
Recensione a M. Procaccio, Fuori terra. Non scordare la fisarmonica, Progedit, Bari 2022, Euro 14.
L’autobiografia Fuori terra. Non scordare la fisarmonica è l’opera prima di Mariella Procaccio, edita da Progedit. La narrazione, affidata alla voce narrante di Maria, protagonista, muove dal marzo 1968 e dalla partenza della sua famiglia dalla Terra di Triggiano, compiuta, come terrà a precisare il padre Enzo nel corso del romanzo, “per progredire”. La vicenda si svilupperà così in tre tempi; oltre a quello già citato, in “Terra di Triggiano”, il lettore segue i personaggi prima in “Terra di Opera” e successivamente in “Terra di Abbiategrasso”, da cui, nel finale, tra le inquietudini dell’ennesimo sradicamento, faranno ritorno nella nostra regione.
In realtà, le narrazioni in retrospettiva sono incastonate tra sezioni in corsivo che ci riconducono al passato prossimo, alla Puglia tra il 2010 e il 2014. Quella Maria, ora divenuta adulta nella terra d’origine, si dedica ad attività di carattere sociale, gestendo laboratori di lettura nella biblioteca comunale del suo paese ma anche nelle carceri. È l’esperienza attuale a determinare le “intermittenze del cuore” che fanno riaffiorare i ricordi. In particolar modo, a suscitarle è il processo di rispecchiamento in figure in cui l’io narrante s’imbatte, quali per esempio, nel primo capitolo, l’immagine di una bambina dallo “sguardo vivido, timido ma attento”. La piccola si chiama Elène e viene dalla Georgia; alla madre, ansiosa di sapere se la figlia abbia cominciato a comunicare con gli altri, la voce narrante risponderà con parole di elogio per la ragazzina: “La signora è contenta e anche mia madre lo fu quando una maestra le disse così”.
Proprio in questo ricorrere di situazioni con caratteristiche analoghe tra presente e passato ci sembra risiedere la sostanza del romanzo. Da un lato vi è la vicenda della famiglia di Maria, composta dai genitori, Enzo e Lia, e da altri due fratelli, molto diversi tra loro, Nino e Nuccio. Dall’altro, essi finiscono col divenire rappresentativi di ciò che poteva essere una famiglia italiana emigrata nel Settentrione tra gli anni Sessanta e Settanta. Accanto a loro, i parenti precedentemente stabilitisi al Nord, gli zii Lino e Rina, con la loro famiglia che finisce – agli occhi di Enzo – col configurarsi quale antitetica al suo modello ideale.
Alcuni elementi assumono valore simbolico, nella vicenda. Il titolo è direttamente evocato quando Maria racconta che, al momento della sua nascita, tanto desiderata, il padre “era ‘fuori terra’, così si diceva della terra salentina e delle terre oltre la Puglia”. Questo elemento appare quasi una sorta di presagio del senso di sradicamento che percorre, a più riprese, le pagine del romanzo.
Non meno significativo è il sottotitolo: “Non scordare la fisarmonica”. Esso allude alla passione di Enzo, padre della ragazzina, per la musica, ma anche a una frase pronunciata dall’uomo all’indirizzo del figlio Nino al momento della partenza: “Si può scordare con il freddo e l’umidità”. Il lettore comprende così che, accanto al significato più immediatamente percepibile, quello di “dimenticare”, il verbo è riconducibile al lessico musicale, assumendo così il valore di “far perdere l’accordatura a uno strumento”. In realtà, il rischio della “perdita d’accordatura” sarà proprio ciò cui andranno incontro i tre giovanissimi figli. “Perde l’accordatura” Maria; la bambina inizialmente si chiude in una sorta di mutismo nel contesto scolastico, che la porta apparentemente a dilapidare il capitale acquisito nella terra d’origine (“L’hanno passata direttamente in seconda classe questa bambina, perché sa già leggere e scrivere e sa pure qualche tabellina”). Solo l’intuito di un’insegnante valida e anticonformista l’aiuterà a sbloccarsi: “Maria, io so che tu sai la lezione, aspetto senza fretta che tu mi dia la risposta”. Emerge a latere il motivo dell’importanza dell’azione pedagogica, dell’attenzione riservata a soggetti apparentemente “fuori chiave” in un determinato contesto, accanto alla riflessione sugli effetti imprevedibili che una manifestazione di fiducia può determinare in ambito scolastico (e non solo). Ancor più “scordato” apparirà il fratello Nuccio, che, subito identificato come chiassoso e “terrone”, si ritroverà “sempre più solo, più asociale e più sottovalutato”. Le difficoltà maggiori, però, saranno paradossalmente affrontate proprio da quello che appariva il figlio rassicurante, desiderabile, Nino. Si tratta senz’altro di una delle figure meglio caratterizzate nel romanzo. Inizialmente il giovane sembra conforme al modello di ragazzo aitante e sportivo (Nino era “per me soprattutto un corpo atletico e pieno di energia” – dichiara in apertura Maria, che quasi idolatra questo fratello bello e gentile). Nino sembra peraltro perfettamente in linea con il canonico giovanotto italiano (ancor più meridionale) appassionato di calcio, che approfitta di qualunque occasione per palleggiare, improvvisare partite, esibendo la grazia di una giovinezza simile a prodigio. Eppure il lavoro in fabbrica e, forse, le inquietudini d’amore squaderneranno una fragilità che già appariva latente nell’“espressione schiva e un poco malinconica”. La condizione di strumento non accordato appare forse ben attagliarsi anche ad altri personaggi: agli zii Lino e Antonino, anche loro a tratti perseguitati da un tarlo di cui si può solo intuire il potere corrosivo; alla zia Rina, che, mentre coltiva un sogno di leggerezza che ha i lineamenti e la voce dell’adorata Milva, si scontra con le panie di una vita spesso sull’orlo della crisi; alla madre Lia, iconizzata in un sorriso non privo di cedimenti e rimpianti; al padre Enzo, nel suo umorale e umanissimo oscillare tra sogni, ambizioni e momenti di rabbia e sconforto.
L’opera si lascia leggere con interesse grazie al dono di un’affabulazione affascinante e alla forza di una storia coinvolgente. Una vicenda che induce a meditare su quanto l’animo umano sia poco propenso ad accogliere l’altro da sé. Sono eloquenti le discriminazioni che i personaggi, in quanto meridionali, subiscono nella Lombardia di quegli anni: “ci puntavano gli occhi addosso forse per i vestiti neri di mia madre, o per la voce alta di mio padre, o perché eravamo l’unico gruppo di otto persone che occupavano metà della strada” e poi ancora “Io mi vergognavo un po’ di essere guardata”; “Si vede che son terroni, si devono far notare per forza o con la maleducazione, o con le stranezze”; “‘Per essere meridionali, son bravi’, aveva detto la portinaia”; “Mio padre si riscattò quando la signora Albini, mamma di un ragazzino del condominio e compagno dei giochi in cortile, si rammaricò del fatto che i miei risultati fossero migliori di quelli di suo figlio non facendosene una ragione. La potenza di quei numeri fece vacillare le certezze della madre dell’Enrico sulla superiorità della loro gente”. Il punto di maggior crudeltà è rappresentato da una vecchia vicina che tuona in un dialetto veneto contro i “Maledetti terroni, loro e le loro bestie”, rendendosi poi probabilmente responsabile dell’avvelenamento dell’“amatissimo anziano cane” di Maria. È un razzismo che – duole dirlo – è frutto dell’ignoranza o, in altri casi, di un’istruzione sterile mai tradottasi in vera cultura; fa specie, nel 2023, il fatto che anche noi meridionali, che abbiamo patito il supponente (e infondato!) senso di superiorità altrui in altri contesti, ci rendiamo oggi artefici di riflessioni analoghe verso chi migra nelle nostre terre. Deve far riflettere l’immagine della giovane protagonista che – grazie alla sua intelligenza e forza di volontà, a lungo, peraltro, per superficialità ignorate o sminuite dagli insegnanti – riesce a ottenere risultati tali da far riflettere chi l’aveva automaticamente etichettata come “inferiore” solo perché di origine meridionale.
In fondo, può bastare molto poco (un gesto di gentilezza frutto dell’esercizio, sempre salubre, di guardare il mondo con le lenti altrui piuttosto che con il proprio occhialetto appannato) a contribuire all’accordatura di uno strumento, perché possa unirsi all’orchestra senza che si percepisca stonatura.