Gli ultimi giorni di quiete


Recensione ad A. Manzini, Gli ultimi giorni di quiete, Sellerio, Palermo 2020, Euro 14.

Il romanzo Gli ultimi giorni di quiete di Antonio Manzini è un’opera che avvince il lettore con la forza di una vicenda lineare e intensa, suscitando una ridda di riflessioni cui non è possibile dare una risposta precisa.

Il tema è di quelli che da secoli alimentano i dibattiti tra gli uomini: al cospetto di un’ingiustizia compiuta dal sistema garante del diritto positivo, quanto è lecito alla parte lesa vendicarsi e sin dove può spingersi questo naturale istinto? E poi quanto è lecito perseguitare un uomo che abbia commesso errori anche gravissimi, ma che sta cercando di venir fuori dal baratro e rinascere a nuova vita? E se quest’ultimo non ha pagato a sufficienza, è poi legittimo questo suo desiderio di rifiorire, soprattutto se la colpa appartenente al passato è un omicidio? E, in ultima istanza, chi decide l’entità di quel ‘pagare a sufficienza’? Le vittime? Il colpevole? Il sistema? La giustizia divina?

Insomma, il tema è estremamente stimolante. Nora e Pasquale Camplone hanno perso il loro unico figlio, il vitale e generoso Corrado, in una rapina occorsa alla tabaccheria di loro proprietà. Il ragazzo, studente proiettato verso un brillante futuro di avvocato (proprio come il nonno), era stato ucciso da un rapinatore, mentre sostituiva suo padre nell’attività di famiglia. Bene, la madre, Nora, un giorno, in treno, riconosce l’assassino di Corrado, Paolo Dainese e, colta dall’istinto, scende dal mezzo e lo segue. Scopre così che, dopo appena cinque anni di carcere, l’uomo è stato rilasciato e che tenta di rifarsi una vita, a Roseto, con la parrucchiera Donata. Marito e moglie si ribellano a quella che appare loro una colossale ingiustizia e decidono di vendicare la morte del figlio, colmando le lacune di un sistema che scarso rispetto riconosce alle vittime di atti di violenza. Complice un amico, Pasquale acquista una pistola, con l’intento di affrontare direttamente e uccidere Dainese; Nora adotta una strategia più raffinata, cominciando a perseguitare l’uomo con la sua muta presenza, con l’aria di rimprovero degli occhi ormai spenti e le accuse affidate a volantini e altri strumenti. Insomma, per Dainese quelli precedenti il viaggio in treno saranno “gli ultimi giorni di quiete” e il lettore resterà avvinto a porsi mille interrogativi, alcuni dei quali troveranno gradualmente risoluzione nel corso delle vicende. Donata è a conoscenza dell’entità del reato del compagno tanto amato? E il datore di lavoro di Paolo, parente della donna? Come reagirà Dainese allo stalking della mater dolorosa? E le persone che lo circondano? Nora continuerà a perseguire la sua vendetta a dispetto di tutto? E Pasquale? Avrà il coraggio di premere il grilletto?

A questi interrogativi non risponderemo, perché inficeremmo il piacere del lettore di addentrarsi nei meandri di un’opera che appassiona, sorretta dall’energia di uno stile asciutto ed efficace, molto incisivo anche nelle descrizioni, che si colorano di valori simbolici. Pensiamo alla casa vacanze della famiglia Camplone, ormai cadente, ridotta a dimora dei topi, così simile alla vita dei coniugi, dominata dalle rovine di un passato con cui i due non riescono a fare i conti e riconciliarsi. E proprio contro quei mobili, contro quel tempio dismesso del ricordo che Pasquale proverà il revolver, ben consapevole che sparare a un uomo non sia la medesima cosa. Molto efficace è anche la maniera in cui Manzini segue i suoi due protagonisti nella longa nox, in cui lo sconvolgimento interiore trova il suo equivalente nella natura tempestosa. “Nora aveva cominciato un viaggio che non prevedeva la sua presenza”, intuirà Pasquale, che però acquisirà piena consapevolezza anche della necessità di una rinascita. Rinascita che, per avvenire, deve passare attraverso il superamento di un’egotica concentrazione sul proprio dolore e il ritorno all’attribuzione di valore a ogni vita: il personaggio toccherà uno dei momenti più bassi nel corso del romanzo quando urlerà al nipote autistico, Danilo, che sarebbe stato meglio se a perdere la vita fosse stato lui e non Corrado. Forse, però, a volte un uomo deve attraversare le vie più buie per comprendere quanto sia necessario un cambio di rotta. Non è un caso che il lettore stesso sia indotto a compiere un tortuoso percorso, dalla totale solidarietà iniziale nei confronti di Nora a un progressivo senso di straniamento e di distanziamento dalla protagonista.

Al fondo di questa storia ci sembra di sentire echeggiare la sentenza terenziana dell’Homo sum. Ci sono colpe gravissime, è vero, dinanzi alle quali spesso impossibile appare il perdono. Nella natura umana è insito il seme del bene, ma altrettanto facile è ridestare l’animale rabbioso che soggiace al fondo di ciascuno di noi. Forse l’unica soluzione è nella pietas per chi soffre e nella fiduciosa apertura alla vita. La tragedia incombe, ma istanti di felicità possono esserci ancora regalati se ci abbandoniamo, fosse pure per un solo attimo, all’incessante movimento dell’esistere e alle sue ‘occasioni’, proprio come l’icona più bella di questo romanzo, il Danilo che “felice se ne stava con la bocca aperta a prendere l’aria sul viso”, tenendo “gli occhi socchiusi”, mentre “sotto i pini maestosi, nella terra umida, le cicale dormivano aspettando l’estate”.

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