L’isola che non c’era


Recensione a L. Bonetti, L’isola che non c’era, Il ramo e la foglia, Roma 2021, Euro 15.

Vi sono libri ch’è necessario leggere e rileggere per coglierne le sfumature, in quanto – come in ogni Zirkel im Verstehen che si rispetti – solo muovendo dalle parti al tutto e da quest’ultimo di nuovo alle parti, se ne può meglio illuminare la comprensione.

L’isola che non c’era di Leonardo Bonetti è uno di questi casi. Si tratta di un’opera complessa, stratificata, una vera e propria sfida nella quale il lettore si lascia coinvolgere, sino al sorprendente e struggente finale, in cui si assume piena consapevolezza – come ben evidenziato da Antonio Prete nella Postfazione – che “il racconto fantastico si è trasformato in un racconto morale”.

Pregio del romanzo, accanto alla costruzione che ci ha fatto per certi versi ricordare il modello delle vittoriniane conversazioni, è lo stile, comunicativo e al contempo arcano, ricco di squarci lirici. Esso contribuisce a forgiare l’enigma di questo libro. Un libro che si muove in scenari distopici travestiti da utopia e che finisce con il diventare un’intensa allegoria dell’eterno e insondabile mistero della scrittura.

Il protagonista, Leo, dopo la scomparsa della “pulzella” – termine arcaico usato più volte ironicamente – e della di lei famiglia con cui coabitava da anni in modo apparentemente sereno, decide di esplorare “l’isola che non c’era”. Un mito contemporaneo, che nel capitolo primo viene delineato con ampio ricorso a topoi tipicamente idillici, in una forma che rasenta la prosa lirica. Nel capitolo terzo, che vede Leo porsi “alla volta dell’isola” si legge così: “Un’isola, si vociferava raccogliendo le testimonianze più disparate, venuta su dal mare subito dopo la scomparsa del libro che, a detta di alcuni, ne avrebbe descritto la nascita e il mito”. Subito è dunque delineato il legame tra il luogo e la scrittura. Connessione ribadita dal capitolo quarto, in cui tra i primi incontri di Leo c’è quello con un bambino che “passa ore e ore a parlare con i suoi personaggi di sogno”, in una famiglia di cui sappiamo che “i tre fratelli, prima di iniziare a mangiare, hanno lavorato a uno scritto che ora leggeranno a voce alta”. Così, mentre Leo a poco a poco comincia a interagire con gli abitanti del luogo mediante lo strumento della conversazione (e dell’inchiesta, direi), noi assistiamo al work in progress del libro di Bonetti, nel suo ergersi attraverso la focalizzazione sul protagonista. La domanda che subito al lettore viene spontaneo porsi è questa: se l’oblio di un libro ha fatto ricomparire l’isola, cosa accadrà in seguito alla scrittura di questa nuova opera in fieri? Nel frattempo, conosciamo una serie di personaggi; tra loro il dottor Elwin, detto Dottor timido. È una figura che racconta di sé, delle sue ricerche pregresse e della sua vita affettiva, ma sarà davvero un narratore attendibile? Altro personaggio chiave è Aldina; fidanzata con Giorgino, selvaggia e malinconica al contempo, stabilisce delle interazioni sempre più intense con Leo e il lettore percepisce così una strana energia tra le due figure, senza poter prevedere com’essa vada a canalizzarsi.

E poi sono numerosi i fattori di fascino della narrazione: nell’isola (in cui non vige tribunale ma sembra operare un controllo occulto) si verifica quello che potremmo chiamare il “paradosso delle madri”. Le donne generano figli che non educano; lasciano la casa del coniuge subito dopo il parto per essere sostituite da altre donne che alleveranno bambini non propri, salvo poi abbandonare la dimora familiare una volta divenute esse stesse madri. Anche questo paradosso ci sembra alludere alla scrittura, metaforico parto in cui la madre-scrittore/scrittrice libera ciò che ha generato e lascia che siano altre donne-lettori/lettrici a favorire il dispiegarsi della vita di un’opera (è uno dei cardini della critica reader oriented).

Ogni capitolo si connota per la presenza di elementi allegorici (la discesa in un pozzo in cui sono custodite farfalle morte, il volo di una mongolfiera, la fuga di una donnola), puntualmente spiegati dall’autore che libera dalla vernice che li incrosta tali frammenti di senso, ricollegandoli a concetti astratti ed esistenziali. Forte la presenza di luoghi simbolici, come la casamatta verso la quale Leo ossessivamente tende, iniziando un surreale viaggio da incubo che lo condurrà al finale. Finale di cui non sveliamo nulla, ma che – questo possiamo dirlo –  oscilla tra elegia e speranza. Perché sempre l’uomo sarà portato a scrivere e a far affiorare mondi verso cui navigare e in cui dolcemente perdersi.

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