Sillabario all’incontrario


Recensione a E. Sinigaglia, Sillabario all’incontrario, TerraRossa Edizioni, Bari 2023, Euro 16,90.

Il sillabario ha una sua tradizione, strettamente connessa all’idea di apprendimento. Quell’apprendimento che sui banchi di scuola vedeva impegnati i fanciulli con libri che allenavano alla lettura attraverso il metodo sillabico. Da uno di quei fanciulli Goffredo Parise aveva tratto ispirazione per i suoi due Sillabari, pubblicati su periodico e successivamente, nel 1984, in volume (Adelphi). Si trattava di una serie di racconti, intitolati a “sentimenti umani essenziali” e disposti in ordine alfabetico (Amore, Affetto e così via). Il progetto ha sapore di incompiutezza, arrestandosi alla parola Solitudine.

Nella sua straordinaria tensione al raccontare, Ezio Sinigaglia recupera la struttura del sillabario, compiendo però una sorta di itinerario a ritroso, dalla Z alla A, dalle manifestazioni esterne alla possibile individuazione dell’origine di un disagio, in un’auto-inchiesta dell’io all’insegna di un serissimo – e per questo ancor più efficace – umorismo. Diversamente dai sillabari del vicentino, quello di Sinigaglia connette a ogni lettera alfabetica un solo termine da cui però scaturisce una proliferazione di narrazioni, in una magmatica rete di richiami e corrispondenze sia all’interno del microsistema del Sillabario sia se si guarda all’intera produzione di Sinigaglia, di cui quest’opera diviene summa. Mi piace, infatti, definirla come una sorta di thesaurus delle sue possibilità narrative. Chi abbia anche limitata familiarità con la scrittura di quest’autore, si muove a proprio agio come in una foresta (o, per recuperare l’immagine iniziale, in uno zoo) in cui ogni singolo elemento ti pare rimandare ad altri loci di opere precedenti o successive, dallo splendido Eclissi al geniale dittico di Aram.

Per quanto riguarda le associazioni evidenti all’interno dell’opera, basti pensare all’elemento dello zoo, reale ma iperbolico (per la tendenza al mitografico insita nella narrativa di Sinigaglia) e metaforico al contempo. Un passaggio chiave dell’opera è, infatti, quello dedicato all’Inedito e alla difficile ricerca d’editore che la società giudica quale segnacolo dell’insuccesso. Non a caso il cinquantenne “d’insuccesso, nella società di oggi, suscita gli stessi sentimenti di pietà che, nella società di ieri, suscitava una cinquantenne nubile: la si compiangeva in quanto zitella, eventualmente anche senza conoscerla”. Uno dei corollari possibili per chi affastella inediti nel proprio scriptorium è l’approdo alla tendenza a differire penelopicamente il completamento di un’opera, “così da mantenerla per alcuni anni nella condizione, non già di inedito, ma di opera in corso di ultimazione”. Ne deriva una riflessione molto interessante sul concetto di hantise applicato alla scrittura, oltre che sull’intraducibilità del termine stesso; affiorano memorie dell’autonoma esistenza di creature figlie dell’arte che nella nostra tradizione ha trovato espressione in vari contesti, dal Fogazzaro di Liquidazione (ma anche del carteggio con Giuseppe Giacosa) al Capuana del Decameroncino, sino a giungere a Pirandello. Il capitolo si conclude con la constatazione che “la mia memoria è assediata dai fantasmi inediti come la mia povera casa dagli insaziabili felini”. Ecco che, dunque, nel gioco del Zirkel des Verstehens, l’immagine incipitaria è inquadrata in una nuova prospettiva.

Lo stesso dicasi per il secondo capitolo, V come vegetazione; quello che inizialmente sembrerebbe un paradossale pezzo di bravura, un elogio della vita vegetale – Leopardi nelle Operette aveva tracciato quello degli uccelli –, si carica di ulteriori significazioni quando si giunge a Humour. In tale capitolo si legge, a proposito della madre, che “aveva anche lei, di vegetale, il talento di accettare serenamente la sua zolla, di mettervi radici e di succhiare tutta la linfa dal terreno, per quanto avaro fosse, così da nutrirne rami e foglie e fiori”.

Per quanto concerne, invece, i rapporti col sistema della produzione di Sinigaglia, basterà qualche esempio: le avventure oniriche possono far pensare alle letture conradiane del primo capitolo del dittico; tra l’altro Joseph Conrad nel Sillabario è citato per Tifone. Il dialogo di estrema levità con il ragazzone di E come Eros – felice tentativo di dar luogo a una conversazione in cui la parola si libra come fosse priva di peso – potrebbe evocare il ricordo della dolcissima figura di Sciofì. La tendenza, tipica del puer divinus (e dell’Aram del dittico), a ribattezzare cose e persone emerge nella gustosa sequenza di Service, cameriere così ribattezzato dal termine con cui annuncia il proprio arrivo a servire la colazione in camera. La scena è dominata dal ralenti gestuale, che proietta in un’aura mitica (si pensi ai riferimenti alla dea Kalì o alla fiaccola d’Olimpia) un episodio ripetitivo e un’interazione tutto sommato labile, per non dire insignificante di per sé. Qualcosa di analogo accade anche per l’epicizzazione della lavatrice, in un evento – il lavaggio della biancheria intima – che nella prospettiva di Clara, straniata dallo sguardo dell’io narrante, diviene un rituale “mistico-edonistico”. Appena ho veduto, poi, comparire il personaggio di Carlo Due in B come Bambini, il pensiero è corso subito al Beniamino, detto Ben, di Eclissi, sebbene – lo confesso – immaginassi del tutto diversamente questo personaggio, fantasma del desiderio. Nessuno stupore pertanto, nonostante le dichiarazioni dell’autore, nel leggere, a fine capitolo: “Carlo Due morì: non nel nostro mare: in un altro, lontano: Egadi, o Eolie: morì annegato, per colmo di sventura: è la prima volta che lo estraggo dagli abissi.”

Il Sillabario è un’opera di notevole interesse. La cultura dell’autore affiora costantemente; se altrove Sinigaglia fa riferimento alla gru di Chichibio, in Humour vedi d’improvviso emergere l’icona del cuoco veneziano. Nel finale, mentre narra le scaturigini della sua prima arguzia, una freddura sul termine linguetta, la voce narrante scrive: “vennero su da sole, le parole: su, alla mia bocca”. Così, a ben rammentare, accadeva al personaggio boccacciano: “Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si venisse, rispose”. Le riflessioni condotte da Sinigaglia (si consideri il paradosso della Rosetta) sono prova di un talento umoristico che non finisce mai di sorprenderti, anche per effetto di una capacità di cogliere e squadernare le disarmonie e trarne linfa per il ragionamento.

Non mancano spunti interessanti per i critici, per esempio nella riflessione sui generi letterari; è il caso del capitolo consacrato al Giallo, colore ma anche denominazione italiana di un genere in cui “la morte perde tutta la sua luttuosità, la sua solennità, la sua retorica per diventare semplice spunto narrativo”. Nel capitolo in questione lo scrittore avanza lucide considerazioni sulle differenze tra le declinazioni dello stesso in Conan Doyle, Poe, Christie, Simenon…

Il Sillabario è un’opera che attinge forza anche da uno stile curato, elegante, spesso sornione, in cui nel fluire di proustiana memoria ogni periodo sembra scaturire dall’altro per magica proliferazione, complice l’uso frequente, quasi ossessivo, dei due punti. Se il lettore non ha, alla fine, la certezza che l’“assassino” (la causa del malessere) sia stato effettivamente smascherato, gli resta l’ebbrezza di un itinerario interiore, profondo e scanzonato al contempo, un viaggio che, forse, potrà rivelargli qualcosa anche di sé, per effetto di quel potere conoscitivo indiscutibilmente proprio della scrittura di qualità.

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