologiche, spesso riflesso involontario della brutalità della macellazione. Nella prima parte, il processo condotto dall’autrice è duplice: da un lato, infatti, la scrittrice insiste sull’umanizzazione dell’elemento animale. Significativo è il continuo alludere a categorie che spesso l’uomo crede propria esclusiva prerogativa; penso alla genitorialità o ai rapporti familiari: “Madre, non ho il permesso per le stagioni: / devo crepare in assenza di stelle, in assenza di sole”. La sottolineatura del contrasto tra i ritmi della natura, con i loro cicli di morte e rigenerazione, e il carattere definitivo del destino che attende le vittime rinvia, peraltro, a riflessioni che da Catullo – applicate all’uomo – avevano trovato terreno fertile in Leopardi e poi ancora, con struggente verità, in Levi. Il lessico dell’affettività sembra negato dalla brutale indifferenza dei carnefici: “Da madre mi chiamo fattrice”, asserisce una delle creature cui Mastrototaro dà voce. Se, quindi, la poetessa umanizza l’elemento animale, d’altro canto ella non manca di squadernare l’anatomia delle vittime, mostrando come l’agire dell’uomo le riduca a corpi inerti, reificandole. Odori sgradevoli, immagini cruente, riferimenti allo scatologico e al basso corporeo finiscono non col destituire di dignità le vittime della macellazione, ma col rivelare la componente ferina insita nell’uomo che nell’asetticità di quei contesti di morte emerge nitida.
Molto efficace anche la seconda sezione. Numerosi sono i testi che colpiscono la nostra attenzione, a cominciare dal primo, in cui campeggia la “macchia a forma di stella” sulla fronte di un cavallo. L’autrice senza infingimenti ci mostra “L’occhio che schizza dalla cavità orbitale”, con la “scia luminosa” assimilabile a una cometa, osservazione che suscita l’amara ironia del finale di questo insensato catasterismo. Il secondo componimento induce a riflettere su quanto il massacro sia a volte inane: “la Trichinella ha deposto le uova / nel maiale ammazzato”. Il terzo vive tutto della serrata iterazione del processo generativo: “La vacca sarà fecondata / per tornare a essere madre / di un figlio che sarà padre / di una figlia che sarà fecondata / per essere madre di un figlio / il cui seme lo renderà padre” e via discorrendo. L’insistenza sulla ciclicità dell’atto di donare la vita appare stridere con l’immagine inziale, brutale, esiziale, delle “Braccia lunghe con lunghi peli” che “estraggono dal ventre della vacca / la sua più bella malattia: un maschio”. Ed è proprio questa, forse, l’intenzione di Mastrototaro: se, nella distorta ottica dell’uomo, gli animali perpetuano la catena della vita al mero scopo di fornire gustose bistecche alla sua tavola, non è certo questa la ragione ultima di quel processo. Altri testi ancora si potrebbero citare: quello consacrato alla lenta morte del feto di vacche gravide; il paradosso della mancata macellazione nel giorno di Passione; l’explicit del testo de La mezzena nella cella frigorifera e infine il Grand Guignol della “sala vuotatura”. A volte, l’espressione si condensa felicemente in pochi versi; si pensi al componimento consacrato all’enigma dei “movimenti ossessivi degli animali in attesa”. E nella poesia che si apre su La prima volta che ho stordito un animale ho chiuso gli occhi emerge un’ulteriore insanabile dualità: se quella che muore era vita, pur disprezzata, pur soggetta alla deminutio specista, si è certi che chi preme il grilletto e perpetua un atto di disamore non sia egli stesso un mort vivant?