I nomi di Melba


Recensione a S. Notaristefano, I nomi di Melba, Manni, Lecce 2022, Euro 20.

Il romanzo I nomi di Melba della scrittrice tarantina Sara Notaristefano è un’opera che si legge con piacere, perché cattura l’interesse sin dalle prime pagine, grazie al dono di uno stile ben curato e di un’ironia caustica, in linea con lo spirito della protagonista.

La storia di Melba e della sua famiglia si sviluppa in amebeo tra la provincia tarantina e Milano; la morte di Donatello, fratello prediletto della ragazza, accentua le conflittualità tra l’io narrante (Notaristefano opta per una narrazione interna per opera della protagonista) e i genitori, così come l’abissale distanza dal primogenito Arcangelo. Il padre di Melba, proprietario di un’azienda agricola e affarista senza scrupoli, è “concreto, burbero e pragmatico”, un “insopportabile intollerante”, figlio di “fascista riciclatosi nella DC” ed erede della mentalità paterna; la madre, Lucrezia, è una donna bellissima e raffinata, decisamente snob, più capace di mostrare affetto agli animali della sua villa che ai figli stessi. A complicare la situazione saranno il rapporto sentimentale di Melba con l’anticonformista Samuele, ballerino, e lo scricchiolio del matrimonio perfetto tra Arcangelo e la modella Gemma. Il dispiegarsi dei conflitti condurrà a una svolta imprevedibile, di cui non anticipiamo nulla, perché il lettore possa gustare pienamente le sorprese che Notaristefano gli ha riservato.

Facciamo invece alcune osservazioni, partendo dal titolo, il cui significato è spiegato a p. 14, quando la protagonista si sofferma sui suoi tre nomi, Melba Luisa Luciana. Se il secondo e il terzo nome mostrano le radici familiari (le nonne) e il loro peso nella vita della ragazza, il primo è il frutto della volontà materna di “scegliere un nome originale, raro, più che prestigioso”. Diviene emblema quindi della tensione a voler suscitare stupore, meraviglia, ammirazione; il nome Melba verrà peraltro rigettato e disprezzato dalla ragazza per le “assonanze con parole disgustose, quali melma o peggio”, ma soprattutto perché ai suoi occhi finisce con il rivelare il becero velleitarismo upper class dei genitori. Un presuntuoso segno di elezione che risuona, a ben vedere, ridicolo. Il titolo, però, si attaglia bene anche al fatto che ogni capitolo è dedicato a un personaggio e introdotto dal suo nome; il libro si apre con Donatello e si chiude con Melba. L’unico a essere identificato non nominalmente è l’amato Samuele: il suo capitolo è annunciato da un eloquente “LUI”. I nomi di Melba sono dunque anche i nomi delle figure che hanno significato, nel bene e nel male, nella sua esistenza.

Quel nome pretenzioso assurge poi a icona di un vero e proprio stato, la “melbità”, un concetto difficilmente definibile, ma che si apparenta a una condizione accidiosa, un vivere da acquario con corollario di senso di sfiducia nelle proprie qualità e possibilità. Melba si convince di essere un’inetta, anche per effetto della vocazione alla poesia; si identifica con Donatello, considerato un fallimento soprattutto dal padre Gian Maria e detesta invece Arcangelo, il figlio perfetto. Anche nel nome di quest’ultimo sembra essere racchiuso un omen; esso riconduce a un’idea di angelicismo, ch’è sociale più che spirituale. Arcangelo è infatti il figlio che si uniforma in tutto e per tutto (almeno nelle intenzioni) alla volontà dei genitori; quello che eredita l’idea paterna della donna come trofeo di bellezza da esibire nelle feste e nelle occasioni mondane. In realtà, l’angelicismo vero è proprio quello dell’altro Lestingi, Donatello, il solo nella famiglia che sembri mettere in atto tentativi di esperire una vita autentica, affidata ancora una volta all’Arte intesa come valore. La tragica fine del giovane produce un vulnus nello spirito di Melba. Proprio mentre pare voler aderire al verbo dell’apparenza declinato dai familiari – sintomatico il fatto che sia condotta a declinare la scrittura nell’ambito dei blog di moda, divenendo un’influencer, professione emblematica della vuotezza della società odierna -, Melba finisce con l’innamorarsi. Non è affatto causale che lei, protesa a declinare il tempo della stasi e quasi priva di slancio vitale, si innamori di un ragazzo perché lo scopre capace di sciogliersi gioiosamente in danza. Paradossalmente, in quel momento Melba diviene decisionista; se prima ci poneva di fronte costantemente agli scenari della sua frustrazione, ora si rende cacciatrice per conquistare Samuele, giovane per alcuni aspetti affine a Donatello. Notaristefano mostra infatti anche attraverso riferimenti al piano onirico il senso di colpa che coglierà la ragazza nel momento in cui, tentando di affidarsi al “dolce rumore della vita”, le parrà di tradire la memoria del fratello.

Eppure nuove insidie sono in agguato; insidie di cui il lettore ha contezza sin dall’incipit, che lascia ben intendere come qualcosa di grave sia successo, per poi affidare all’analessi il racconto in prima persona della vita della ragazza. La seconda parte del romanzo, illuminata da una luce livida, è figlia dell’esplosione improvvisa di un insospettabile (ma solo per il lettore disattento) mina vagante. Costante è il contrasto tra il frenetico vivere dell’ambiente milanese – luogo delle scoperte, delle esperienze, per alcuni della crisi – e il tempo della lentezza, legato alla tendenza della protagonista a fuggire nel buen (non sempre) retiro della masseria materna sulla costa jonica. In quest’ultima la ragazza può adagiarsi in una “melbità” che gradualmente cede il posto al decisionismo, alla capacità, a costo di sofferenze, di prendere in mano le redini della propria vita. Nell’opera sono numerosi i temi che affiorano: lo sfruttamento della manodopera straniera, magari da parte dei medesimi imprenditori rampanti che, forti della ricchezza economica, tuonano contro gli immigrati; il pregiudizio idiota, onnipresente nella nostra società e che colpisce, per esempio, Samuele per il semplice fatto che, uomo, esercita la professione di danzatore; il senso d’inutilità che l’italiano medio (per non dire mediocre) attribuisce all’Arte e alla Poesia; l’incidenza della violenza fisica e psicologica sulle donne, anche negli ambienti delle cosiddette “brave persone”. Un’opera scritta con intelligenza, che, mentre descrive la struggente bellezza del Sud Italia, ne denota la mentalità spesso provinciale, pur rivelando anche il provincialismo non meno gretto e ignorante che caratterizza una fetta ben consistente di individui dell’altra punta dello Stivale. Il tutto con quell’ironia che ti salva dalla rabbia.

L’altra metà del dubbio


Recensione a L. Paciello, L’altra metà del dubbio, con prefazione a cura di G. Di Maggio, Porto Seguro, Borghetto Lodigiano 2022, Euro 15.50.

L’altra metà del dubbio di Luigi Paciello è un romanzo che affronta con levità e con sguardo tutt’altro che superficiale il complesso tema del benessere e della salute mentale dell’individuo.

L’opera, nel Prologo, si apre su un momento topico, in cui il protagonista, Alfredo, giunto a una svolta decisiva, si concede una sveviana “ultima sigaretta”. Un’analessi ci consente poi di recuperare l’antefatto, riconducendoci infine al fotogramma da cui la narrazione aveva preso le mosse.

A determinare la profonda crisi di Alfredo sarà la combinazione della visione televisiva (portato della contemporaneità) di un film d’argomento biblico, quindi con riferimento alla Genesi, e poi di un documentario sulla teoria del Big Bang. L’indecidibilità rispetto alle due visioni e la creduta inconciliabilità delle stesse saranno gli elementi che alimenteranno un irrequieto lavorio mentale nel protagonista. Arrovellarsi che gradualmente si trasformerà in una lenta consunzione psichica, un edere cor suum, per prendere in prestito un’espressione ciceroniana. Alfredo comincerà a mettere in discussione i pilastri del suo esistere, a cominciare dall’ormai prossimo matrimonio con Allegra sino a giungere a un volontario isolamento dal consesso umano. Non anticipiamo al lettore come si andrà a concludere la sua vicenda.

L’altra metà del dubbio è un libro interessante. Non è privo di difetti; avrebbe necessitato di un maggiore editing per la punteggiatura, che appare spesso prevalentemente intonativa, o ancora per l’aderenza al parlato – peraltro anche un pregio del romanzo –, la quale talvolta porta all’insistenza eccessiva su alcuni intercalari in funzione mimetica. Penso, per esempio, alla costante frequenza di espressioni come “cazzo”, un po’ troppo presente, sebbene per esigenze di realismo.

 Il romanzo è peraltro godibile e costruito con intelligenza. Inizialmente ti ritrovi in atmosfere degne di una sit com; in maniera leggera vengono trattati temi come l’erosione della fede religiosa, il vivere inautentico, il logorio alienante della nostra epoca. Ti sembra di assistere alle innocue sequenze in cui si rappresentano, con l’intento di sorriderne bonariamente, gli scenari frustrazione di un inetto. Personaggio per il quale il lettore è immediatamente portato a nutrire simpatia, senza rendersi subito conto (ed è un effetto voluto) del fatto che si tratta di un narratore del tutto inattendibile. Paciello ha infatti scelto di adottare un narratore interno, per cui l’intera vicenda è raccontata secondo la prospettiva di Alfredo. Ci troviamo pertanto dinanzi a una soggettiva simil-cinematografica condotta alle conseguenze estreme; è solo gradatamente che il lettore percepisce con effetto di straniamento quanto l’agire del protagonista sia incongruo e stralunato. Momento di svolta è infatti quello in cui Alfredo ruba un cagnolino per recarsi a corteggiare la bella veterinaria Valeria, mostrando di vivere ormai in un mondo fatto a propria esclusiva misura, senza più alcun addentellato con la realtà. Alla crescente presa di distanze subentra poi un diverso senso di compartecipazione, che nasce perché il lettore è poi indotto ad accostarsi con movimento empatico al destino dell’infelice giovane.

Così facendo Paciello mostra come subdolamente si manifestino le patologie mentali e quanto esse diano luogo a un’escalation di azioni incoerenti che, se non adeguatamente bilanciate, possono anche, talora in maniera del tutto causale, portare a conseguenze tragiche.

L’autore, che si dedica con timbro interessante anche alla scrittura poetica, riesce a incuriosire il lettore, ad avvincerlo, a indurlo a meditare, spesso anche a divertirlo nel delineare la varia umanità che gravita intorno al piccolo centro in cui vive Luigi. Una sorta di coro paesano, infatti, accompagna e commenta le sue vicende; il lettore incontra così diversi personaggi, ciascuno con le proprie piccole e grandi manie e, talora, l’inveterata abitudine (si veda lo zio Carmine) a convivere con le infelicità che l’esistere determina. L’altra metà del dubbio è insomma un’opera che sembra esortare a ricercare il benessere che non nasce necessariamente dall’inanellare vittorie personali e sociali, ma dalla capacità di accettare le proprie fragilità e quelle altrui per poi cercare di sostenersi nei momenti bui del vivere.

Generazione disfagia


Recensione a D. Zumkeller, Generazione disfagia, Amazon 2021, Euro 10.

È una raccolta interessante quella che Dario Zumkeller, autore del manifesto dell’olfattivismo, ci offre con Generazione disfagia, come recita il sottotitolo stesso “Raccolta di poesie per una generazione potenziale in una società fallita”.

L’opera si configura quale una sorta di discesa negli inferi della quotidianità, connotata come tempo di un’apparente frenesia che si traduce in stasi. L’emblema di questa condizione diviene proprio la “disfagia” richiamata nell’intitolazione. La disfagia è un termine medico che designa la difficoltà a deglutire, più comune negli anziani, ma che nella fattispecie diviene elemento connotativo della generazione dei trentenni, cui lo stesso Zumkeller appartiene. Essa assurge dunque a metafora dell’impossibilità di adattarsi a occupazioni precarie e mal retribuite, alla condizione di dover usufruire di ciò che la generazione dei padri o i sedicenti depositari della verità scartano dal proprio piatto (“La stella di Betlemme! / La trovo leccando i residui di cibo nei piatti dei clienti”).

Emblema di un vivere schizofrenico ai confini del non esistere diventa il ristorante teatro dell’ambientazione della prima sezione. Lo rivela in maniera chiara il fiorire delle metafore che lo assimila a una “caserma di frontiera” in cui ci si fortifica per la guerra imminente, a una “scarpa galleggiante su un fiume-taser a scacchiera” (destinata al contatto col piede, che per sua natura, se scalzo, posa sulla terra e ne raccoglie la sozzura). E poi ancora esso è “scafo di storie masticate e sputate” e infine non più luogo di addestramento al conflitto, ma “campo di battaglia” vero e proprio.

 Zumkeller ne osserva gli avventori e i non luoghi, dedicando un testo persino ai gabinetti del ristorante, componimento in cui ironizza sulla loro ubicazione “in fondo a sinistra”, dialogando giocosamente con la citazione bertinottiana incastonata nel testo (“Il comunismo si trova nei cessi pubblici”). Ci si ingannerebbe se si etichettasse la poesia di Zumkeller come semplice e meramente provocatoria. Il suo dettato è complesso; squaderna nella sua cucitura l’armamentario della mitologia (germanica con Freya ma anche greco-latina con Diana), dell’alchimia (il “mercurio filosofico”), della botanica (i “transfrontalieri aclamidati”, accostati a fiori privi di perianzio e pertanto quasi nudamente ridotti alla funzione riproduttiva), della religione shintoista (i “kami senza ricami”). Innesta lacerti di lingue straniere, dal gaelico al polacco, e su tutti evoca il dominio della tecnologia e dell’informatica al centro della seconda sezione, dedicata ai Precari in domotica. Così, con una bella intuizione, alcuni avventori del ristorante sono definiti “variabili booleane”, perché ammettono solo due possibili valori, il vero o il falso (c’è implicitamente forse da pensare che il primo sia quello di cui tali individui si sentono depositari). Tra l’altro il processo di reificazione cui sono sottoposti uomini e donne o la loro riconduzione a concetti astratti o legati al linguaggio dell’informatica ci spinge a considerare Zumkeller come uno di quegli autori che sembrano additarci il nostro esser giunti a un’epoca postumana. Un momento in cui il rischio di perdere le insegne dell’humanitas è altissimo.

In tal direzione va forse colta anche la presenza ossessiva del concetto della “domotizzazione”; tutto deve essere ben funzionale al potere dell’uomo depositario di quello strumento di dominio che gli consente di digitare i tasti del Pos-Bancomat. Resta da chiedersi se vi siano elementi forieri della possibilità di restituire un respiro diverso al vivere disfagico. A nostro avviso sì; ha tale potere, seppure effimero, il suono del carillon che può “disegnare il suo volto / (…) spargere il profumo del suo scialle celeste”. Basta poi, tuttavia, la caduta in terra di una forchetta, riprodotta onomatopeicamente dal poeta, per ricondurre l’uomo alla sua condizione di “cadavere di edera”. Tale funzione può essere rivestita, in un sollievo ugualmente non duraturo, anche dal sorriso dei bambini avventori, a cui Zumkeller dedica una poesia: “A guardarli mi arriva un breve momento di angelico raccoglimento”.

La seconda sezione continua a sbozzare il ritratto della generazione dei “precari in domotica” e lo fa sfoggiando l’armamentario della poesia visiva, mellificando una tradizione che va da Apollinaire a Govoni, ma che è rivisitata alla luce della moderna grafica del linguaggio di programmazione, degli stickers, degli emoticon e della pubblicità. Quest’ultima è rivisitata con l’ironia di un acrostico che parte dall’innocua e invitante immagine di un succo ACE per sciorinare i più nocivi ismi contemporanei, AntagonIsmo, ConsumIsmo ed EdonIsmo. Il tutto con un gusto del pastiche che va dal frego delle revisioni dei documenti word al linguaggio postgrammaticale, dal lessico della psicologia all’antropologico Panopticon. Il lettore può non cogliere tutti gli elementi che si celano dietro le “Fiamme nella brughiera” o nell’inferno karmico, ma si lascia catturare da quest’atmosfera distonica e sorride delle citazioni operistiche rievocate in chiave gastronomica e demitizzate della Bohème Gourmet.

Bella conclusione della raccolta è l’apostrofe a una protagonista del carnevale di Guspini, la “Carrista Guspinese”. Nel testo Zumkeller ci sembra ammiccare alle atmosfere di epigrammi dell’Antologia Palatina per poi opporre alla “caduta primordiale” e alla vita-meretrice un amuleto, una “collana di smeraldi” che forse potrà salvare la donna dal diluvio.  Il finale esprime con grande leggerezza concetti struggenti. Il linguaggio della fisica coesiste con quello immaginifico del poeta metamorfosato in coccinella e con la citazione straniante di A Silvia, in un possibile ammiccamento all’anagramma che Agosti rilevava al termine della prima strofa del capolavoro leopardiano.  Gli effetti a distanza dell’interazione tra due anime e l’idea che il “protone diviso non romperà mai il filo” che lo lega a ciò da cui è fatalmente separato tradiscono la consapevolezza che al di là della compresenza dei corpi esiste molto altro. Qualcosa che supera il mistero dell’eterno sparire. “Io coccinella me ne volo nell’etere sporco / e intanto tu di spalle salivi, salivi e sparivi / Silvia, con il tuo carro”.

I prigionieri


Recensione a P. Vito, I prigionieri, Augh, Viterbo 2021, Euro 15.

Colpisce per la qualità della documentazione, la finezza dell’introspezione e la forza della narrazione il romanzo storico I prigionieri di Pierluigi Vito.

L’opera ricostruisce i quarantasette giorni di prigionia, consumatisi tra maggio e luglio 1981, del direttore del petrolchimico di Porto Marghera, Giuseppe Taliercio, per opera della Colonna Veneta delle Brigate Rosse.

L’autore, giornalista professionista, si è basato “sulle sentenze dei processi per l’assassinio di Giuseppe Taliercio, sulle fonti giornalistiche dell’epoca, sulle conversazioni con chi partecipò al rapimento e con i familiari della vittima”, producendo quello che non definisce “un resoconto fedele in tutto e per tutto”, ma piuttosto “un tributo alla memoria di un periodo crudele e nefasto per l’Italia” e al martirio di un uomo perbene, invischiato suo malgrado nelle panie di “una storia sbagliata”.

Ne è venuto fuori un romanzo connotato dal pluriprospettivismo, in cui il narratore esterno adotta sequenza per sequenza una focalizzazione incentrata su un diverso personaggio, muovendosi tra i terroristi, menzionati attraverso i loro nomi di battaglia. Alcuni di loro, come Marcello e Lucia, avvertiranno gradualmente l’insensatezza di un’azione nata male e condotta peggio; altri, quali Emilio, la figura su cui l’autore insiste maggiormente, pur percependo – sebbene a un livello non pienamente consapevole – l’erroneità della direzione di marcia, si lasceranno guidare da una dedizione fanatica all’‘ideale’. Alla narrazione dei contatti, delle azioni, all’illuminazione dei pensieri dei brigatisti fungono da contrappunto le lettere che il prigioniero, Taliercio, immagina di scrivere all’amata consorte, Gabriella, e ai figli. Pensieri che l’uomo tenterà anche di fissare su carta, per poi, all’ultimo momento, strappare gli abbozzi delle missive per non lasciare che la propria interiorità sia violata al pari della sua persona. Nel costruire queste epistulae fictae Vito raggiunge i livelli più alti della sua scrittura; da esse emerge l’abbandono confidente del prigioniero alla volontà divina, la sua capacità, a dispetto di tutto, di un sentire empatico nei confronti dei suoi carcerieri (per il suo carnefice egli alimenterà una sorta di tenerezza paterna), la sua schiacciante superiorità morale sulle altre figure che puntellano la narrazione. Colpisce il contrasto tra il linguaggio sprezzante dei comunicati dei brigatisti, che lo definisce “il porco Taliercio”, e la natura della vittima quale emerge dalla narrazione e dalle stesse dichiarazioni dei terroristi all’indomani dell’esecuzione. Alcuni di loro hanno fatto riferimento alla “dignità altissima” con cui l’uomo è andato incontro al suo destino e alla sua caparbia volontà di opporre “il diritto alla vita, suo e di tutti” “al linguaggio di morte” degli aguzzini, “prigionieri” come, e più di lui, a causa di un’ideologia perseguita nell’insipienza del bene e del male. Un’attitudine tale da far germogliare in chi l’avrebbe ucciso “un seme così potente” da non poter essere estinto.

È un romanzo che appassiona e commuove I prigionieri. Che ti porta a solidarizzare con Taliercio, ma anche ad avvertire il desiderio, per i suoi carcerieri, di una redenzione che per alcuni arriverà, sebbene in maniera troppo tardiva. Un’opera in cui la fede e i valori del cristianesimo sono affermati con vigore, con l’energia di uno stile curato, ora crudo ora lirico. Molto ben riuscito il tentativo di Vito di calarsi nelle prospettive dei brigatisti. Su tutti, ritengo particolarmente riuscito il personaggio di Lucia, dapprima sprezzante verso il prigioniero, poi sempre più conquistata dalla sua gentilezza e dalla lettura ‘rubata’ delle sue missive stracciate. Certo, non basta dissociarsi dal male per impedire che esso si consumi… E purtroppo quella che avverrà è – per usare un termine preso in prestito dagli scritti di don Tonino – una dolorosa ‘antipasqua’.

Quell’antipasqua che è importante e meritorio che Vito abbia ricostruito con gli strumenti dell’arte. Arte che non pretende certo di sostituirsi al lavoro dello storico, ma pone l’accento sugli aspetti che un lavoro storiografico spesso non rileva. Lo scandaglio del sentire umano in tutto il suo contraddittorio dispiegarsi. È proprio con quel sentire che il lettore finisce col vibrare all’unisono, partecipando con commozione alla tragedia di Taliercio e della sua famiglia e figurandosi anche il disagio di chi, per perseguire ciecamente un sogno, un ideale, ha finito col declinare il verbo oscuro della Morte, col seminare il buio.

Un uomo in mutande


Recensione ad A. Vitali, Un uomo in mutande, Garzanti, Milano 2020, Euro 18.60.

La scrittura di Andrea Vitali ha il dono di un innato senso del ritmo, che rende la lettura avvincente e brillante al contempo.

Questi fattori emergono con decisione anche nel romanzo Un uomo in mutande. I casi del maresciallo Ernesto Maccadò, una commedia che si tinge di giallo e che ci proietta ancora una volta nella Bellano d’epoca fascista, in cui il maresciallo Maccadò, lieto ma anche in ansia per la gravidanza dell’amatissima moglie Maristella, deve cimentarsi con uno stranissimo caso. Una vicenda che suscita subito anche l’attenzione dell’appuntato Misfatti (e della sua consorte, alla cui frittata di patate e cipolle è dedicato l’incipit del capitolo I), perché vi sarà coinvolto Salvatore Chitantolo, giovanotto mai più mentalmente ripresosi da un incidente in barca nel quale aveva rischiato l’annegamento. Chi è l’uomo in mutande che Salvatore dichiara di aver visto fuggire nottetempo? E chi ha causato l’incidente alla levatrice Aristidina Zambecchi, ritrovata in stato di incoscienza e ricoverata in ospedale? Nella Bellano il cui argomento del giorno è la cosiddetta “redenzione igienica”, causa di litigiosità e tra i Leitmotive dell’opera, si fa presto ad accusare di un crimine non meglio precisato il ‘diverso’ Chitantolo e a muovere dal piano letterale della tutela sanitaria a quello metaforico del repulisti da individui indesiderati e potenzialmente pericolosi. Misfatti  e Maccadò cercheranno di dirimere l’aggrovigliata matassa e di evitare sgradevoli conseguenze per il giovane e sua madre.

Seguendo la vicenda principale, Vitali ci presenta una ben riuscita galleria di personaggi. Il direttore delle poste, Aneto Massamessi, ambizioso e desideroso di abbandonare la sonnolenta Bellano; sua moglie Percilla, inquieta; il postino – o meglio il “procaccia” – Erminio Fracacci, figura irresistibilmente generatrice di situazioni comiche; l’onorevole Dissetati in preda a irrefrenabili flatulenze e sua moglie, la compassata donna Aminta; l’energica e saggia suor Anastasia. Un posto di rilievo nella trama occupa Fusagna Carpignati, molto ben delineata da Vitali. Attivista del fascio femminile, donna poco avvenente e decisamente instabile, ha l’abilità di innamorarsi di uomini del tutto disinteressati a lei, individui che poi finisce col pedinare in maniera ossessiva. Per fortuna, vale per lei il virgiliano “Varium et mutabile semper femina”, per cui la stagione di ogni amore compulsivo non è duratura e la predatrice finisce presto con il puntare qualche altro sventurato.

Insomma, ne emerge un ritratto di provincia scoppiettante, in cui il lettore è costantemente invogliato a procedere non solo e non tanto per scoprire come si concluderà la vicenda di questi uomini in mutande che si moltiplicano nel prosieguo degli eventi, ma soprattutto per il piacere di godere spensieratamente la compagnia degli abitanti di Bellano. Un mondo che ti accompagna gioiosamente, anche nei momenti in cui le problematiche divengono più serie. Una realtà in cui un peto può rendersi artefice di un miracolo e al buon senso degli individui spetta il compito di disinnescare le trappole che la vita e gli altri uomini predispongono. Efficace la scelta del narratore esterno con focalizzazione interna variabile, che determina un vario prospettivismo e fa sì che il lettore conosca gli eventi da più angolazioni e sia sempre al corrente di dettagli che i personaggi ignorano. Ci piace molto anche la struttura che richiama l’equivalente poetico delle coblas capfinidas. Ogni capitolo si chiude con un’immagine che viene ripresa in apertura del successivo, ma innestata in altro contesto. Per esempio, il capitolo 15 si chiude con “Se avesse avuto il coraggio di osare, avrebbe dato una carezza a quell’appuntato tanto premuroso” e il sedicesimo si apre con “Una carezza, era cominciato tutto da lì, quando la Fusagna aveva venticinque, quasi ventisei anni e aveva già imboccato la via dell’avvizzimento precoce”. Quando contribuisce a rendere la struttura perfettamente concatenata e conferisce all’insieme una grande compattezza. A questo si aggiunge il dono di uno stile chiaro e accattivante, capace di evocare tanto l’immediatezza del parlato quanto la pomposità del linguaggio ufficiale e del burocratese, di cui perfetto pendant sono i nomi altisonanti, e ormai in disuso, degli attori e delle comparse delle vicende, tra cui anche una Mercuriale Fededegna in Carpignati e un farmacista Geode Futon, “che pur confermando di essere il genitore naturale di Valentino Futon era anche conscio del fatto che suo figlio fosse un idiota”. Un’opera che ti cattura con levità, ma non cela, pur nel sorriso, la fatica del vivere, suggellata in quella “gioia tutta interiore della quale avvertiva appena l’anomalia” che leggiamo percepita dal maresciallo Maccadò nel finale.

La foresta delle farfalle monarca


Recensione a R. Gassi, La foresta delle farfalle monarca, Les Flâneurs Edizioni, Bari 2021, Euro 15.

Un fascino peculiare caratterizza il romanzo di Roberto Gassi La foresta delle farfalle monarca.

L’opera è incastonata in una trilogia, ma sarà da noi considerata nella sua autonomia. La trama si dipana lungo due direttrici. Seguiamo le vicende del trentenne meridionale Erol Ciorba, al servizio di un Gruppo che mantiene in costante tensione i suoi impiegati nel miraggio di una carriera da “project manager”. Un giovane che appare subito insoddisfatto di un lavoro ipercompetitivo (e non privo di elementi perturbanti) ed emotivamente fermo alla relazione sentimentale con la bella e misteriosa Leila. Parallelamente alle sue vicende, seguiamo la genesi del suo romanzo, nel finale pronto per viaggiare “tra editori e improbabili concorsi letterari”, incentrato sulla vicenda di Severina Moral. Quest’ultima, sopravvissuta (?) alla strage avvenuta in Chiesa il giorno del suo matrimonio, con l’uccisione di molti degli abitanti del villaggio messicano teatro delle vicende (tra i quali quello che doveva essere suo marito, Quintino, e l’amatissimo nonno, Pedro), assisterà sfingea alla vendetta perpetrata da un misterioso vendicatore. Questo caballero, accompagnato da una “coltre neroarancio” di farfalle monarca, eliminerà gli artefici della strage, i crudeli figli di don Álvaro Renos, che erano stati aizzati dalla sorella Alina, rifiutata da Quintino per amore della generosa Severina.

Non riteniamo opportuno addentrarci ulteriormente nei meandri della trama, ben più complessa. Coesistono una dimensione realistica – quella delle vicende di Ciorba – che pure a tratti sfuma nel mistero (la comparsa dello scarabeo nero nella sezione finale) – e una in cui emerge il talento visionario e surreale dell’autore. Gassi muove dalla posizione di “Una minoranza indigena” la quale “crede che lo spirito dei defunti ritorni sulla terra ogni anno nel Día de los Muertos, sulle ali delle farfalle monarca”, per pennellare una vicenda in cui il lettore è continuamente colto dallo stupore per i colpi di scena che si susseguono a ritmo incalzante.

Notevole è la capacità dell’autore di conferire evidenza visiva a tutto ciò che rappresenta, siano le allucinazioni delle vittime del vendicatore o le accurate descrizioni di ambienti (la casa di Erol nel capitolo terzo) e persino della preparazione di cibi (lo sguardo che segue Sama mentre ultima l’occorrente per il momento commemorativo nel quattordicesimo). Per non parlare di alcuni momenti topici come l’epifania di Severina nell’inferno scatenatosi in chiesa, filtrata dalla prospettiva dell’innamorato e attonito Quintino. Non mancano riflessioni di grande attualità, come questa di Erol che sentiamo di condividere pienamente: “In fondo il suo sud, in certi casi, non era poi tanto meglio di quella lega nordica secessionista e considerata razzista in più di un’occasione. Dov’era finita la sua gente? Quei sudisti candidati al premio Nobel per la pace che avevano accolto flotte di albanesi in esodo?” Quest’interrogativo arrovella costantemente anche noi.

Scoperto è nel corso dell’intero romanzo l’intento di tributare un omaggio a Quentin Tarantino. Non senza significato la presenza in casa di Ciorba della locandina di Pulp Fiction, dall’alto della quale “distesa con le gambe alzate e incrociate, la dea tarantiniana (n.d.r. Uma Thurman) seduceva sotto la sua frangia pulp”. Nella storia narrata da Erol, evidenti sono gli ammiccamenti ai capitoli di Kill Bill, a cominciare dall’idea e dalla costruzione della sequenza del massacro in una chiesa. Alla figura di Hattori Hanzō, forgiatore di spade, è subentrata quella del fabbricatore di pistole d’argento, particolare peraltro molto interessante, che introduce una nota di preziosità e al contempo letalità. Il dialogo tra Alina e lo sceriffo in “Venti” mi ha poi ricordato, con le dovute differenze, quello tra Elle Driver e Budd nella memorabile scena del mamba nero. Tra l’altro lo stesso ambiguo rapporto tra Alina e Severina sembra richiamare quello tra Elle e la Sposa di Kill Bill. Muovendosi tra suggestioni fumettistiche e cinematografiche, Gassi riesce a dar vita a un originale esempio di arte allusiva, fattore che – nell’epoca della serializzazione della letteratura sponsorizzata da molti grandi editori – ci sembra tutt’altro che irrilevante. Così come personale, accattivante, evocativo e curato ci sembra lo stile di questa Foresta delle farfalle monarca, un’avventura che si congeda mantenendo vivo nel lettore il profumo del mistero, in una sorta di animistica Nemesi a volte trionfante sul Male.

Carnaio


Recensione a G. Cavalli, Carnaio, Fandango Libri, Roma 2019, Euro 17

È una distopia che assomiglia tanto a un’allegoria della situazione contemporanea questo bel libro, Carnaio di Giulio Cavalli.

L’opera si apre con il ritrovamento di un cadavere da parte del pescatore Giovanni Ventimiglia nella cornice di DF, luogo immaginario, ma che ammicca surrealmente alla situazione di Lampedusa.

Uno shock che sarà seguito da una vera e propria invasione di corpi morti. Quelli, come li chiameranno gli abitanti di DF, si abbatteranno a ondate con anche più di ventimila cadaveri sul paesino trasformandolo, per la risonanza mediatica dello strano caso, nel “centro del mondo”.

Con “i segni di chi arrivava da lontano” e il colore della pelle “nero, non nerissimo. Però africano forse. Di quei posti lì”, quelli verranno percepiti dagli abitanti di DF e dal governo centrale come un vero e proprio flagello. Si ipotizzerà presto che si tratti dei probabili residui di un ignoto genocidio di cui a nessuno importa nulla, perché in fondo all’occidentale medio ciò che accade nel resto del mondo interessa solo nella misura in cui interviene a ledere i suoi interessi, impedendogli di coltivare il proprio orticello. Così, DF si ritrova inizialmente inerme al cospetto di un’invasione di cadaveri che peraltro sono curiosamente tutti pressappoco della medesima età e delle medesime misure, forse allusione al fatto che da parte dei caucasoidi gli appartenenti ad altri gruppi umani sono spesso erroneamente e frettolosamente percepiti quali individui completamente identici. Cavalli ci introduce abilmente nell’atmosfera paesana, mantenendo nella prima parte la presenza di un narratore esterno, ma focalizzando il punto di vista degli abitanti del luogo. Persone normali, con le loro idiosincrasie, manie, virtù, ideologemi e filosofemi più o meno strampalati; alcuni abitanti recano con sé il triste bagaglio di vissuti anche frustranti (si pensi alla coppia Percinati-Ventimiglia).

Eppure nella seconda parte la situazione cambia. DF – resasi autonoma dal governo centrale, giudicato inefficiente – appare tutta protesa a proteggere la purezza dei suoi “residenti”, arrivando a escludere dalla cittadinanza membri della comunità unicamente perché non figli di nativi, e soprattutto a trarre profitto dal “riuso” dei cadaveri di quelli. Gradualmente, gli abitanti si abitueranno a cose atroci come bruciare i corpi per produrre e vendere energia, realizzarne raffinati articoli di pelletteria e persino cibarsi delle loro carni, con eleganti pietanze da nouvelle cuisine. In questa sezione, l’autore opta per la narrazione interna, in prima persona, variando di capitolo in capitolo il punto di vista e attuando costantemente – con l’eccezione di alcuni casi (si veda il diciassettesimo capitolo) – l’artificio dello straniamento rovesciato, atto a presentare quali normali situazioni del tutto anomale. Colpisce e ha echi arendtiani l’assoluta banalità con cui la normalissima popolazione di DF scivola nella più totale mancanza di pietas, illudendosi di erigere barriere architettonicamente inoppugnabili contro la morte che arriva dall’Africa e convincendosi sempre più di poter considerare asetticamente le vittime di una tragedia dalle cause sconosciute alla stregua di un “carnaio” di cui profittare in un incessante processo di spersonalizzazione dell’umano.

C’è tutta l’ottusità dell’italiano medio nel dieffino doc. Un emblema ne è l’agghiacciante Lilly Carboni, che si dichiara studentessa presso l’università della vita (e quanto è di moda oggi vantarsi di tale insulsaggine) e si proclama pomposamente “direttrice artistica” della novella DF, soltanto per l’ipocrisia di aver voluto celare l’odore di morte della centrale con l’introduzione di essenze dalle fragranze provenzaleggianti nelle ciminiere. E questa lucida follia la senti aleggiare in quasi tutti i personaggi, che si adagiano nella nuova atroce ‘normalità’ accontentandosi di finzioni e surrogati della quieta, sebbene anonima, realtà marinara precedente; rivelatrice, in tal direzione, è la voce della bambina di Tiralosi, la quale coglie e denuncia con candore disarmante la natura fittizia di quello che pomposamente viene spacciato per ‘mare’, ma tale non è. E quando ti accorgi che persino gli abitanti di un mortorio qualunque – in tutte le accezioni possibili del termine – si lasciano cogliere dalla smania sovranista e dallo slogan del “DF First”, comprendi come questa non sia una mera distopia, ma un’allegoria di processi ormai tristemente in atto. Per non parlare del capitolo 25, “Chiusi”, che pare addirittura profetico di quanto realmente abbiamo vissuto dal febbraio 2020 a questa parte.

È un libro che cattura, Carnaio, nel suo essere sorretto da un’ironia corrosiva e dalla capacità dell’autore di rendere vivo e vibrante il paradosso. Lo stile trascorre dalla mimesi del parlato al lirico, con momenti in cui l’autore si serve di un periodare abnorme, vicino al flusso di coscienza senza riprodurne pienamente le caratteristiche, allo scopo – quasi individuando un correlativo delle ondate sul piano espressivo – di mostrare la frenetica effusione del pensiero e del parlato popolare. Un’opera che suscita un sorriso amaro al cospetto dell’umana miseria e che si spera possa far seriamente riflettere il lettore.

Acrobazie


Recensione di A. Trasciatti, Acrobazie. Storie brevi e brevissime, Il ramo e la foglia edizioni, Roma 2021, Euro 13.

Come si possa, nella levità di un lusus che si colora di onirismo, auscultare l’animo umano e dar voce alle sue angosce, aspettative, fallimenti, stagnazioni appare evidente nel bel volume di Alessandro Trasciatti, Acrobazie.

L’opera appare in linea con le espressioni della patafisica nel suo privilegiare, sulla scorta di Jarry, atmosfere paradossali, ragionamenti capziosi, in una sorta di ilare ma seria dissacrazione del pensiero metafisico.

Acrobazie è costituito da tre sezioni (Rifugi, Infanzia e prolungamenti d’infanzia e i Casi clinici e onirici), attorno alle quali si agglutinano racconti brevi e brevissimi, in una rete di echi e simmetrie. Particolarmente riuscita ci appare la deca dei Rifugi, nei quali a fungere da Leitmotiv sono l’inettitudine e la tensione al rintanamento di un io monologante che interloquisce a distanza con la persona un tempo amata, ormai assente perché allontanata dall’uomo stesso. In dieci prose, egli passa in rassegna quelli che sono i suoi “rifugi”, nascondigli reali e metaforici, dalle tasche del pastrano al rassicurante orizzonte delle conoscenze enciclopediche, strumento di un illusorio anelito a poter mettere in circolo l’intera mole del sapere. Subentra già qui il motivo, che poi attraversa l’intera opera, dell’acrobazia, quella leggerezza del muoversi nell’esistere che paradossalmente può dispiegarsi per il protagonista soltanto nel momento in cui ha creato il vuoto intorno a sé. Le prose sono percorse anche da un neppure tanto latente impulso di cupio dissolvi, che affiora nelle incursioni cimiteriali – compiute grazie alla memoria o programmate e fallite – per poi risolversi nel brillante finale della vasca, in una sorta di parodia dell’ofelismo bachelardiano, con espliciti ammiccamenti alla morte di Phlebas il Fenicio di Eliot.

Diversa, ma egualmente votata all’inettitudine, appare la voce dell’Infanzia, che passa in rassegna le opache figure genitoriali, rivive gli scatologici traumi infantili nell’asilo di via Buiamonti, narra episodi reali e ipotetici che abbiano per protagonisti i gatti. Un velleitarismo di fondo connota le aspirazioni di questo personaggio monologante, che aspira a una sorta di europeismo conviviale, ma poi coltiva la credenza che gli aerei siano “fatti per cadere e non per volare” e ancora scrive Pribke e non Priebke e Orson Wells invece di Orson Welles. Kafkianamente subisce il fascino delle cameriere, ma la sua ipertrofia di fantasticherie lo porta a gonfiarsi “come un aereostato”.

Visionari e irridenti i Casi clinici e onirici, che rinverdiscono la futurista vocazione incendiaria nella fantasia della “casa rossa” o pennellano medievali trionfi floreali al femminile con un’imprevedibile chiusa che rimanda al memento mori (Un caso d’amore). E che dire dell’inettitudine di un io che resta spettatore alla finestra della vita e, quando decide di unirsi alla “festa improvvisata” scatenata da un violinista, si accorge che ormai è tardi? Poeticamente surreale il finale del racconto in questione, incentrato su un caso violinistico: “scendo le scale a corsa e il suono del violino è quasi spento, lo inseguo per i campi ed è sparito”. Tale desiderio di vita emerge anche in Un caso anniversario, per il curioso effetto di “un patto – non so più se col Diavolo o con Dio”, che concede al protagonista un giorno all’anno di “sfrenata gioventù”. Potremmo poi citare altre belle prose: l’atmosfera perturbante di Un caso di colpi notturni; i tre casi tristi che accomunano Boccherini, uno psicanalista letargico e un gatto a bagnomaria o l’assurdo e divertente nonsense “podologico”. Sicuramente tra le prove migliori, rappresentativo dell’intera raccolta, è Un caso acrobatico, in cui, pur nelle farneticazioni di un altro io ipertroficamente incline alla fantasticheria, si fa strada la riflessione sui curiosi sentieri in cui si inerpica “l’amore di un’acrobata” nel suo venir “su nell’ombra”, in uno dei momenti stilisticamente più intensi della raccolta. Opera che si conclude in un dittico dalle allusioni dantesche. La prima parte ha luogo in un Eden in cui tutto appare meraviglioso sino a quando si scatena la lotta su “un carro stracolmo di fieno”, evento che ci sembra ammiccare in chiave straniante, e con significati diversi, all’allegoria del carro presente nella sezione conclusiva del Purgatorio, ambientata nel Paradiso terrestre. La contesa, ispirata dalla “bramosia di ricchezza”, sancendo l’ingresso delle passioni nell’aura paradisiaca, determinerà lo scoramento della voce narrante e – dato non secondario – la caduta degli acrobati che precedentemente sapevano vincere “la legge di gravità”. La seconda, Un caso di punizione dei peccati, ci introduce in un immaginario concentrazionario, che potrebbe preludere – almeno nelle intenzioni dell’io monologante – all’estinzione dell’umano, attraverso l’auspicata perdita della potenza generatrice. Quest’ultimo testo è connotato da un’aura che ci ha fatto pensare a certe atmosfere della pittura di Lorenzo Alessandri.

Insomma, veramente interessanti e stimolanti queste Acrobazie di Trasciatti, un itinerario aereo e unheimlich al contempo nella psiche umana, con un gusto dell’aprosdòketon a illuminare di venature brillanti o sorprendenti la conclusione del narrato.

Vi dichiaro marito e morte


Recensione a S. Consorti, Vi dichiaro marito e morte, Ensemble, Roma 2020, Euro

Si dispiega tra ironia corrosiva e tenerezza l’interessante raccolta di racconti Vi dichiaro marito e morte di Simone Consorti, edita da Ensemble.

Dieci storie di varia lunghezza, in cui prevale la scelta della narrazione interna affidata al protagonista, con il ricorso all’io narrante a conferire una sorta di patente di ideale credibilità anche a storie surreali, come accade nella ‘staffetta cardiaca’ di Portare il cuore di un santo. Non mancano tuttavia scelte differenti, come nel bel racconto Il tuo modo di dirlo al mondo, in cui la voce narrante dialoga con la protagonista, tracciando una sorta di diario delle sue emozioni, nel silenzioso e coinvolgente fiorire di un amore saffico, tra turbamenti e timori. In altre circostanze si preferisce il ricorso al narratore esterno (Al mio paese le donne non parlano) o al pluriprospettivismo di una focalizzazione interna variabile (l’alternanza del Lui e della Lei, Nicholas ed Emily, di Nozze di plastica). Di certo, Consorti mostra di compiere scelte tecniche meditate, conferendo a ciascuna delle vicende una particolare intonazione e un peculiare timbro. Il fatto, inoltre, che alcuni dei narratori appaiano inattendibili e il loro agire sia non di rado screditato permette all’autore di mantenere quell’atmosfera straniante e quella tensione al paradosso che costituiscono la cifra del suo lavoro. Nella struttura non fanno difetto, inoltre, le simmetrie, come accade in Il tuo modo di dirlo al mondo in cui due ‘servizi’ fotografici, uno in apertura e uno in chiusura della novella, sono coronati da un bacio; a situazioni analoghe (in cui qualche dettaglio non irrilevante varia) corrispondono differenti reazioni da parte della protagonista.

Quello che ci sembra emergere su tutto è una vocazione schiettamente narrativa, il piacere di raccontare e, raccontando, intrattenere in maniera arguta il lettore. Consorti ha peraltro il gusto dell’aprosdòketon: la sezione conclusiva di buona parte dei testi è suggellata da una conclusione a sorpresa (si pensi alla chiusa di Tutto tranne fascista), come la coda velenosa o spiritosa di un epigramma. In altre circostanze, il racconto si chiude in un’aura di sospensione che lascia libero spazio alle fantasticherie del pubblico.

Nonostante non vi sia il preciso intento di insegnare qualcosa, l’opera di Consorti finisce con il far scaturire la riflessione. Emblematica è la prima novella, in cui il cuore di un santo passa di trapianto in trapianto, senza che i suoi ‘fruitori’ risentano dei benèfici influssi dello stesso. Essi, infatti, si daranno all’omicidio seriale di animali ed esseri viventi, in un crescendo di cecità morale cui fa da contraltare quella concreta, fisica del personaggio femminile più significativo. La novella ironizza inoltre in maniera corrosiva sul deprecabile intreccio di politica e religione e sulle venature populiste di una società sempre più sorda a ogni forma di pietas. In un’atmosfera leggera e dissacrante, il lettore è indotto a chiedersi se, come l’abito non fa il monaco, valga la regola che non sia il cuore a fare il santo o se magari anche quell’evidenza di santità non celasse qualche lato oscuro. In fin dei conti, l’unico proprietario del cuore a non essere sondato attraverso la focalizzazione interna resta proprio il venerabile Don Giusto.

L’uso strumentale della religio nelle componenti di fanatismo e nel suo potenziale di manipolazione della psiche ritorna ancora in Il prescelto. Il senso di onnipotenza di un santone lo porta a orchestrare, in una spettacolarizzazione della Morte, il suicidio di massa dei suoi seguaci e a voler decidere egli stesso quali vite, tra le loro, debbano essere risparmiate. Alle pulsioni distruttive di questa vicenda potremmo accostare, per contrasto, l’istinto di conservazione del padre di Federica nel secondo racconto. Dopo aver sentito l’uomo asserire, durante una veglia di preghiera per la figlia adolescente, che avrebbe seguito la ragazza dovunque fosse andata (una dichiarazione di intenti suicidi, pertanto), l’io narrante si stupirà nel vederlo, giorno dopo giorno e, in seguito, anno dopo anno, perpetrare quella vita amara, con un attaccamento all’esistenza che in fondo non dovrebbe stupire più di tanto. Non è, infatti, ingiusto voler perpetrare l’esistenza anche dopo la perdita degli affetti più sacri… Il motivo della paternità ritorna ancora in altre due novelle: nel Proiettile d’argento, un uomo denuncia gli abusi che crede subiti dal figlio e quella sua azione, giustissima dal suo punto di vista, si ritorce sul microcosmo dei personaggi come una pallottola non letale, ma capace di ferire alla cieca; in I papà di Anna, il legame intenso, delicato, che vige tra il narratore interno e la figlia della scombinata Fiammetta rende manifesto quanto l’essere padre sia qualcosa di ben differente da una mera questione di biologia… Argutissimo è poi il racconto Tutto tranne fascista, che ironizza su quanto sia facile, al giorno d’oggi, conferire la patente di ‘fascismo’ a vari comportamenti. Etichetta che viene agitata, a prescindere da una reale conoscenza di cosa realmente il fascismo abbia determinato, anche da parte di soggetti che non mancano, a loro volta, di porre in essere, d’istinto, azioni fascisteggianti.

L’opera si connota per l’efficacia di uno stile sorvegliato, sempre aderente alla materia, alle circostanze e allo status dei personaggi; uno stile che varia dal colloquiale al turpiloquio, dall’impetuoso monologare a un descrittivismo che talvolta rasenta il lirico. Vi dichiaro marito e morte è insomma una fiera del paradosso, che scardina il comune sentire, mostra la becera insensatezza del pensiero dell’uomo medio e riflette, senza pretese di seriosità, su tematiche tutt’altro che futili.

Della stessa sostanza dei padri


Recensione a D.R. Colacrai, Della stessa sostanza dei padri. Poesie al maschile, Santa Maria Nuova (An) 2021, Euro 10,45.

Fu una questione che tra il III e il IV secolo d.C. divampò nella cristianità. Gesù era stato generato o creato; era della stessa sostanza del padre oppure da ritenersi a lui non consustanziale e quindi subordinato? La dottrina di Ario fu dichiarata eretica e la professione di fede della liturgia cristiana, il simbolo niceno-costantinopolitano, recita che il Cristo è stato “generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”.

Ci piace partire da questa considerazione per riflettere sul libro di poesie di Davide Rocco Colacrai, a nostro avviso bellissimo, intitolato Della stessa sostanza dei padri. Poesie al maschile. Non il “Padre”, Dio, ma “i padri”, quella generazione che rigetta i figli perché marchiati dallo stigma delle più varie diversità e, quindi, non consustanziali. Si tratta di padri biologici come quello di Minchia di mare di Belluardo, genitori di giovani uomini nei quali non si riconoscono e che finiscono con il disprezzare, o magari del consesso dei patres, depositari di un’ideale di mascolinità e di umanità dogmaticamente imposto, troppo dediti a schiacciare ogni forma di alterità per soffermarsi ad ascoltare il grido di dolore, così come il canto d’amore.

Colacrai compie un atto di straordinaria pietas, che rende la sua scrittura una nitida espressione di poesia “civile” e, per effetto di un intensa partecipazione emotiva e di un innato senso della misura, la salva dal facile rischio di ricadere in una retorica sterile. Quella che infatti il poeta effettua è un’immersione nell’interiorità di una serie di anime vinte dalla vita e violate da una società indegna. Un’immersione da cui riemerge con parole d’amore e di speranza, modulate in un canto comunicativo e al contempo in un dettato sorvegliato e compatto, senza cadute di stile. Al lettore resta la percezione che non ci sia azione più intrinsecamente “sociale” di quella che rivela la luce interiore di un’umanità dai diritti conculcati; una luce talmente abbagliante da far obliterare il verbo della violenza che la ha annichilita e da mantener viva, in chi legge, la fede che qualcosa di bello e puro possa albergare nell’uomo. “Marcélo crede nei sogni, negli eroi che non si manifestano / se non a sorpresa”.

Della stessa sostanza dei padri è un chiaro esempio di come è ancora possibile che la poesia germogli dalla letteratura e dalla storia, due domini che nella silloge si fondono e confondono al punto che quasi non riesci più a distinguerli. Forse perché la letteratura dà voce ai drammi e ai traumi della storia e dell’uomo (ma anche alla ‘chiarità’ che si fa strada nell’ombra): così il protagonista del romanzo di Angela Nanetti o la Rosalinda Sprint di Patroni Griffi non sono meno reali dei triangoli rosa morti nei campi di concentramento, di Reinaldo Arenas o del Baris Yazgi “sposo senza promessa e senza vestito”. Tutti figure di un’umanità che si percepisce nata dall’altra parte della barricata.

Una sorta di Leitmotiv della raccolta è il motivo della “stortura”, che ricorre con varie declinazioni: l’“amore storto” di Francesco; “l’asse storto del mio tramonto” di Nic Sheff; il “soffitto storto dell’uomo che sono” di Hawking e che dire del “corpo da garofano sbilenco”, in parte citazione, della Fata di Lemebel? Affine a tale motivo è quello del ripiegamento, che trova il suo correlativo oggettivo nel guscio di conchiglia.

Aleggia un senso straniante di solitudine nelle parole di questi personaggi a cui Colacrai dà voce in prima persona, perché, in questo processo di spossessione e riappropriazione, sembra quasi che percepisca in ciascuno di essi un frammento di sé. Ognuno pare misurare il dolore in ogni centimetro del proprio corpo offeso, a volte jacoponicamente “sdenodato” dai chiodi di una croce ora reale ora metaforica. Ne deriva un frequente processo di cristificazione delle figure cantate, che raggiunge l’apice nel verso “Sono un Cristo che ha per croce un violino” (dedicato a Baris Yazgi), ma vibra con vigore anche nella “croce bagnata di liquido amniotico, senza la benedizione della luna” di Jude, l’“amico morto di pioggia”. Interlocutrice costante nella raccolta appare la Luna, ma in questo canto al maschile affiora frequentemente la presenza delle madri, che al satellite della Terra ci sembrano non di rado idealmente accostate (un caso emblematico è il testo dedicato all’Elias di Robert Schneider). Anche a loro tocca la sorte di “mordere” il tempo dell’attesa.

Compito del poeta è allora distillare il dolore e farne grazia di canto, nell’attesa di un miracolo che forse non si compirà (“Credo nei miracoli, un po’ meno nel mio corpo da garofano sbilenco”), perché è nella forza della speranza ( nelle “fate / che curano quei sogni / che sono prossimi a spegnersi /e impediscono all’oscurità di aprirsi a ragnatela / e inghiottirci”) o magari è già in atto, senza che possiamo coglierne l’essenza, nella “bellezza delle imperfezioni”, altro motivo conduttore della silloge. È proprio quest’ultima a far apparire il Wonder di Palacio “leggero come un assolo di grano” (immagine che ci colpisce per senso dell’armonia) e a trasformare il labirinto in “condominio di santi” o le “pecore nere” in angeli. Del resto a noi le efelidi paiono macchie (e il Giano bifronte ne sa qualcosa), ma chi ci dice che le stelle, le meravigliose stelle che rendono il cielo notturno meno amaro, non siano “le efelidi di Dio”?