Aspettando i Naufraghi


Orso Tosco

Recensione a Orso Tosco, Aspettando i Naufraghi, Edizioni minimum fax, Roma, 2018.

Aspettando i Naufraghi è il primo romanzo dello scrittore e sceneggiatore Orso Tosco, già autore di racconti pubblicati su Watt e altre riviste. L’opera reca in epigrafe un pensiero di Georges Braque, pienamente in armonia con la narrazione: “L’azione è una catena di atti disperati che permette di conservare la speranza”.

Efficace l’incipit, che si apre su una festa stralunata, in cui i partecipanti sono disperatamente protesi a dimenticare sé stessi prima del programmato suicidio di massa. Un’atmosfera buñueliana, in cui l’autore adotta abilmente la tecnica dello straniamento. Il protagonista, Massimiliano, non è mai chiamato per nome nella sequenza, ma è ripetutamente “l’uomo” o “l’uomo in costume da bagno” e così gli altri attori di una tragedia che si concluderà con il mancato suicidio del personaggio principale, per aprire una finestra su un’altra storia.

Infatti, il resto del romanzo, in attesa dell’arrivo di questi “Naufraghi”, per i quali il pensiero corre ai barbari kavafisiani (saranno forse la distruttiva soluzione al naufragio dell’umanità?), come nella Montagna incantata di Mann o nella Diceria dell’untore di Bufalino, è prevalentemente ambientato in una clinica, in cui è ricoverato il padre del protagonista. Un sanatorio sulla montagna, immerso in un paesaggio maestoso, in cui la Natura pare reclamare con veemenza i propri diritti e dichiarare la propria supremazia sull’uomo.

È qui che Orso Tosco offre una riuscita galleria di vinti. Il dottor Malandra, morfinomane; Guido, l’infermiere rozzo e ubriacone, eppure dotato di una certa, sebbene abbrutita, umanità; Olga, la suora dal passato scomodo, forse il personaggio meglio delineato sotto il profilo psicologico. Sono loro a offrire assistenza – non direi conforto – al gruppo di malati terminali dell’Hospice San Giuda, microcosmo derelitto, che finisce con l’assurgere a metafora di un’umanità languente, vicina all’asfissia, eppure disperatamente attaccata alla vita.

L’opera scorre lungo meandri distopici e affascinanti. Si deve attendere ben il quinto capitolo per ricevere qualche informazione sull’antefatto, e, in sostanza, su chi siano i naufraghi. Eppure anche qui tutto resta su un piano sospeso. Queste figure appaiono inafferrabili e al contempo onnipresenti. Sono definiti in prevalenza per negazioni, proprio perché forse rappresentano la negazione stessa di un assetto sociale destinato all’implosione. La loro negazione muove dallo strumento principe del consesso umano, la parola: più volte nel corso della narrazione, si ribadisce come essi si siano “ormai definitivamente lasciati il linguaggio alle spalle” e quanto il loro affermare la propria presenza si concretizzi in un movimento avvolgente e distruttivo, tradotto in una “ininterrotta serie di azioni”. Più tardi, sembra che quella dei naufraghi assurga a vera e propria condizione ontologica, cui si possa addirittura appartenere senza consapevolezza.

Se il vivere umano non è altro che “esistere per la morte”, a queste figure mitiche spetta il compito di “vivere per sconfiggere la vita, per dimenticarla, per donarla come fosse concime a un mondo nuovo”.

Un’opera possente, d’impronta espressionista, che ora occhieggia all’epica riletta in chiave straniante (si vedano le battaglie tra l’esercito regolare, i naufraghi e i seguaci di ‘Santa’ Bibiana, con il suo misticismo della morte) ora a un pulp declinato, non di rado, sul versante lirico. Lo stile si giova dell’oscillazione tra un’intonazione alta, abbinata a una robusta tensione filosofica, e il gusto della precipitazione, tendenze spesso coesistenti nel medesimo personaggio e nella medesima situazione. Si considerino, a tal proposito, le sequenze di Gramigna ancor più delle pagine dedicate a Guido. Convincente primo romanzo per lo scrittore Orso Tosco, cui non manca la corda di un’elegia che riconcilia con la vita. Oltre e nonostante i molteplici naufragi dell’esistere dell’uomo.

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