Fuori terra. Non scordare la fisarmonica


Recensione a M. Procaccio, Fuori terra. Non scordare la fisarmonica, Progedit, Bari 2022, Euro 14.

L’autobiografia Fuori terra. Non scordare la fisarmonica è l’opera prima di Mariella Procaccio, edita da Progedit. La narrazione, affidata alla voce narrante di Maria, protagonista, muove dal marzo 1968 e dalla partenza della sua famiglia dalla Terra di Triggiano, compiuta, come terrà a precisare il padre Enzo nel corso del romanzo, “per progredire”. La vicenda si svilupperà così in tre tempi; oltre a quello già citato, in “Terra di Triggiano”, il lettore segue i personaggi prima in “Terra di Opera” e successivamente in “Terra di Abbiategrasso”, da cui, nel finale, tra le inquietudini dell’ennesimo sradicamento, faranno ritorno nella nostra regione.

In realtà, le narrazioni in retrospettiva sono incastonate tra sezioni in corsivo che ci riconducono al passato prossimo, alla Puglia tra il 2010 e il 2014. Quella Maria, ora divenuta adulta nella terra d’origine, si dedica ad attività di carattere sociale, gestendo laboratori di lettura nella biblioteca comunale del suo paese ma anche nelle carceri. È l’esperienza attuale a determinare le “intermittenze del cuore” che fanno riaffiorare i ricordi. In particolar modo, a suscitarle è il processo di rispecchiamento in figure in cui l’io narrante s’imbatte, quali per esempio, nel primo capitolo, l’immagine di una bambina dallo “sguardo vivido, timido ma attento”. La piccola si chiama Elène e viene dalla Georgia; alla madre, ansiosa di sapere se la figlia abbia cominciato a comunicare con gli altri, la voce narrante risponderà con parole di elogio per la ragazzina: “La signora è contenta e anche mia madre lo fu quando una maestra le disse così”.

Proprio in questo ricorrere di situazioni con caratteristiche analoghe tra presente e passato ci sembra risiedere la sostanza del romanzo. Da un lato vi è la vicenda della famiglia di Maria, composta dai genitori, Enzo e Lia, e da altri due fratelli, molto diversi tra loro, Nino e Nuccio. Dall’altro, essi finiscono col divenire rappresentativi di ciò che poteva essere una famiglia italiana emigrata nel Settentrione tra gli anni Sessanta e Settanta. Accanto a loro, i parenti precedentemente stabilitisi al Nord, gli zii Lino e Rina, con la loro famiglia che finisce – agli occhi di Enzo – col configurarsi quale antitetica al suo modello ideale.

Alcuni elementi assumono valore simbolico, nella vicenda. Il titolo è direttamente evocato quando Maria racconta che, al momento della sua nascita, tanto desiderata, il padre “era ‘fuori terra’, così si diceva della terra salentina e delle terre oltre la Puglia”. Questo elemento appare quasi una sorta di presagio del senso di sradicamento che percorre, a più riprese, le pagine del romanzo.

Non meno significativo è il sottotitolo: “Non scordare la fisarmonica”. Esso allude alla passione di Enzo, padre della ragazzina, per la musica, ma anche a una frase pronunciata dall’uomo all’indirizzo del figlio Nino al momento della partenza: “Si può scordare con il freddo e l’umidità”. Il lettore comprende così che, accanto al significato più immediatamente percepibile, quello di “dimenticare”, il verbo è riconducibile al lessico musicale, assumendo così il valore di “far perdere l’accordatura a uno strumento”. In realtà, il rischio della “perdita d’accordatura” sarà proprio ciò cui andranno incontro i tre giovanissimi figli. “Perde l’accordatura” Maria; la bambina inizialmente si chiude in una sorta di mutismo nel contesto scolastico, che la porta apparentemente a dilapidare il capitale acquisito nella terra d’origine (“L’hanno passata direttamente in seconda classe questa bambina, perché sa già leggere e scrivere e sa pure qualche tabellina”). Solo l’intuito di un’insegnante valida e anticonformista l’aiuterà a sbloccarsi: “Maria, io so che tu sai la lezione, aspetto senza fretta che tu mi dia la risposta”. Emerge a latere il motivo dell’importanza dell’azione pedagogica, dell’attenzione riservata a soggetti apparentemente “fuori chiave” in un determinato contesto, accanto alla riflessione sugli effetti imprevedibili che una manifestazione di fiducia può determinare in ambito scolastico (e non solo). Ancor più “scordato” apparirà il fratello Nuccio, che, subito identificato come chiassoso e “terrone”, si ritroverà “sempre più solo, più asociale e più sottovalutato”. Le difficoltà maggiori, però, saranno paradossalmente affrontate proprio da quello che appariva il figlio rassicurante, desiderabile, Nino. Si tratta senz’altro di una delle figure meglio caratterizzate nel romanzo. Inizialmente il giovane sembra conforme al modello di ragazzo aitante e sportivo (Nino era “per me soprattutto un corpo atletico e pieno di energia” – dichiara in apertura Maria, che quasi idolatra questo fratello bello e gentile). Nino sembra peraltro perfettamente in linea con il canonico giovanotto italiano (ancor più meridionale) appassionato di calcio, che approfitta di qualunque occasione per palleggiare, improvvisare partite, esibendo la grazia di una giovinezza simile a prodigio. Eppure il lavoro in fabbrica e, forse, le inquietudini d’amore squaderneranno una fragilità che già appariva latente nell’“espressione schiva e un poco malinconica”. La condizione di strumento non accordato appare forse ben attagliarsi anche ad altri personaggi: agli zii Lino e Antonino, anche loro a tratti perseguitati da un tarlo di cui si può solo intuire il potere corrosivo; alla zia Rina, che, mentre coltiva un sogno di leggerezza che ha i lineamenti e la voce dell’adorata Milva, si scontra con le panie di una vita spesso sull’orlo della crisi; alla madre Lia, iconizzata in un sorriso non privo di cedimenti e rimpianti; al padre Enzo, nel suo umorale e umanissimo oscillare tra sogni, ambizioni e momenti di rabbia e sconforto.

L’opera si lascia leggere con interesse grazie al dono di un’affabulazione affascinante e alla forza di una storia coinvolgente. Una vicenda che induce a meditare su quanto l’animo umano sia poco propenso ad accogliere l’altro da sé. Sono eloquenti le discriminazioni che i personaggi, in quanto meridionali, subiscono nella Lombardia di quegli anni: “ci puntavano gli occhi addosso forse per i vestiti neri di mia madre, o per la voce alta di mio padre, o perché eravamo l’unico gruppo di otto persone che occupavano metà della strada” e poi ancora “Io mi vergognavo un po’ di essere guardata”; “Si vede che son terroni, si devono far notare per forza o con la maleducazione, o con le stranezze”; “‘Per essere meridionali, son bravi’, aveva detto la portinaia”; “Mio padre si riscattò quando la signora Albini, mamma di un ragazzino del condominio e compagno dei giochi in cortile, si rammaricò del fatto che i miei risultati fossero migliori di quelli di suo figlio non facendosene una ragione. La potenza di quei numeri fece vacillare le certezze della madre dell’Enrico sulla superiorità della loro gente”. Il punto di maggior crudeltà è rappresentato da una vecchia vicina che tuona in un dialetto veneto contro i “Maledetti terroni, loro e le loro bestie”, rendendosi poi probabilmente responsabile dell’avvelenamento dell’“amatissimo anziano cane” di Maria. È un razzismo che – duole dirlo – è frutto dell’ignoranza o, in altri casi, di un’istruzione sterile mai tradottasi in vera cultura; fa specie, nel 2023, il fatto che anche noi meridionali, che abbiamo patito il supponente (e infondato!) senso di superiorità altrui in altri contesti, ci rendiamo oggi artefici di riflessioni analoghe verso chi migra nelle nostre terre. Deve far riflettere l’immagine della giovane protagonista che – grazie alla sua intelligenza e forza di volontà, a lungo, peraltro, per superficialità ignorate o sminuite dagli insegnanti – riesce a ottenere risultati tali da far riflettere chi l’aveva automaticamente etichettata come “inferiore” solo perché di origine meridionale.

In fondo, può bastare molto poco (un gesto di gentilezza frutto dell’esercizio, sempre salubre, di guardare il mondo con le lenti altrui piuttosto che con il proprio occhialetto appannato) a contribuire all’accordatura di uno strumento, perché possa unirsi all’orchestra senza che si percepisca stonatura.

La vita nascosta


Recensione a R. Donnarumma, La vita nascosta, Edizioni Il Ramo e la Foglia, Roma 2022, Euro 18.

È un libro interessante La vita nascosta di Raffaele Donnarumma, un’opera che emerge per l’accuratezza della disamina del reale e la lucidità d’analisi psicologica, oltre che per la qualità della scrittura, raffinata nelle sezioni monologanti dell’io narrante e tendente – com’è giusto che sia – alla mimesi del parlato nelle sequenze dialogiche.

In seguito all’abbandono da parte di S., compagno storico, il docente universitario R., narratore interno e protagonista, comincia gradatamente a inoltrarsi prima nei meandri del microcosmo culturistico delle palestre e successivamente nel labirinto virtuale di gaydudes. In cerca di incontri fugaci, conoscerà L., ex dottorando del suo Dipartimento, impattando nel mistero della sua apparente apatia, di cui gradatamente scoprirà le ragioni, tentando – non diciamo con quali strategie né esiti – di porvi un qualche rimedio.

Ci sembra che nell’opera abbia forte incidenza il modello proustiano. Ravvisiamo alcuni punti di tangenza, per esempio, con l’allure dell’Albertine disparue; del resto, sulla crisi di un amore, quello con S. e sulla fuga di quest’ultimo si apre la narrazione. Proustiano è l’inesausto monologare della memoria interiore e contemplativa, così come l’analisi ossessiva di fatti, gesti, sensazioni. Il raffronto che R. conduce tra G., con cui ha tradito il compagno, e S. stesso richiama, con i dovuti distinguo, le comparazioni tra Gilberte e Albertine, con la differenza che è G. ad apparirci più simile all’icona del desiderio e dell’ossessione amorosa della Recherche. Ci sembrerebbe peraltro che il modello proustiano sia mediato – tra gli altri – anche attraverso quello sveviano, citato nel corso del romanzo; ne La vita nascosta, si ha del resto non di rado la sensazione “di osservare dall’alto una scena di impedimento”, elemento che Frye riteneva tipico del modo ironico.

Molteplici sono le implicazioni del titolo che, ammiccando all’epicureo λάθε βιώσας, da un lato allude a tutto un ventaglio di emozioni e relazioni che tende a restare celato alla società, dall’altro potrebbe riferirsi al carattere di separatezza, di remota interazione che dalla virtualità può virare repentinamente a un’effimera concretizzazione. Una dimensione in cui ciò che dell’individuo resta segreto è ben più di quanto si palesi.

L’opera ha anche il pregio di un’ottima dipintura d’ambienti. Sullo sfondo, ma uno sfondo nitido, vedi la vita del mondo accademico, con le sue leggi non scritte, le commissioni di sviluppo, le carriere fulminee e altre che procedono quasi sospese in uno spazio sdrucciolevole. L’autore accompagna alle descrizioni l’attenta analisi dei contesti e delle dinamiche psicologiche a essi sottese. Emerge dunque una matrice ragionativa che s’interroga sull’essenza del desiderio omosessuale o ancora sulle recondite ragioni del culturismo (un tentativo di “trasformare il proprio corpo secondo una norma astratta, artificiale, anonima”; “è l’odio di sé che impone questo esercizio ascetico di umiliazione”). Lucidissima è poi la disamina dei meccanismi che regolano l’ossessione del virtuale, accomunata – al pari del culturalismo – a una straniante ascesi, il cui “primo gradino è l’esproprio della volontà”. “Il virtuale cava fuori di noi il nucleo inscalfibile, miserevole, immutabile di noi stessi”. Fitta è la meditazione sul tempo – e sulla sua sospensione nelle panie della rete -, su inganni e autoinganni, depresse euforie o apostasie della “religione della separatezza”. Il filo della narratività, tenue, s’intreccia alle ekphràseis, ai monologhi, alle apostrofi, a riferimenti letterari (Leopardi, Sereni, Siti, Pasolini), alle delineazioni di vere e proprie categorie e tipi psicologici frequentatori delle piattaforme.  E mentre si assiste alla declinazione del tema del fallimento dell’amore, si ha quasi l’impressione che quest’ultimo finisca con l’apparire– per prendere in prestito un’espressione da Sontag applicata ad altro contesto – “un’altra danza dell’io solitario”.

I grandi Barbari bianchi


Recensione a D. Guarnotta, I grandi Barbari bianchi, L’Erudita, Roma 2022, Euro 32.

In Langueur Paul-Marie Verlaine accostava sé stesso all’Impero romano alla fine della decadenza, intento a guardar passare “les grands Barbares blancs”, componendo acrostici indolenti “D’un style d’or où la langueur du soleil danse”. Il mancato arrivo dei barbari, d’altro canto, in un emblematico testo di Kavafis, finiva con lo scoraggiare la popolazione protagonista del componimento: “E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? / Era una soluzione, quella gente”. La loro forza vitale era stata considerata come un’alternativa alla fiacca indolenza e alla stasi in cui il popolo del testo kavafisiano viveva. Del resto, come dimenticare la straniante minaccia che forse non è realmente tale e la conseguente difesa che probabilmente non mirava nemmeno a difendere effettivamente alcunché in Beim Bau der chinesischen Mauer di Franz Kafka?

La lirica di Verlaine (da cui l’opera deriva il titolo) ha chiaramente attinenza con la vicenda di D., protagonista del romanzo di Davide Guarnotta, nella misura in cui, nella condizione che il personaggio stesso definisce Monstrum, con tutti i suoi annessi e connessi, irrompe la vitalità dei Barbari, i suoi giovani colleghi. Costoro lo ‘distraggono’ dal trascorrere l’esistenza in solitudine, tra rituali apparentemente salvifici e la cura ossessiva, sul lavoro, di “acrostici indolenti”, “gli atti amministrativi” che redige “con tetrapiloctoma meticolosità”. Nel tempo della stasi e della paura di vivere irrompe così quel demone che il protagonista denomina, usando il termine greco corrispondente, Elpìs (la Speranza). Sarà quest’ultima a prevalere e tracciare una nuova via, conducendo verso quello che non sarebbe un “lieto fine” ma un “lieto inizio”, o la Ragione, la cui vittoria condurrebbe allo stato della Porcellanizzazione (“totale rassegnazione a rinchiudersi tra le allegorie della mente, tra le fantasmagorie del sogno, immobile, afasico, un tutt’uno con il proprio mondo interiore”, alla stregua di una bambola di porcellana)?

Il romanzo di Guarnotta ha suscitato il mio interesse per molteplici ragioni. La prima è senz’altro la profondità e l’accuratezza dell’analisi psicologica del protagonista. Significativo che quest’ultimo sia menzionato tramite la sola iniziale, nel solco di una tradizione che conosce in Franz Kafka una delle sue punte più alte (il pensiero corre ovviamente a Das Schloß). D. è “vittima del disturbo ossessivo-compulsivo” e sicuramente mi ha colpito la precisione con cui le caratteristiche di tale condizione sono rispecchiate e ricostruite in maniera fedele. Le ossessioni da contaminazione; i pensieri intrusivi da scacciare con rituali fisici o vere e proprie litanie verbali, spesso recitate mentalmente; la necessità che nulla sfugga al controllo; l’ordine assoluto cui può contrapporsi, per converso, un maximum di disordine; le melodie che risuonano in maniera martellante al punto magari d’impedire il sonno; il timore, ch’è al contempo inconscio desiderio, del cambiamento; la ricerca della solitudine, perché il contatto con gli altri determina la possibilità di vedere le situazioni sfuggire di mano… Ne viene fuori un ritratto in soggettiva estremamente accurato che, a nostro avviso, è il pregio principe del romanzo.

Lo stile stesso è in linea con la natura del protagonista e con le progressioni della sua condizione psicologica. Si tratta di uno stile molto curato (che, si noti bene, attribuisce un nome agli stadi attraversati dallo spirito); il controllo formale è costante e – non a caso – si allenta nelle lunghe lettere di D., in cui la muraglia comincia a mostrare crepe e le aperture all’altro portano allo squadernarsi delle emozioni e dei pensieri dell’io. Guarnotta è molto attento al fatto che alle oscillazioni psichiche di D. corrispondano anche adeguate strategie stilistiche: basterà, per coglierlo, confrontare le descrizioni trancianti del primo capitolo, che attingono al campo semantico dell’obsolescenza, dell’artificiale e artificioso e denotano un’attitudine sprezzante verso il prossimo, con quelle che subentrano gradatamente, per esempio in riferimento a Riccardo o a Max (ma anche alla stessa Rossella).

Il ventaglio lessicale che il lettore riscontra nel romanzo è ampio e vario; si spazia dal lessico aulico della letteratura a quello medico, dal grecismo (con ammiccamenti all’echiano Pendolo) al calco linguistico vero e proprio, dal burocratese (a tale ambito ricondurremmo anche la ricorrenza del “trattasi”) al plebeo. Numerose le citazioni, che sono indicative di un ulteriore aspetto dell’indole del protagonista: il suo trasporto per la musica, la narrativa e la poesia (si coglie che D. sia esperto di storia, ma appassionato anche di linguistica e bibliofilo). Tale passione lo induce a fare spesso della letteratura un filtro mediante il quale leggere il reale, stabilendo analogie. Emblematico, in tal direzione, il già citato caso di Langueur, ma qualcosa del genere avviene anche per Flaubert (l’esempio di Bovary è utilizzato per analizzare il rapporto con Max) e ancora per Andersen. Non a caso, D. scriverà che “La Regina delle nevi è, senza dubbio, la personificazione migliore del Monstrum che io abbia mai incontrato in letteratura”.

Un libro interessante, ben scritto, che cattura il lettore, rendendolo desideroso di conoscere l’esito della Streit tra Elpìs e Ragione, tra l’umanissimo Monstrum e l’Impero vinto dall’ingresso dei barbari e, per effetto di tale terremoto, rinato.

I nomi di Melba


Recensione a S. Notaristefano, I nomi di Melba, Manni, Lecce 2022, Euro 20.

Il romanzo I nomi di Melba della scrittrice tarantina Sara Notaristefano è un’opera che si legge con piacere, perché cattura l’interesse sin dalle prime pagine, grazie al dono di uno stile ben curato e di un’ironia caustica, in linea con lo spirito della protagonista.

La storia di Melba e della sua famiglia si sviluppa in amebeo tra la provincia tarantina e Milano; la morte di Donatello, fratello prediletto della ragazza, accentua le conflittualità tra l’io narrante (Notaristefano opta per una narrazione interna per opera della protagonista) e i genitori, così come l’abissale distanza dal primogenito Arcangelo. Il padre di Melba, proprietario di un’azienda agricola e affarista senza scrupoli, è “concreto, burbero e pragmatico”, un “insopportabile intollerante”, figlio di “fascista riciclatosi nella DC” ed erede della mentalità paterna; la madre, Lucrezia, è una donna bellissima e raffinata, decisamente snob, più capace di mostrare affetto agli animali della sua villa che ai figli stessi. A complicare la situazione saranno il rapporto sentimentale di Melba con l’anticonformista Samuele, ballerino, e lo scricchiolio del matrimonio perfetto tra Arcangelo e la modella Gemma. Il dispiegarsi dei conflitti condurrà a una svolta imprevedibile, di cui non anticipiamo nulla, perché il lettore possa gustare pienamente le sorprese che Notaristefano gli ha riservato.

Facciamo invece alcune osservazioni, partendo dal titolo, il cui significato è spiegato a p. 14, quando la protagonista si sofferma sui suoi tre nomi, Melba Luisa Luciana. Se il secondo e il terzo nome mostrano le radici familiari (le nonne) e il loro peso nella vita della ragazza, il primo è il frutto della volontà materna di “scegliere un nome originale, raro, più che prestigioso”. Diviene emblema quindi della tensione a voler suscitare stupore, meraviglia, ammirazione; il nome Melba verrà peraltro rigettato e disprezzato dalla ragazza per le “assonanze con parole disgustose, quali melma o peggio”, ma soprattutto perché ai suoi occhi finisce con il rivelare il becero velleitarismo upper class dei genitori. Un presuntuoso segno di elezione che risuona, a ben vedere, ridicolo. Il titolo, però, si attaglia bene anche al fatto che ogni capitolo è dedicato a un personaggio e introdotto dal suo nome; il libro si apre con Donatello e si chiude con Melba. L’unico a essere identificato non nominalmente è l’amato Samuele: il suo capitolo è annunciato da un eloquente “LUI”. I nomi di Melba sono dunque anche i nomi delle figure che hanno significato, nel bene e nel male, nella sua esistenza.

Quel nome pretenzioso assurge poi a icona di un vero e proprio stato, la “melbità”, un concetto difficilmente definibile, ma che si apparenta a una condizione accidiosa, un vivere da acquario con corollario di senso di sfiducia nelle proprie qualità e possibilità. Melba si convince di essere un’inetta, anche per effetto della vocazione alla poesia; si identifica con Donatello, considerato un fallimento soprattutto dal padre Gian Maria e detesta invece Arcangelo, il figlio perfetto. Anche nel nome di quest’ultimo sembra essere racchiuso un omen; esso riconduce a un’idea di angelicismo, ch’è sociale più che spirituale. Arcangelo è infatti il figlio che si uniforma in tutto e per tutto (almeno nelle intenzioni) alla volontà dei genitori; quello che eredita l’idea paterna della donna come trofeo di bellezza da esibire nelle feste e nelle occasioni mondane. In realtà, l’angelicismo vero è proprio quello dell’altro Lestingi, Donatello, il solo nella famiglia che sembri mettere in atto tentativi di esperire una vita autentica, affidata ancora una volta all’Arte intesa come valore. La tragica fine del giovane produce un vulnus nello spirito di Melba. Proprio mentre pare voler aderire al verbo dell’apparenza declinato dai familiari – sintomatico il fatto che sia condotta a declinare la scrittura nell’ambito dei blog di moda, divenendo un’influencer, professione emblematica della vuotezza della società odierna -, Melba finisce con l’innamorarsi. Non è affatto causale che lei, protesa a declinare il tempo della stasi e quasi priva di slancio vitale, si innamori di un ragazzo perché lo scopre capace di sciogliersi gioiosamente in danza. Paradossalmente, in quel momento Melba diviene decisionista; se prima ci poneva di fronte costantemente agli scenari della sua frustrazione, ora si rende cacciatrice per conquistare Samuele, giovane per alcuni aspetti affine a Donatello. Notaristefano mostra infatti anche attraverso riferimenti al piano onirico il senso di colpa che coglierà la ragazza nel momento in cui, tentando di affidarsi al “dolce rumore della vita”, le parrà di tradire la memoria del fratello.

Eppure nuove insidie sono in agguato; insidie di cui il lettore ha contezza sin dall’incipit, che lascia ben intendere come qualcosa di grave sia successo, per poi affidare all’analessi il racconto in prima persona della vita della ragazza. La seconda parte del romanzo, illuminata da una luce livida, è figlia dell’esplosione improvvisa di un insospettabile (ma solo per il lettore disattento) mina vagante. Costante è il contrasto tra il frenetico vivere dell’ambiente milanese – luogo delle scoperte, delle esperienze, per alcuni della crisi – e il tempo della lentezza, legato alla tendenza della protagonista a fuggire nel buen (non sempre) retiro della masseria materna sulla costa jonica. In quest’ultima la ragazza può adagiarsi in una “melbità” che gradualmente cede il posto al decisionismo, alla capacità, a costo di sofferenze, di prendere in mano le redini della propria vita. Nell’opera sono numerosi i temi che affiorano: lo sfruttamento della manodopera straniera, magari da parte dei medesimi imprenditori rampanti che, forti della ricchezza economica, tuonano contro gli immigrati; il pregiudizio idiota, onnipresente nella nostra società e che colpisce, per esempio, Samuele per il semplice fatto che, uomo, esercita la professione di danzatore; il senso d’inutilità che l’italiano medio (per non dire mediocre) attribuisce all’Arte e alla Poesia; l’incidenza della violenza fisica e psicologica sulle donne, anche negli ambienti delle cosiddette “brave persone”. Un’opera scritta con intelligenza, che, mentre descrive la struggente bellezza del Sud Italia, ne denota la mentalità spesso provinciale, pur rivelando anche il provincialismo non meno gretto e ignorante che caratterizza una fetta ben consistente di individui dell’altra punta dello Stivale. Il tutto con quell’ironia che ti salva dalla rabbia.

L’età della rovina


Recensione a Francesco Tronci, L’età della rovina, Il ramo e la foglia edizioni, Roma 2022, Euro 18.

In copertina : Antonio Toni Salmaso, “Piccoli soli”, acrilico su tela, anno 2020.

L’età della rovina è il romanzo d’esordio di Francesco Tronci e si configura senz’altro come un’opera in grado di attirare l’interesse del lettore e della critica. Di certo la più calzante definizione di questo testo è stata data dall’autore stesso in un’intervista resa all’editore: “Il romanzo riproduce (…) una realtà facilmente riconoscibile da un lettore occidentale, ma la adagia in un’inquietante vaghezza, quasi una storia senza storia di una famiglia senza nomi e così tutti gli altri personaggi nel testo, riconoscibili e individuati dalla loro funzione o non funzione sociale” (https://www.ilramoelafogliaedizioni.it/notizia.asp?IdNotizia=630).

L’età della rovina è un’opera allegorica che delinea un ritratto impietoso dell’epoca in cui “un’irresistibile ascesa della mediocrità travolse ogni cosa”. A ben considerare, non si tratta di un’opera distopica perché radiografa il presente. La prospettiva non appare applicabile solo all’Italia; il romanzo, nelle sue angosciate inquietudini esistenziali, diviene “specchio riflettente la realtà degli ultimi decenni di ‘fine della storia’, secondo dinamiche che hanno riguardato tutte le società occidentali”.

A muovere i suoi passi incerti nell’età della rovina è il protagonista. Non a caso Tronci lo rende un senzanome e lo qualifica attraverso il suo essere “aspirante” perennemente in cerca di un ubi consistam che pare essergli negato. Nella “realtà livellata con parole seducenti”, lui e la sua famiglia sono “senzacasa”. La madre è una lavoratrice senza posa nel settore dell’assistenza agli anziani, eppure il protagonista e i suoi genitori non riescono ad acquistare una casa. Perennemente sommersi dai debiti, aspettano con angoscia l’arrivo dei proprietari degli appartamenti da cui saranno sistematicamente sfrattati con insultante disprezzo.

 L’aspirante prende parte a colloqui di lavoro, si illude per un temporaneo impiego per l’associazione degli architetti, frequenta le riunioni del Partito del progresso – cui si contrappone quello della Sicurezza (lo slogan di quest’ultimo è Libertà per la ricchezza e ordine tra gli ultimi!). Nonostante gli sforzi del protagonista, il lettore ha tuttavia perennemente l’impressione ch’egli stia ballando il rigodon, che, come scriveva Céline, « si balla su un motivo a due tempi, sul posto, senza andare avanti né indietro, né di lato.» Ad acuire questa percezione è anche la tecnica narrativa di Tronci. In essa infatti frequenti sono le analessi, per cui, navigando nel romanzo, hai non di rado l’impressione di esser ritornato al punto di partenza o addirittura di non esserti mosso affatto.

Un tempo della stasi, insomma, di cui l’ipostasi diviene la calura insoffribile dell’estate di uno degli ultimi capitoli, in cui l’ennesima dimora, prima gelida, assurge a trappola calorifera in cui avanzare rigorosamente a piedi nudi.

Molti sono gli aspetti vincenti del romanzo. Innanzitutto la vaghezza che connota l’età della rovina e le sue istituzioni, così come la più volte evocata “Prospettiva del Sottosopra” o gli acronimi quali SOA (Sistema delle Opinioni Autorevoli). L’autore scioglie quest’ultimo solo alla prima citazione, il lettore dimentica cosa significhi (o almeno è ciò ch’è successo al Giano bifronte, un po’ smemorato), per cui alla fine il ricorrere del termine SOA finisce quasi col colorirsi di un je ne sais quoi di metafisico. Il SOA si fonda, peraltro, sulle Opinioni Autorevoli e di fatto il lettore finisce con il convincersi che qualunque punto di vista sia dai personaggi ritenuto meritevole di attenzione all’infuori di quello del protagonista. L’aspirante, infatti, è costantemente impantanato nella vischiosa palude dell’oratoria altrui e nessuno dei suoi interlocutori – dalla combattente al libidinoso ministro dell’incipit – sembra avere la bontà di prestargli realmente ascolto. È insomma una storia di frustrazione quella narrata nell’Età della rovina, in linea con il modo ironico di cui scriveva Frye; in essa, hai la percezione di assistere al lento e inesorabile logorio di un’esistenza carica di promesse. È l’esistenza di tante generazioni che hanno avuto la sfortuna di muovere i loro passi decisivi nel mondo a ridosso – e poi all’interno – del momento a partire dal quale la mediocrità ha cominciato a celebrare il suo trionfo.

Parliamo dell’età dell’ipocrisia di un life long learning che finisce con lo sponsorizzare vuoti “supercorsi”, del tutto privi di consistenza culturale ma necessari per tentare di dire la propria in un mondo del lavoro sempre più asfittico. “Supercorsi” che finiscono col tagliar fuori da ogni prospettiva chiunque non abbia il danaro per finanziarseli o la volontà di sottoporsi all’ennesima sagra dell’ovvietà.

L’età della contesa perenne, del discorso sofistico che si fa strada sporcando la verità (ma esisterà mai quest’ultima?). Non è certo heideggeriana la Streit che va in onda ogni martedì nell’età della rovina. In essa non vale il principio per cui “Im Streit trägt jedes das andere über sich hinaus”. Il contendente non conduce l’altro al di sopra di ciò ch’esso è. Ciascuno, infatti, rimane esattamente ciò che era, è e sarà. Il progresso e la sicurezza resteranno viventi solo nelle denominazioni di queste partes portatrici di vacua e fumosa verbosità.

Dall’età della rovina è bandita la gentilezza. Ogni atto di cortesia determina il prodursi di un debito che deve essere immediatamente sanato, pena la vulnerabilità. Ci si interessa al proprio vicino al mero scopo di dedurne informazioni che possano tornare utili o aiutare nell’identificazione di potenziali pericoli.

È il tempo dei privilegiati da un “familismo” amorale e da un clientelismo fetido: ecco perché essa celebra “di continuo la centralità sociale della famiglia, scrigno dei più alti valori individuali, e il più alto valore familiare tra tutti era la capacità di spesa”. Chi non detiene tale “valore” non ha alcun diritto a essere ammantato del“l’aura epica dei diseredati del XX secolo”; di questi ultimi, l’aspirante e i suoi genitori finiscono con l’incarnare gli “eredi sbagliati che hanno perso l’ultima corsa del benessere diffuso prima che questo si arrestasse”. Ecco pertanto che per loro l’unica legittima attesa è quella dell’ufficiale giudiziario o del padrone-Dio che li sfratta, locatari indegni quali sono. Non c’è solidarietà per loro; anche le associazioni caritative legate al contesto parrocchiale s’ergono a tribunali giudicanti, strumenti della perpetrazione di un potere subdolo e umiliante legato all’assistenzialismo.

Si avverte un continuo senso di spossamento in quest’opera che colpisce anche per lo stile curato, ora asciutto ora oratorio, a tratti lirico; si pensi a passaggi come questo: “Fermare la luce di luglio imperiale al termine del giorno, quando il mulinello solare iniziava a sbiadire e avvolgeva le cose in un chiarore tiepido e impalpabile, avrebbe forse dischiuso il segreto della sua perpetua vigilia” (p. 251). Una radiografia della contemporaneità, in cui finisci per condividere la frustrazione e la rabbia dell’aspirante, nella piena consapevolezza che il rappresentato, per quanto possa apparire assurdo (e forse proprio in quanto tale), è lucidamente e inesorabilmente rispondente a Verità.

Dark 5M


Recensione ad A. Nanni, Dark 5M, Scatole Parlanti, Viterbo 2022, Euro 14.

Dark 5M è senz’altro un titolo calzante per il noir di Andrea Nanni, recentemente edito da Scatole Parlanti nella Collana Voci.

Si tratta infatti di un avvincente viaggio nelle tenebre del Dark Web; come si legge nella Notte dell’Autore, “Secondo le statistiche il 95% di quello che avviene in queste reti oscure è di natura illegale, come commercio di sostanze stupefacenti, pedopornografia, vendita di armi o peggio. (…) Inoltre, sempre secondo gli esperti, si stima anche che il dark web occupi circa il 90% di tutta la rete mondiale, quindi ciò che viene mostrato a un utente comune navigando su piattaforme come Google pare corrisponda solo al 10% della rete reale esistente.”

Non stupisce che, in quest’opera in amebeo tra Livorno e il capoluogo dell’Emilia-Romagna, l’atmosfera privilegiata dall’autore bolognese sia quella notturna, con l’insonnia a tessere le trame dei personaggi principali della vicenda. È l’insonnia di Manuel a favorire la scoperta degli insoliti messaggi che la sua compagna, Chiara, riceve di notte su Whatsapp. Nell’atmosfera domestica, nella sonnolenza di una relazione non caratterizzata da peculiare passione quanto più che altro da una ricerca di stabilità, piomba un elemento che dischiude all’unheimlich. Tradimento o qualche più oscura trama coinvolge questa figura, che reca la claritas nel nome, ma nelle tenebre potrebbe celare un terribile segreto?

“Era sempre stata una ragazza sincera, dolce, quasi ingenua in senso positivo; (…) Forse inconsciamente avevo scelto lei perché per me valevano molto di più la serenità e la mancanza di dubbi, probabilmente infatti non ne ero mai stato davvero innamorato.” Quella che al protagonista maschile appariva l’ordinarietà quietante di Chiara si tinge di mistero ed ecco il suo ricorso a Mercy, vestale del dark web. Non sarà un caso che Mercy in inglese abbia significato di “misericordia” e anche di “grazia”. Comincia così la detection della donna e ha inizio all’insegna dell’inquietudine per lei, perché – complice la segnalazione dell’“amico” Luca – l’uomo ha del tutto bypassato le regole dei frequentatori delle dark net, contattando Mercy tramite la sua “e-mail personale e privatissima” e facendole percepire subito una sensazione di pericolo.

L’opera ha una struttura abbastanza uniforme, con l’alternanza di brevi capitoli che rappresentano una sorta di dialogo a distanza tra il cliente e la detective; in tale schematizzazione a un capitolo con Manuel narratore interno ne segue uno raccontato da Mercy e ciò favorisce un’alternanza di visioni del reale che ben si contrappuntano. Successivamente la prospettiva si allarga ed ecco che subentra la voce di un narratore esterno che ne “La Montagnola” ci introduce in una delle “principali piazze di spaccio di eroina”, seguendo – con lo sguardo – due inquietanti creature, per poi assumere il punto di vista di un altro personaggio, Murat, mantenuto per ben nove capitoli. In questa sezione, centrale, si assiste pertanto a un racconto in terza persona con focalizzazione interna.

In un girotondo d’anime inquiete, a poco a poco i contorni della vicenda si chiarificano, complici anche alcuni interventi imprevedibili. Tra questi segnaliamo il ruolo di Miranda, il gatto di Mercy, al quale Nanni ha affidato un curioso spunto citazionista. Il felino ha infatti lo stesso nome della diafana e bellissima protagonista del romanzo Picnic at Hanging Rock di Joan Lindsay e dell’omonimo film di Peter Weir; con lei, del resto, condivide il ‘vizio’ d’essere creatura sparente. “Pensai fosse nella sua fase di Hanging Rock giornaliero, scomparsa da qualche parte in quel labirinto di rocce australiane ma poi la tro­vai in cucina a giocare indiavolata con una pallina da tennis gialla”. Questo particolare assumerà narratologicamente valore metonimico, secondo quanto subito può intuire il lettore smaliziato. “Faticosamente riuscii a prendergliela e vidi che non si trattava di un disegno ma di due lettere, esattamente sui due lati opposti: L e M, scritti con un pennarello rosso. Già, ancora la M.  Sembrava un cattivo scherzo del destino più che una coincidenza.” Così, in questa storia in cui abbondano le M, a rivelarsi risolutivo sarà un viaggio di Mercy; quest’ultimo motivo, del resto, attraversa l’intera opera. C’è il viaggio di Murat, nelle intenzioni salvifico nella realtà perturbante; ci sono i suoi spostamenti verso Livorno per la sua ‘febbrile’ attività; c’è l’inchiesta di Mercy nelle tenebre del dark web, che la condurrà a Bologna per ben due volte, l’ultima – imprevedibile – a cercare “tra monumenti e angeli di marmo” le vestigia di “un mistero perso nel vuoto per sempre”. Perché ogni itinerario nell’umana miseria e oscurità cela approdi impensati e inesprimibili, proprio come in questo romanzo che spinge il lettore, pagina dopo pagina, a voler colmare con Mercy le lacune nelle tessere di un sinistro mosaico.

Carestia sentimentale


Recensione a P. Dall’Argine, Carestia sentimentale. Lettere dal fronte, Scatole parlanti, Viterbo 2022, Euro 15.

Carestia sentimentale è un’interessante romanzo della scrittrice Patrizia Dall’Argine, che tratteggia con levità e umorismo il bilancio sentimentale (e al contempo esistenziale) della quarantenne Ester, finendo col lumeggiare le vite di altri suoi coetanei “cresciuti nella bassa, sotto l’influenza del fiume e della nebbia”. Figure, quali Sebastian, la cugina Carlo, Lela, Clara e Anna – le amiche inossidabili – che “esattamente come lei, cercano la loro strada”.

L’opera presenta un punto di vista decisamente in soggettiva, interamente focalizzata com’è sulla prospettiva di Ester, che racconta in prima persona.

 I capitoli più squisitamente narrativi si alternano a lettere che costituiscono il punto di forza del romanzo. Sono dieci per l’esattezza, tutte indirizzate a destinatari maschili: l’ultimo è ideale (“supera il sogno, diventa reale, sopravvivi e vienimi a cercare”), gli altri concreti. Sono gli uomini in cui Ester si è imbattuta nell’arco dei suoi ultimi dieci anni di vita, in un percorso rispetto al quale così dichiarerà al proprio analista Ennio: “Nessuno ha potuto sfamarmi. Non ho potuto sfamare nessuno”. Su tutti spicca il personaggio soprannominato Fiele. A lui sono dedicate ben tre lettere, a cominciare da quella incipitaria, molto ben costruita, stilisticamente tra le migliori. Lettera che si conclude con quest’appassionata domanda rivolta all’amante, che vive “col cuore staccato dal corpo”: “Non lo vedi che siamo noi Giove e i suoi anelli?” e con una rivendicazione ch’è quasi parenesi a vivere intensamente (“Che siamo la galassia, l’espansione, il mistero”). Il cerchio della relazione con Fiele si concluderà nella lettera settima, intitolata non a caso “l’ultima”, in cui Ester darà vita a una spietata disamina della sua relazione con l’uomo che si tradurrà, peraltro, in lucida autoanalisi. La vicenda di Fiele verrà letta sub specie Narcisi, con l’individuazione nel personaggio mitico di un’“incapacità irremovibile al sentimento”, cui però è strettamente connessa l’“ostinazione letale” all’autodistruzione che connota Eco, nella quale Ester si identifica. “Non è il tuo vuoto che cercavo di colmare, restando. È il mio”.

La tendenza all’autoanalisi attraversa l’intero tessuto del romanzo e finisce con l’ipostatizzarsi nella presenza dell’analista Ennio. L’invito alla scrittura – di sveviana memoria – conosce una sua esplicazione nel capitolo La fine della carestia, momento chiave nell’ordito della vicenda, perché da esso si avvia il percorso di risalita di Ester, già balenato nel liberatorio rituale di Brucia, stronzo, dopo la lettera n. 7. La fine della carestia è tra l’altro interessante, perché – attraverso la voce di Ester – Dall’Argine offre un accessus autoriale all’architettura dell’intero romanzo. Romanzo ch’è anche un inno all’amicizia, oltre che alla vita.

Se, infatti, le relazioni sentimentali sono adombrate nella metafora della carestia, il sodalizio amicale tra donne – come per esempio in Clara Sereni – passa attraverso l’elemento alimentare. Le sfide nella preparazione e nella presentazione di cibi tra Ester e le sue amiche rappresentano un’allegra trovata per prendersi cura le une delle altre, nonché dei rispettivi affetti. In questi momenti della narrazione (e in capitoli come In mutande), si avverte anche l’attenzione di Dall’Argine al mondo televisivo; ci è parso, infatti, di ravvisare atmosfere che richiamano serie ormai cult come Sex and the City oppure Ally McBeal. La sua esperienza teatrale emerge invece nell’allure monologante e nel pathos delle lettere, soprattutto alcune. Notevole è la cura lessicale, che si traduce, nelle declinazioni dell’ideale militia amoris di Ester, anche nell’uso di termini di linguaggi settoriali, quali il disopercolare dell’apicoltura, ambito di pertinenza del personaggio di Fiele.

Un altro elemento ci colpisce; Carestia sentimentale è un romanzo umoristico e cosmopolita, che dagli scenari italiani ci conduce in Spagna, nella portoghese Madeira e ancora in Argentina e c’è finanche un finale vagheggiamento di Ubud, cittadina dell’isola indonesiana di Bali. Il viaggio assume valore esperienziale; s’imprime spesso nella memoria come momento di irripetibile felicità (penso al capitolo sul bedmate), eppure – orazianamente – non vale a placare l’inquietudine del cuore. Per quest’ultima è necessaria una cura di sé che passa attraverso atti quali l’“innaffiare le piante” o comprare un ombrello. Il primo è metafora della tensione alla restituzione di linfa al nostro esistere, il secondo della volontà di attraversare l’indispensabile dolore con quegli strumenti che ci aiutino a non lasciarcene annientare.

Acque perpetue


Recensione a V. Usala, Acque perpetue, Edizioni Epoké – La Torretta, Novi Ligure 2022.

Acque perpetue è un romanzo sui generis. In apparenza la confezione è quella di un noir, ma sin nelle prime pagine dell’opera aleggia un je ne sais quoi che riconduce alla dimensione parapsicologica.

Siamo all’indomani dell’uscita del film Magdalene scritto e diretto da Peter Mullan e risalente al 2002. Una pellicola che suscitò scalpore perché contribuì ad accendere i riflettori su una realtà a molti sconosciuta e da altri deliberatamente ignorata: le violenze e i soprusi perpetrati sulle ragazze “traviate” affidate alle Case Magdalene in Irlanda e impiegate nelle lavanderie interne ai Conventi della Maddalena.

La proiezione del film scatena in Nevan, poliziotto inquieto, i ricordi – in fondo mai sopiti – di un passato lacerato da un vulnus familiare: la follia della madre Cristiona, affetta da manie religiose, e la scomparsa della sorella Clodagh. Quest’ultima, incinta pur senza essere sposata, era stata confinata nel microcosmo concentrazionario di uno di quei conventi proprio per volontà della donna, rosa dalla rabbia per lo scandalo e per il desiderio di emancipazione della figlia.

In un’atmosfera perennemente sospesa, in cui non è subito evidente – anche s’è percepito dal lettore – l’esito della vicenda di Clodagh, Nevan parte per la Sardegna, dove sarà ospitato dall’amico Uro. Qui cercherà di risolvere il mistero della morte della giovane Demersa, annegata in circostanze dubbie, proprio quando la notizia della sua gravidanza fuor del matrimonio aveva suscitato scalpore e scandalo a Ubique, nel Sud della Sardegna. Non è casuale che Usala attribuisca questa denominazione al paese, avvalendosi di un termine che deriva dall’avverbio latino “ubīque” e ha significato di “in ogni luogo”. “In ogni luogo”, infatti, con differenti modalità punitive eppure la stessa iniqua sostanza, si è scatenata la persecuzione contro le donne considerate “svergognate” e “perdute”.

Proprio la similarità della vicenda di Demersa e di quella di Clodagh inducono Nevan a occuparsi di un cold case che finirà non solo con il configurarsi quale inchiesta di giustizia, ma sarà anche occasione di un serrato e doloroso corpo a corpo con i propri fantasmi e quelli che alimentano l’inconscio collettivo. Usala attinge, infatti, sia al mito irlandese e scozzese della banshee che a quello sardo delle panas, spiriti di donne morte, direttamente o indirettamente, a causa del parto. Di ambo i miti l’autrice indaga e richiama alla luce la sostanza di dolore che li informa; suggestiva è inoltre l’onnipresenza nel romanzo dell’elemento acquatico, non a caso evocato anche nel titolo. È immediatamente perspicua l’associazione con il liquido amniotico, ma tutta la letteratura internazionale ci ha abituati a rapportarci a figure femminili che, come Ofelia, concludono la loro esistenza nell’acqua, morendo in essa come se tornassero al loro stesso naturale elemento. Con l’acqua nel romanzo coesiste l’elemento del fuoco, punitivo o rigenerante, rievocato nel nome di personaggi come Uro e inscritto nel mito delle Panas, che schizzavano con acqua urente (quasi un ossimoro) il malcapitato che avesse disturbato il rito notturno del lavacro, loro “penitenza”.

Un’opera avvincente e dalle atmosfere livide, in cui il Male serpeggia costantemente e non di rado s’afferma, ma solo momentaneamente, perché non è destinato a celebrare la vittoria finale. La narrazione di Usala tiene desto l’interesse e coinvolge il lettore anche attraverso l’uso frequente (oggi piuttosto inconsueto) di apostrofi, che tendono a spezzare la continuità della fictio. Del resto, Acque perpetue è anche il titolo del romanzo cui Clodagh – in un finale metanarrativo – affiderà la propria triste storia, perché “Quella storia, nata dall’acqua, trovò fine nell’acqua”. E sul ponte del fiume Liffey, nella cornice di uno splendido tramonto, il romanzo si conclude, con una speranza.

Io sono Libertà


Recensione a V. Patruno, Io sono Libertà, Scatole Parlanti, Viterbo 2022, Euro 14.

“L’intento di questo libro è di dichiarare l’amore per il proprio quartiere, le proprie radici e i valori trasmessi dall’educazione familiare senza essere compiacente”. Ed è un amore amaro quello che emerge nitidamente dalle pagine di Io sono Libertà di Valeria Patruno.

“Un’opera di fantasia”, dichiara l’autrice, in cui “Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale”, eppure un’opera che ha il sapore di un’inchiesta ramificata lungo una duplice direttrice.

La focalizzazione, dal momento che il racconto è affidato a un narratore interno, la protagonista stessa, è chiaramente in soggettiva. La voce che accompagna il lettore tra le pagine del romanzo è quella di Deborah, nata nel quartiere Libertà, a Bari.

Proprio Libertà, “che ora si chiama anche I Municipio”, è il cuore della narrazione, che muove dagli anni Settanta, in cui “a Bari non c’erano piani di riqualificazione energetica per illuminare le strade del Libertà e non era stata inventata nemmeno la polizia locale”, per spingersi sino agli scenari del lockdown, con la pandemia che squaderna le angosce degli individui e della collettività e finisce con l’essere ulteriore occasione di episodi di illegalità diffusa e persino di un dimentico ‘carnevale’.

Io sono Libertà – si diceva – è fondato su una duplice inchiesta, i cui binari sono in realtà strettamente connessi. Cresciuta senza padre, in un contesto decisamente matriarcale, Deborah cerca disperatamente di conoscere il genitore, in una quête che la indurrà a studiare a Firenze e in cui imprevedibile aiutante sarà suor Clara. Tale mancanza potrebbe a nostro avviso essere letta anche in chiave generazionale: eclissi dei padri come assenza di figure maschili di riferimento rette, in grado di assurgere a esempi positivi (“la disobbedienza dei nostri compagni era piuttosto specchio del ménage familiare: nessuna regola e tanta violenza. Tutto quello che i genitori, e in particolare gli uomini adulti della famiglia, non avevano la pazienza di spiegare era appreso attraverso le mazzate o qualsiasi altro atto di forza”). Ecco che paradossalmente la mancanza della figura maschile e l’affidamento totale della funzione pedagogica a un’alleanza di donne eticamente solide finisce con il rappresentare per Deborah un elemento salvifico: “Sono stata fortunata a essere nata in una famiglia dove ho ricevuto un’educazione severa e impartita a parole, non a schiaffi”. Patruno dipinge molto bene gli ambienti della scuola media frequentata da Deborah, in un contesto che spesso finisce con l’essere malsano per le fanciulle e i fanciulli che non riescano a rendersi popolari per varie ragioni riconducibili ad aspetti fisici, caratteriali o a una commistione di elementi. Inutile dire che spesso tale sorte colpisce maggiormente coloro che sanno riconoscere il valore dello studio e s’impegnano in tal direzione, in una società in cui la Cultura non è di certo ritenuta un punto di forza; purtroppo la situazione attuale non è da meno, nel trionfo dell’idiozia di chi segue gli influencer e dell’ignoranza berciante ai vertici politici. La delineazione degli ambienti, ma soprattutto direi delle dinamiche psicologiche che s’innestano in contesti con caratteristiche analoghe, è realistica al punto che diversi nati negli anni Settanta e Ottanta (e non solo) potranno riconoscersi nel senso di distonia dei primi capitoli. Il sentire distonico è acuito dal contrasto tra la percezione della bellezza di luoghi indiscutibilmente dotati di grande fascino e la constatazione del degrado in cui essi sono immersi. A tal proposito, si legga con attenzione il capitolo IV, “Bosco Garibaldi”, interessante per le considerazioni sociologiche – che tra l’altro conducono anche al di fuori del contesto pugliese – e soprattutto per il carattere epifanico che lo contraddistingue: la scoperta di “un gioco d’ombre bellissimo, ombre di foglie e di rami”, “il verde che mi mancava”; “Non era in basso, era lì in alto, tra le chiome degli alberi. Bastava cambiare prospettiva e il miracolo della natura era lì”.

Quest’ultima frase costituisce, forse, una delle chiavi di volta dell’intero romanzo. Il cambiamento di prospettiva arriverà: gli studi fiorentini, la scoperta del padre, l’emancipazione – pur relativa, dato che non genera la ricchezza e non sempre è foriera di considerazione sociale – attraverso la Cultura. Così dalla prima inchiesta scaturirà la seconda: il ritorno a Libertà in un movimento di riappropriazione del contesto inizialmente percepito in maniera straniante. Una precisa volontà di conoscere Libertà per meglio intenderne la realtà. Quello che cambia è lo sguardo, non “compiacente” perché in grado di individuare le storture e chiamarle con il loro nome, con conseguenti piccoli-grandi gesti di ribellione, ma neppure meramente giudicante. Non è, infatti, quello di Deborah l’atteggiamento di chi si erge su un piedistallo ed etichetta l’altro da Sé in un moto dall’alto verso il basso; forse questa conquista è legata al fatto che dell’attitudine giudicante la ragazza era stata vittima, come emerge ad esempio da allusioni legate al periodo liceale. Al termine della lettura resta la consapevolezza che, anche se i padri latitano, è giusto che gli individui cerchino e scoprano il senso di fratellanza. Garante di quest’ultimo sarà l’apertura al ‘lontano che c’è vicino’.

Io sono Libertà, con le qualità di uno stile curato che non disdegna il dialetto in funzione ora conoscitiva ora mimetica ora affettiva, si muove con un’allure tra romanzo e saggio; si veda, per esempio, l’incipit che focalizza lo sguardo su metropoli orientali per poi volgersi verso Craco e infine puntare su Bari. È un’opera che deve far riflettere tanto i turisti o i non residenti che in maniera snervante magnificano la Puglia per gli scorci da cartolina (se vivi in una terra non puoi accontentarti di un quotidiano spectaculum per gli occhi, tra l’altro solo parzialmente dilettevole perché minato dal degrado) quanto chi, cresciuto in questa regione, desidera fuggire da colei che considera – e spesso è davvero – una Madre matrigna. A volte, però, non basta mutare cielo per placare l’inquietudine radicata nel cuore e l’ideale dell’ostrica potrebbe essere considerato non solo alla luce dell’incombere di un mondo pescecane che divora chi si avventuri di là dal proprio habitat. Esiste, infatti, anche una refrattarietà dell’ostrica ad abbandonare lo scoglio impervio su cui il destino l’ha collocata, nella consapevolezza che nel coacervo di un DNA con l’impronta magari di contadini bitontini, marinai molfettesi, predoni saraceni o sudditi bizantini è racchiusa parte della propria essenza. È anche così che nasce quel moto di odio-amore – il quale può pendere più dall’uno che dall’altro polo a seconda delle circostanze – che ti conduce, seppure con rabbioso e dolente orgoglio, a dire: “Io sono Libertà”.

Pensel


Recensione a Z. Gallo, Pensel, Florestano, Bari 2022, Euro 15.

Il romanzo Pensel di Zaccaria Gallo rappresenta una felice combinazione di storia e invenzione. In un ritmo vertiginoso le alchimie del caso inducono le strade di individui apparentemente distanti a intersecarsi e condizionarsi in maniera decisiva.

L’opera affonda le radici in due eventi storici: la congiura realista antinapoleonica detta della “machine infernale”, che sfociò nell’attentato della rue Saint-Nicaise a Parigi alla vigilia di Natale del 1800, e la strage del Bataclan, sala da spettacolo parigina in cui, il 13 novembre 2015, novanta persone hanno perso la vita in un attentato dell’ISIS durante il concerto delle Eagles of Death Metal.

Qui l’intuizione di Zaccaria Gallo. Egli muove da un dato storico: la tragica morte della dodicenne Marianne Peusol, nel romanzo chiamata Pensel, coinvolta da Pierre Robinault de Saint-Régeant per mantenere le redini della giumenta legata alla macchina infernale e rimasta uccisa nel corso degli eventi. Inutile dire che l’attentato fallì e Napoleone ne uscì incolume, ma non i malcapitati passanti coinvolti nell’esplosione. A questo elemento Gallo va a connettere gli eventi del 2015, collocando sullo scenario del Bataclan una Pensel, discendente della bambina omonima. La ragazza, diversamente dall’antenata, riesce a sfuggire alla morte e si rifugia in un portone disserrato, nel quale viene soccorsa in stato di choc da un giovane studioso italiano, Francesco, che si sta recando a trovare uno scontroso professore suo amico, Jean Pierre. Francesco porterà la ragazza in casa dell’uomo: quest’ultimo dapprima è infastidito dalla presenza femminile che invade i suoi spazi inopinatamente; quando però viene a conoscenza del nome della ragazza e intuisce la sua origine, rievocherà con lei gli eventi storici per i quali egli, discendente del Robinault de Saint-Réagent, non era mai stato in grado di liberarsi d’un atavico senso di colpa.

Il romanzo ha una struttura complessa, in un costante susseguirsi di piani temporali differenti. Il passato, ora rivissuto in prima persona dai protagonisti (Napoleone, gli attentatori – soprattutto Saint-Régeant e Limoëlan-Limolean – e il capo della polizia Fouché) ora rievocato secondo la prospettiva di Jean Pierre, riemerge in tutta la sua ambiguità, il suo orrore. Riaffiora peraltro l’intreccio di ragioni anche valide che conducono a conseguenze atroci. Il patriottismo di cui si sentono investiti gli attentatori della rue Saint-Nicaise non è forse differente dalla percezione che di sé hanno gli assassini del Bataclan, scherani di una guerra per loro carica di senso. Resta l’inoppugnabile constatazione che se le vittime designate, si veda il caso di Napoleone, riescono magari a sfuggire in virtù dell’id quod accidit (un ritardo, lo scatto imprevedibile di un cocchiere alticcio), a restare stritolata è non di rado l’innocenza di creature pure come Pensel. Gallo accarezza questa figura, ne mostra la commovente umanità: le dona la gioia di vivere di bambina, gli occhioni sgranati su un mondo in cui ogni cosa è scrutata con lo stupore di una magica prima volta. Un’aspettativa al cospetto del vivere per cui anche la povertà più dura può essere addolcita dalla carezza di un genitore: “Mentre si avviano una breve carezza sfiora il volto delle due bambine. È un bel momento questo per Pensel. Il padre si è addolcito, dopo tanti strilli che emette durante il giorno là dentro, e ora è lieve quella sua mano, nera di carbone e polvere. Scompare, per un attimo, dagli occhi di Pensel e Manon, l’immagine della continua lotta della loro famiglia contro la miseria”. Eppure è proprio questa struggle for life che collocherà Pensel e la sorellina Manon sulla strada dei cospiratori della machine infernale. Significativo, a p. 151, il momento in cui Limolean posa lo sguardo sulle due bambine e sceglie Pensel come involontaria complice dell’atto in corso. Significativo anche perché quella piccola che il lettore ha imparato in qualche modo a conoscere, e per cui ha subito sviluppato un senso di tenerezza, gli o le viene ora mostrata, attraverso la prospettiva di Limolean, in un’ottica straniante. È in qualche modo spersonalizzata, diviene una figura ch’esce dalla folla e che come tale può essere anche designata a morte. È in fondo l’ottica di chi compie un attentato nel quale chiunque  potrebbe restare ucciso.

Uno dei punti di forza di Pensel, oltre alla vertigine temporale che coglie chi s’inoltra tra le pagine del romanzo, è l’adozione della focalizzazione interna variabile, con narrazione ora in terza ora in prima persona, sempre fondata sull’assunzione del punto di vista di uno dei personaggi. Ciò determina una sensazione di pluriprospettivismo, che restituisce la problematicità degli eventi storici (da Gallo ben rievocati) unitamente alla molteplicità delle implicazioni etiche e delle motivazioni alla base di momenti altamente tragici come quelli narrati dallo scrittore.

È un’architettura, quella di Pensel, in cui non mancano le simmetrie: basti pensare ai primi due capitoli e alle similarità costruttive che li caratterizzano. Il primo capitolo è dedicato agli eventi del Bataclan; siamo nella dimora solitaria di Jean Pierre, che vede irrompere nella notte Francesco. Quest’ultimo conduce con sé Pensel. Il capitolo si chiude con Jean Pierre che, sconvolto dalla presenza della ragazza, decide di ospitare i due per la notte. Il secondo capitolo ci mostra Limolean, l’unico dei tre esecutori materiali dei fatti di rue Saint-Nicaise a essere scampato all’esecuzione capitale. Egli si è rifugiato in un convento in America; qui è diventato fra Joseph. La visita di padre Benjamin il giorno di Natale induce il frate a rivelare il rovello che l’angoscia; così, in un’atmosfera allucinata, l’uomo indica all’attonito interlocutore un angolo in cui dice nascondersi l’ombra di Pensel, da cui si sente perseguitato. Evidenti sono le analogie: due uomini, carichi di un senso di colpa riveniente dal passato e confinati in ‘romitaggio’, secolare l’uno e conventuale l’altro, vedono riaffiorare lo spettro di Pensel. Ciò avviene con la mediazione di una figura maschile che nel primo caso introduce nel luogo-eremo una donna in carne e ossa, nel secondo fa riemergere un fantasma dagli anfratti della storia. Altri casi potremmo citare, ma riteniamo che questo sia senz’altro il più indicativo.

Un altro aspetto non secondario, in quest’opera che ha il pregio di uno stile curato e di una notevole varietà di registri, è l’emergere della figura di Manon, sorella di Pensel. Ella è rievocata e portata all’attenzione di Jean Pierre dalla Pensel contemporanea, che mostra al professore un documento a lei connesso; subito dopo, nel recupero del racconto storico, la vediamo comparire nel convento, al cospetto di Fra Joseph, intenzionata a vendicarsi. Sarà il rancore a prevalere? Il sangue chiamerà altro sangue? Certo, se spesso nella tragedia greca le colpe dei padri ricadono sui figli (si pensi ai Labdacidi o agli Atridi), in quest’opera, immersa in un’aura tragica, il messaggio che sembra emergere è che le nuove generazioni non debbano sentirsi macchiate e marchiate da colpe che non hanno commesso. Devono però, per riscattare il passato, agire nella direzione giusta e costituire una social catena, perché laddove ci furono violenza e sopraffazione possa spirare una consolatrice “giustizia riparativa”.