
Recensione a R. Donnarumma, La vita nascosta, Edizioni Il Ramo e la Foglia, Roma 2022, Euro 18.
È un libro interessante La vita nascosta di Raffaele Donnarumma, un’opera che emerge per l’accuratezza della disamina del reale e la lucidità d’analisi psicologica, oltre che per la qualità della scrittura, raffinata nelle sezioni monologanti dell’io narrante e tendente – com’è giusto che sia – alla mimesi del parlato nelle sequenze dialogiche.
In seguito all’abbandono da parte di S., compagno storico, il docente universitario R., narratore interno e protagonista, comincia gradatamente a inoltrarsi prima nei meandri del microcosmo culturistico delle palestre e successivamente nel labirinto virtuale di gaydudes. In cerca di incontri fugaci, conoscerà L., ex dottorando del suo Dipartimento, impattando nel mistero della sua apparente apatia, di cui gradatamente scoprirà le ragioni, tentando – non diciamo con quali strategie né esiti – di porvi un qualche rimedio.
Ci sembra che nell’opera abbia forte incidenza il modello proustiano. Ravvisiamo alcuni punti di tangenza, per esempio, con l’allure dell’Albertine disparue; del resto, sulla crisi di un amore, quello con S. e sulla fuga di quest’ultimo si apre la narrazione. Proustiano è l’inesausto monologare della memoria interiore e contemplativa, così come l’analisi ossessiva di fatti, gesti, sensazioni. Il raffronto che R. conduce tra G., con cui ha tradito il compagno, e S. stesso richiama, con i dovuti distinguo, le comparazioni tra Gilberte e Albertine, con la differenza che è G. ad apparirci più simile all’icona del desiderio e dell’ossessione amorosa della Recherche. Ci sembrerebbe peraltro che il modello proustiano sia mediato – tra gli altri – anche attraverso quello sveviano, citato nel corso del romanzo; ne La vita nascosta, si ha del resto non di rado la sensazione “di osservare dall’alto una scena di impedimento”, elemento che Frye riteneva tipico del modo ironico.
Molteplici sono le implicazioni del titolo che, ammiccando all’epicureo λάθε βιώσας, da un lato allude a tutto un ventaglio di emozioni e relazioni che tende a restare celato alla società, dall’altro potrebbe riferirsi al carattere di separatezza, di remota interazione che dalla virtualità può virare repentinamente a un’effimera concretizzazione. Una dimensione in cui ciò che dell’individuo resta segreto è ben più di quanto si palesi.
L’opera ha anche il pregio di un’ottima dipintura d’ambienti. Sullo sfondo, ma uno sfondo nitido, vedi la vita del mondo accademico, con le sue leggi non scritte, le commissioni di sviluppo, le carriere fulminee e altre che procedono quasi sospese in uno spazio sdrucciolevole. L’autore accompagna alle descrizioni l’attenta analisi dei contesti e delle dinamiche psicologiche a essi sottese. Emerge dunque una matrice ragionativa che s’interroga sull’essenza del desiderio omosessuale o ancora sulle recondite ragioni del culturismo (un tentativo di “trasformare il proprio corpo secondo una norma astratta, artificiale, anonima”; “è l’odio di sé che impone questo esercizio ascetico di umiliazione”). Lucidissima è poi la disamina dei meccanismi che regolano l’ossessione del virtuale, accomunata – al pari del culturalismo – a una straniante ascesi, il cui “primo gradino è l’esproprio della volontà”. “Il virtuale cava fuori di noi il nucleo inscalfibile, miserevole, immutabile di noi stessi”. Fitta è la meditazione sul tempo – e sulla sua sospensione nelle panie della rete -, su inganni e autoinganni, depresse euforie o apostasie della “religione della separatezza”. Il filo della narratività, tenue, s’intreccia alle ekphràseis, ai monologhi, alle apostrofi, a riferimenti letterari (Leopardi, Sereni, Siti, Pasolini), alle delineazioni di vere e proprie categorie e tipi psicologici frequentatori delle piattaforme. E mentre si assiste alla declinazione del tema del fallimento dell’amore, si ha quasi l’impressione che quest’ultimo finisca con l’apparire– per prendere in prestito un’espressione da Sontag applicata ad altro contesto – “un’altra danza dell’io solitario”.