Bambinate


Recensione a P. Paterlini, BambinateEinaudi, Torino, 2020, Euro 16.50.

È un libro forte, in alcuni momenti crudo, sempre spiazzante questo Bambinate di Piergiorgio Paterlini.

Alla base del romanzo un assunto pasoliniano: “Il conformismo degli adulti è tra i ragazzi già maturo, feroce, completo. Essi sanno raffinatamente come far soffrire i loro coetanei: e lo fanno molto meglio degli adulti perché la loro volontà di far soffrire è gratuita: è violenza allo stato puro. Non conosce né comprensione, né alcuna forma di pietà, o di umanità”. Un tema recentemente sempre più assurto agli onori della cronaca, anche perché la rete ha condotto all’emersione tutta una serie di atti che usualmente restavano celati nel segreto.

A guidare l’io narrante è la nitida consapevolezza della crudeltà insita in quelle pratiche definite “bambinate”, con superficiale deminutio, dal mondo adulto, abilissimo – come alcuni personaggi della Purloined letter di Poe –  nel non vedere ciò che appare in piena evidenza. È un narratore ambiguo, quello che dice “io” nel romanzo di Paterlini; il lettore adotta il suo punto di vista e si immedesima in lui, ma in realtà si tratta di una figura alienata. La sua alienazione è trascritta metaforicamente dall’autore nel capitolo “Il vento nelle grondaie”, quando il personaggio, dalla finestra dell’hotel, con un binocolo spia ciò che resta della sua vecchia casa, “abbandonata, diroccata, sventrata”. Inizialmente non sembri nemmeno farci caso, ma, poi, terminata la lettura del romanzo, hai l’impressione che quel luogo rifletta un’anima lacerata e ormai anche piuttosto derealizzata, in cui – nel generale senso di dismissione – resta in piedi “una porta sprangata da un’asse di legno, inchiodata di traverso su due battenti”…

È la porta che si spalanca su un’ora zero, in realtà la punta di un iceberg di una serie di ripetute e condivise crudeltà ai danni del piccolo Denis, compagno di scuola delle elementari del protagonista. Il classico bersaglio delle violenze del più classico branco: povero, orfano dei genitori, bassa estrazione sociale, difficoltà nell’apprendimento, difetti di pronuncia (la mancanza del suono “sc” che induce a soprannominarlo “Semo”) e balbuzie… Prelevato la mattina del Venerdì Santo da un combriccola di compagni di scuola, guidati da Ermes, Denis vive il suo “Getsemani”, condotto in cima alla Montagnola dopo essere stato insultato, picchiato, reso bersaglio degli sputi dei fanciulli, persino denudato e palpato dal capobranco – già latentemente omosessuale (quell’omoerotismo represso che non di rado, a nostro avviso, si nasconde dietro l’ipereccitato e sbandierato machismo di tanti bulletti) –, prima di venir legato a una croce e abbandonato tra lo scherno generale. Insomma, uno scimmiottamento della Via Crucis, iniziato dinanzi alla Chiesa locale e rievocato dal protagonista tra echi evangelici e crudo realismo. L’io narrante, parte integrante del gruppo in questione, è presente agli eventi e vive uno straniante senso di ignavia. Non agisce, attende vigliaccamente che siano gli adulti – il sacerdote, le anziane zitelle di passaggio, il bidello della scuola elementare – a interrompere quegli atti inaccettabili, eppure si scontra con una folla di controsamaritani. Essi notano la stranezza di quella situazione, ma, giudicandola una ‘bambinata’, non intervengono, se non con blandi e alquanto generici inviti alla compostezza. Il ‘bidello’ addirittura, credendo si tratti di un innocente gioco, coadiuva i bulli nel portare in cima alla Montagnola il povero Denis.

Quest’atto segnerà la mente del protagonista, che già alimentava in sé, ancor prima della scuola elementare, una sorta di panico al cospetto degli altri bambini. La sezione del Getsemani – momento più riuscito dell’opera – presenta molti richiami: la Via Crucis, l’episodio, rovesciato, del buon samaritano, forse persino l’incipit della “Congiura degli innocenti” di Alfred Hitchcock.

 La vicenda è recuperata in retrospettiva, perché il protagonista la narra per effetto di un’analessi, quando è tornato, ormai sessantenne, a distanza di tempo nel suo paese, perché invitato a una cena degli odiati ex compagni di classe. Tra l’altro molto ben costruita appare la sutura tra il piano del presente e quello della memoria, perché a fungere da anello di congiunzione è l’incontro, sempre di Venerdì Santo, con la signora Edda, coraggiosa novantenne, ben diversa dalle bigotte sopraggiunte nel giorno fatidico. L’io narrante arriva a pensare che, se quell’incontro fosse avvenuto cinquant’anni prima, la sua esistenza sarebbe stata del tutto diversa. Ciò che non è inizialmente chiaro è il fine di questo alienante e inspiegabile pellegrinaggio nei luoghi di una rammemorazione sgradevole: un viaggio catartico? Il lettore arriverà a comprenderlo solo nel sorprendente finale, dopo la scialba “ultima cena” funzionale all’evento che segna lo scioglimento dell’intreccio. È così che il personaggio eticamente migliore risulta proprio il piccolo Denis, divenuto adulto e affidato alla Casa della Carità; l’unico momento di resipiscenza dell’io narrante si ha forse proprio quando intende che, in fondo, la vittima delle loro azioni era il più intelligente tra tutti. E l’intelligenza vera – non dimentichiamolo – è la capacità di intus legere e saper a volte andare oltre, passaggio che non riesce al protagonista, prigioniero di un moralismo giudicante e impietoso, a nostro avviso non migliore del cinismo di Ermes.

Un romanzo molto interessante, che cattura e attanaglia, capovolgendo il trito e abusato luogo comune che le giovanissime generazioni costituiscano la parte migliore della società. Lo stile è curato e fluido, sospeso tra il mimetico e l’innalzamento dato da alcuni passaggi fortemente evocativi. Bambinate ci appare, insomma, il racconto di un’operazione fallita di Seelenchirurgie, in cui la giustizia e lo sdegno del senso morale finiscono col cedere alla logica dell’odio e coll’equipararsi alla barbarie stessa, in un clima di ambiguità assoluta.

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