Gli omosessuali e altri scritti


Recensione ad A. Baudry, Gli omosessuali e altri scritti, traduzione di P. Adriano, L. Di Lella, G. Girimonti Greco, F. Musardo, a cura di E. Savarese, Wojtek, Pomigliano d’Arco 2022, Euro 16.

“Due studiosi francesi hanno scritto un libro pedagogico sugli omosessuali, destinato a sostituire nelle edicole (certo utopisticamente) le analoghe opere a carattere erotico, scandalistico, commerciale ecc. è un libro che si presenta come onesto, chiaro, esauriente, democratico, moderato. E effettivamente lo è”. Queste parole introducevano la recensione di Pier Paolo Pasolini al volume Gli omosessuali di André Baudry e Marc Daniel, riferita all’edizione Vallecchi del 1974 e pubblicata il 26 aprile dello stesso anno sul “Tempo”, per poi confluire negli Scritti corsari. Pasolini muoveva alcune critiche al lavoro di Baudry e Daniel, sia in rapporto alle dichiarazioni su Freud, sia in relazione alla volontà degli autori di innestare “Il problema dell’omosessualità nel contesto della nascente tolleranza”. Proprio su quest’ultimo concetto Pasolini avvertiva il bisogno di dire la propria; non si trattava di una tolleranza reale, ma di una spinta “decisa ‘dall’alto: è la tolleranza del potere consumistico, che ha bisogno di un’assoluta elasticità formale nelle ‘esistenze’ perché i singoli divengano buoni consumatori”. Non è casuale ch’egli concludesse la recensione richiamandosi al suicidio del protagonista del Libro bianco di Cocteau.

Fermo restando che le eccezioni sollevate da Pasolini non ci paiono infondate, dobbiamo però constatare che, per quanto i tempi siano mutati e tante situazioni si presentino in forme differenti, la pubblicazione curata da Savarese per le Edizioni Wojtek che offre un significativo florilegio di scritti di André Baudry è opera di grande attualità e verità. L’operazione si colloca in corrispondenza del centenario dalla nascita di André Baudry (1922-2018), scrittore francese che decise di trascorrere un ultimo, lungo segmento della propria esistenza in Italia, in territorio campano. Foucault aveva salutato la sua partenza come Le depart du prophète (1983) e la bellissima introduzione di Savarese, che ebbe occasione di conoscere Baudry personalmente, ne sottolinea il carattere di “vero e proprio sacerdote laico”. Una figura che, dopo un accurato studio di quella che amava definire “omofilia” (e sul termine ritorneremo), aveva sposato, attraverso il movimento “Arcadie” e l’omonima rivista, un impegno attivo, militante, materiato d’ascolto e di soccorso a situazioni di difficoltà, per poi – negli ultimi trent’anni – scegliere “il silenzio in una sorta di eremitaggio perché evidentemente riteneva superfluo sia agire che parlare (o scrivere)”.

Ben venga dunque questa miscellanea tripartita, che presenta al grande pubblico una personalità di intellettuale su cui – come lo stesso Savarese dichiara nella prefazione – ancora nel 2014 sul web si riscontrava solo “qualche scarna notizia biografica su Wikipedia, insieme con pochi altri riferimenti (italiani)”. Il volume si compone di tre sezioni. La prima raccoglie alcuni articoli di “Arcadie”, rivista che rappresentò, insieme al movimento omonimo, il cuore della militanza di Baudry. Gli articoli sono tradotti da Lorenza Di Lella, Giuseppe Girimonti Greco e Federico Musardo. Essi rivestono particolare interesse: il primo, dal titolo di sapore scritturale Nova et vetera, enuncia i fini del movimento e del periodico stesso nel cercare di rispondere “a tante solitudini, a tante infelicità”, nella consapevolezza della veridicità del motto del terenziano Heautontimorumenos (v. 77). Fine che si sostanzia più chiaramente nell’articolo Arcadie: offrire agli omofili una voce amica e ricordare alla società “che l’omofilia dev’essere studiata in modo, oggettivo, scientifico, e che non bisogna confonderla (…) con la prostituzione e l’effeminatezza”. La rivista si coloriva anche di venature polemiche (penso all’articolo Manifestazioni) e non mancava di approfondire alcuni casi di studio. Citeremo, a tal proposito, il saggio dedicato a Sandro Penna, firmato Nissim Bernard (forse pseudonimo per Edouard Roditi), in cui si dà risalto al “candore” del poeta italiano, alla “sorta di freschezza, di neo-realismo, di lirismo delle strade di Roma” che si percepiva nei suoi testi. Un altro esempio è rappresentato dall’articolo di Marc Daniel su Oscar Wilde, in cui il collaboratore di Baudry argomenta lucidamente in merito alla questione se Wilde possa essere considerato vittima o martire della causa omofila.

La seconda parte del volume presenta la monografia di André Baudry e Marc Daniel intitolata Gli omosessuali; si tratta della traduzione Vallecchi di Pino Adriano del 1974, rivista da Lorenza Di Lella (con la collaborazione di Giuseppe Girimonti Greco e Federico Musardo) sulla scorta dell’originale parigino (Casterman, 1973). Ne emerge un’opera di molteplici pregi. Essa scandaglia il fenomeno, dedicando peculiare attenzione anche all’onomastica con cui venivano identificati gli omosessuali di genere maschile e femminile. Al termine corrente e che dà il titolo al volume, Baudry e Daniel suggerivano di sostituire il vocabolo “omofilia”, perché esso non si limita a porre l’accento sull’elemento puramente sensuale e sessuale, ma chiama in gioco tutta quella gamma di emozioni, sensazioni e sentimenti che connotano la realtà dell’Amore. Viene totalmente rigettata la visione patologica dell’omofilia: non si tratta di una malattia da curare; se trattamenti psicologici e psicoanalitici possono avere felice incidenza è soltanto nel momento in cui aiutano chi ad essi ricorre nel percorso di accettazione di sé. Gli autori infatti insistono sulla mancanza di nesso tra omofilia e nevrosi: è semmai vero che la condizione omosessuale possa divenire – per ragioni di ordine sociologico – nevrotizzante. Tra l’altro, Baudry e Daniel, basandosi sulla scala Kinsey e sui rapporti di tale biologo presso l’Università dell’Indiana (Sexual Behaviour in the Human Male e Sexual Behaviour in the Human Female), evidenziavano come la propensione al piacere di matrice omosessuale interessi una vasta gamma di soggetti, quelli che nella suddetta scala si collocano nelle posizioni soprattutto da 3 (perfetta bisessualità) a 6 (omosessualità esclusiva). L’opera offre un articolato ritratto del mondo omofilo, respingendo stereotipi inveterati che confondono tale orientamento con l’effeminatezza o (per fare un esempio) la chiassosità di personaggi vistosi come l’Emory di The Boys in the Band. Non è un caso che una delle figure approfondite da Baudry e Daniel fosse quella dell’omosessuale ipervirile, erede della tradizione del battaglione sacro tebano e dei samurai giapponesi. Altri luoghi comuni erano decostruiti: penso all’idea dell’omosessualità come massoneria o all’idea che la vede strettamente legata al mondo delle arti, della moda, dell’estetica (se ne sottolinea, per esempio, l’incidenza anche in contesti operai). Si tratta, insomma, di un’opera che compie un significativo viaggio nel mondo della letteratura e delle arti, delle religioni (il peso della tradizione giudaico-cristiana nella condanna del fenomeno), della sociologia, della giurisprudenza.

E al mondo giurisprudenziale ci connette l’ultima sezione del volume, che offre per la prima volta in Italia la pièce Le procureur, tradotta da Musardo e Girimonti Greco sulla base di “una copia dattiloscritta conservata nell’archivio Baudry della famiglia Di Martino”. La pièce – come spiega Savarese nell’introduzione – trae ispirazione da un’esperienza compiuta dallo stesso Baudry, quando, coinvolto in una giuria popolare, riuscì a far assolvere un omosessuale accusato di parricidio. Baudry attribuisce simbolicamente il suo intervento suasorio alla figura dell’integerrimo procuratore Morienval, innestando nell’opera tutta una serie di elementi riscontrabili anche nell’inchiesta Les Homosexuels. In essa emergeva, per esempio, l’azione demolitiva della psiche dei giovanissimi omofili da parte di famiglie poco illuminate: ecco che scaturisce nell’opera teatrale la figura del padre di René, evocata in absentia per le violenze anche fisiche inflitte al figlio omosessuale che, esasperato, l’avrebbe assassinato. Affiora la tendenza alla dissimulazione che spesso induce omofili a una vita di frustrazioni e di rinunce: a incarnarla è proprio il procuratore Morienval; educato presso i gesuiti (proprio come Baudry), ha intrapreso la carriera di professionista del diritto e ha soffocato la propria inclinazione omofila, sposando Isabelle e condannandola all’infelicità. Nell’opera Baudry attua una costante azione di rispecchiamento: specchio di Morienval è l’amico Crépy, l’unico personaggio che riesca a instaurare un dialogo col procuratore e con l’insoddisfatta Isabella, perché sostanzialmente rappresenta il lato solare dell’omofilia. Quella condizione che – come evidenziava Baudry – se vissuta serenamente e con la capacità di ritagliarsi un ruolo, ancorché piccolo, nella società, allontana il rischio della nevrosi. Doppio di Baudry è anche la moglie Isabelle, amata e respinta al contempo proprio come la donna respinge e ama lo stesso Gérard, finendo con il desiderare sensualmente ciò ch’egli stesso desidera. Non è casuale che la donna si accorga, nel corso della pièce, che il marito è ben più infelice di lei, finendo con il solidarizzare con l’uomo e forse, in qualche modo, col cominciare ad amarlo così com’è. Doppio di Morienval è anche il figlio putativo Jean-François, nato da una relazione di Isabelle proprio con uno di quegli omofili bisessuali tipici della condizione 3 della scala Kinsey. Jean-François è emblema della gioventù con la sua volontà di rivoluzione (e al portato rivoluzionario dell’omosessualità non sempre fattivamente espresso si dedicavano interessanti riflessioni in Les homosexuels); egli irrompe con la sua ventata di sincerità e vigore nella prigione ascetica di quel padre erroneamente identificato dalle gerarchie quale sacerdote dell’ordine e della conservazione e insignito di un incarico di punitiva moralizzazione della società. L’imprigionamento, reale, di Jean-François aiuterà il procuratore ad assumere consapevolezza della possibilità di scardinare la gabbia in cui si è autoconfinato. Doppio di Morienval è infine René, il parricida, inizialmente evocato dai pensieri dell’uomo in un’ambigua oscillazione tra “fantasma del desiderio” e proiezione di sé. René assurge agli occhi del protagonista come una sorta di sé stesso diciannovenne che, forse, può essere ancora guidato verso una salvifica felicità. Alla fine Morienval stupirà il lettore, perché non bisogna mai dare per scontato quel che s’agita nel cuore di un uomo o di una donna: “PROCURATORE (divertito) Lo sai bene, te lo avrò detto non so quante volte quello che mi hanno insegnato i gesuiti: ‘Per avere successo, qualunque cosa facciate, lasciate sempre aleggiare intorno a voi un’aura di mistero’”.

I piaceri e i giorni


Recensione a M. Proust, I piaceri e i giorni, traduzione di Mariolina Bertini e Giuseppe Girimonti Greco, Mondadori, Milano 2022, Euro 14.50.

L’edizione di I piaceri e i giorni (Les Plaisirs et les Jours) di Marcel Proust tradotti da Mariolina Bertini e Giuseppe Girimonti Greco rappresenta una splendida occasione per leggere e rileggere il primo volume pubblicato dallo scrittore francese (Calmann-Lévi, Paris 1896), a raccogliere alcuni testi composti tra il 1892 e il 1894.

Il titolo ammicca in chiave ironica agli esiodei Ἔργα καὶ Ἡμέραι. Scriveva, infatti, nella prefazione che accompagnò il volume, Anatole France: “L’austero Esiodo raccontò ai caprai dell’Elicona Le opere e i giorni. È ben più malinconico raccontare ai mondani dei nostri tempi I piaceri e i giorni, se è vero, come diceva quell’uomo di Stato inglese, che la vita sarebbe ancora sopportabile senza i piaceri” (il riferimento era a Sir George Cornwall Lewis).

Il volume presenta una lucida introduzione di Mariolina Bertini, che illustra al lettore la genesi dell’opera, seguendo la comparsa dei singoli testi su periodici e identificando significative connessioni tra questi. Costante è il riferimento alla biografia di Marcel Proust, ai suoi epistolari e alla ricezione del volume. Esso attirò all’autore non poche critiche; apparve eccessivamente ambiziosa – una sorta di “peccato originale” –  la presenza di tre nomi importanti a supportare il volume. Oltre alla prefazione di France, l’opera poteva vantare le preziose illustrazioni di Madeleine Lemaire; i ritratti di pittori erano poi accompagnati da spartiti di composizioni di Reynaldo Hahn, il cui rapporto con Proust era oggetto di chiacchiere, che trasparivano a volte senza neanche troppi sottintesi. Severo fu, tra i recensori, Jean Lorrain nel numero del 3 febbraio del “Journal”, in cui la deminutio de I piaceri e i giorni era suggellata da questo riduttivo sommario: “melanconie soavi, elegiaci languori, piccoli nonnulla di eleganza e di sottigliezza, tenerezze vane, flirt inutili in stile prezioso e pretenzioso…” Non mancano, nel contributo introduttivo di Bertini, osservazioni anche in relazione alla storia della dedica, che inizialmente doveva accomunare due giovani amici di Proust precocemente scomparsi, Edgar Aubert e Willie Heath; per il rifiuto degli Aubert, essa fu di fatto destinata soltanto al secondo. La dedica Al mio amico Willie Heath assume un’importanza considerevole perché, nel pennellare un ritratto di esteta di leonardesca grazia, offre una significativa riflessione sul “fertile isolamento” rappresentato dalla malattia (evocata nella metafora dell’arca) su cui non a caso Bertini chiude l’Introduzione.

La traduzione, raffinata e attenta al “colore storico”, di Bertini e Girimonti Greco (“per la sezione Ritratti di pittori e di musicisti è stata” invece “ripresa la traduzione einaudiana di Franco Fortini”), è stata esemplata, in mancanza di un’edizione critica dei Plaisirs, sull’edizione di Yves Sandre per la Bibliothèque de la Pléiade. Utile e ricco di annotazioni, sia di carattere storico-esegetico sia di matrice filologica, il commento di Luzius Keller, che accompagnò l’edizione Suhrkamp del 1988 ed è stato tradotto da Simona Venturi (ed. Bollati Beringhieri del medesimo anno) e aggiornato da Giuseppe Girimonti Greco. A impreziosire ulteriormente il volume, che reca anche testi non compresi nell’edizione dei Plaisirs o non pubblicati dall’autore, le riproduzioni delle belle illustrazioni di Lemaire e degli spartiti di Hahn.

L’attento lavoro dei curatori consente così al lettore di immergersi nella lettura di un’opera di notevole interesse, su cui si dispone di un’ampia bibliografia critica. L’ossatura è costituita da tre lunghe novelle; nella prima, La morte di Baldassarre Silvande, si avvertono influssi di von Hofmannsthal e Tolstoj e compare subito il tema della vicinanza alla morte come occasione per sperimentare momenti di vita autentica. Spicca, tra l’altro, il finale in cui affiora, al momento del trapasso, la memoria “involontaria”, come sottolineato da Bertini nell’Introduzione. Il secondo testo più corposo è la Confessione di una fanciulla, da leggersi in stretta relazione con Prima di notte, pubblicato in rivista e di fatto non ricompreso nel volume dei Plaisirs. In quest’ultimo faceva capolino l’elemento dell’omosessualità femminile che si coglie essere stato dissimulato nella Confessione, in cui il momento di piacere in cui la protagonista appare cristallizzata, nel rimorso che la conduce al tentato suicidio, è invece di carattere eterosessuale ed è un piacere sordo, quasi animalesco. Significativo il riaffiorare del motivo della malattia, in stretta connessione con la riflessione sulla dedizione affettuosa della figura materna; si tratta di un elemento che – secondo quanto già evidenziato – era comparso nella dedica a Heath, con precisa matrice autobiografica.

 La fine della gelosia, infine, in un’efficace alternanza di punti di vista, segue il gramignare del tarlo della gelosia sino al suo evaporare alla morte del protagonista. È in quel momento che il sentimento d’amore viene contemplato con lontanante e inesorabile distacco; se il pensiero di Françoise infedele aveva ossessionato Honoré, ora lui si rendeva conto che in quell’istante “non l’amava più del medico, delle vecchie parenti, dei domestici, e non l’amava nemmeno in modo diverso. Ed era quella la fine della sua gelosia”.

Al di là dei tre testi portanti, l’intera opera è uno scrigno di gemme. Proust apprezzava meno i Frammenti di commedia italiana, ma di fatto si tratta di bozzetti di fulminea icasticità e di grande arguzia, che squadernano la vanità dello snobismo imperante e gli infiniti paradossi della commedia umana. Spicca Le amanti di Fabrizio, con la ricerca di un femminino che non trova corrispondenza nella realtà; quanto più l’uomo si avvicina al proprio ideale tanto più risulta inadeguato ad esso (penso alla terza donna cui si accosta il protagonista). E che dire de Le amiche della contessa Mirto, in cui la dama in questione, snob e ambiziosa, detesta Doride perché diviene per lei specchio della sua stessa mediocrità? O di Contro la franchezza, che svela la fallacia delle maschere sociali? Paradossali, poi, ma vere (se si considera lo specifico punto di vista delle due donne) sono le risposte di Eldemone e Adelgisa a Ercole: un Ercole contemporaneo che si rapporta al genere femminile con fatica ben maggiore di quella esperita dall’omonimo mitologico nelle mitiche prove.

Fortemente significativa è la componente metaletteraria, che non si rivela solo negli eserghi e nelle molteplici citazioni ma anche in geniali prove di riscrittura, come la ripresa dei flaubertiana Bouvard e Pécuchet. In essa, come segnala il commento, probabilmente conobbero eco le conversazioni tra Proust e il già citato Hahn, con le loro predilezioni e/o idiosincrasie musicali.

La presenza nel volume anche di testi non ricompresi nei Plaisirs consente di inferire elementi di notevole interesse sull’arte di Proust. Un caso emblematico è rappresentato dalla Malinconia villeggiatura di Madame de Breyves, in cui assistiamo all’insorgere dell’ossessione amorosa della raffinata protagonista per un uomo ordinario, quasi volgare, come monsieur de Laléande. Una passione inspiegabile se non per le condizioni che finiscono col rendere inappagabile il desiderio della donna di trovarsi a tu per tu con Laléande. Significativi elementi di confronto con questo testo emergono in L’indifferente, che non a caso trovò spazio su “La vie contemporaine” del 1896 ma non nella princeps dei Plaisirs.

Insomma, I piaceri e i giorni sono un volume godibilissimo, per la finezza della costruzione dei singoli testi, per la grazia elegante e l’intensità dello stile, per la qualità dell’approfondimento psicologico dei personaggi, ben effigiati anche con pochi tratti. Il lettore amante dello scrittore francese potrà cercare tra le pieghe dei Plaisirs il sorgere di motivi poi ripresi e approfonditi nella Recherche. Potrà però anche delibare la bellezza di testi anche brevissimi come il Ricordo di un capitano, pubblicato solo nel novembre 1952, su Le Figaro littérarie. Esso racconta il riaffiorare nella memoria di un gioco di sguardi tra un capitano in abiti civili e un giovane brigadiere, intento in apparenza alla lettura e artefice sul militare di una silenziosa seduzione che genera euforia. È la nostalgica e incantevole istantanea di un momento di grazia, elegia di ciò che sarebbe potuto accadere se solo il caso avesse mescolato diversamente le carte. Piccolo gioiello a suggello di un incontro “dolce eppure un po’ triste, per via del suo mistero e della sua incompiutezza”.

Il morso della reclusa


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Recensione a F. Vargas, Il morso della reclusa, trad. it. di M. Botto, Einaudi (Stile Libero Big), Torino 2018, Euro 20.

Dedichiamo questa nuova recensione del Giano bifronte critico al nostro commissario preferito, Jean-Baptiste Adamsberg, nato dalla penna della scrittrice Fred Vargas. Promotrice di una produzione giallistica di qualità, molto lontana dai cliché del genere, sempre documentata e tesa alla brillante e originale rievocazione di particolari stagioni della storia e di fobie collettive (si vedano l’insidia della peste in Pars vite et reviens tard e l’ombra possente di Robespierre in Temps glaciaires).

Particolare oggetto d’affetto è per noi, come si diceva, il commissario Adamsberg, lo “spalatore di nuvole”, investigatore che segue sentieri tutt’altro che convenzionali, pare sonnecchiare e vagare nelle nebbie per poi accendersi all’improvviso di intuizioni geniali. Uno che continua a chiamare un figlio di gioventù, ritrovato ch’era ventenne, con il nomignolo di Zerk, diminutivo di Zerquetscher (“massacratore”), da lui affibbiato al ragazzo quando lo aveva sospettato artefice di efferati delitti. La figura del commissario rappresenta sicuramente uno dei punti di forza dei gialli della Vargas, proprio per la sua natura aerea e imprevedibile.

Il romanzo che abbiamo or ora letto è Quand sort la recluse e conferma l’originalità e la fascinazione della narrativa dell’autrice parigina, “ricercatrice di archeozoologia presso il Centro nazionale francese per le ricerche scientifiche (CNRS) ed esperta in medievistica”. L’opera ci catapulta in uno scenario di aracnomani e aracnofobi, che trova la sua ipostasi terrificante nella Loxosceles rufescens, la reclusa del titolo. Schiva e portata a celarsi agli sguardi degli uomini, solitamente essa provoca con il suo morso fenomeni locali clinicamente controllabili, ma in alcuni casi può determinare situazioni capaci di evolvere sino a conseguenze ben più gravi. La notizia delle morti di alcuni anziani a causa del morso della reclusa scatena il web, recando con sé la preoccupazione di una mutazione nel veleno degli aracnidi. Il commissario Adamsberg ha tuttavia una strana sensazione e coinvolge il suo team in un’indagine apparentemente assurda, determinando una spaccatura al suo interno. A contrapporglisi, per ragioni che si chiariranno in seguito, proprio il tenente Danglard, uno dei suoi aiutanti e compagni di avventure più fidati. Sembrerà però dar ragione all’intuito del commissario la scoperta che due delle vittime provenivano dallo stesso orfanotrofio e nella loro adolescenza turbolenta avevano dato vita a una “banda delle recluse”, così chiamata perché i suoi membri si servivano di questi ragni per compiere atti di bullismo nei confronti di compagni più fragili, episodi in alcuni casi sfociati in tragedia. A corroborare la tesi di Adamsberg sarà la scoperta dell’implicazione di quegli stessi enfants terribles, che soprannominerà “Blaps” (sgradevoli tipologie di coleotteri), in sistematiche azioni di violenza carnale ai danni del gentil sesso.

Eppure il percorso delle indagini di Adamsberg e dei suoi uomini, come sempre avviene nell’accidentato cammino che conduce alla verità, si rivelerà ben più complesso. A suscitare un effetto di costante straniamento il procedere di pari passo dell’elaborazione di un trauma infantile subito dal commissario stesso: la visione scioccante, a Pré d’Albret, nei dintorni di Louvre, di una ‘reclusa’, ossia di una donna che – in una sorta di non meglio nota ricerca, forse per motivi ascetici, di segregazione dal consesso umano – viveva in condizioni igieniche precarie, tra i suoi stessi escrementi, in una piccionaia. Il lettore, infatti, non riesce a comprendere le ragioni di quest’indugio su vicende personali legate all’infanzia del commissario, così come fatica a cogliere l’utilità delle ricerche compiute dal team sul fenomeno della reclusione femminile nel Medioevo. Inutile dire che, in un contesto in cui fondamentale è l’apporto dell’elemento psicologico – quello che solo l’intuizione di un ‘veggente’ può cogliere –, in realtà si potrà constatare che “tout se tient”. Punti di forza del romanzo lo stile sorvegliato, l’allure spesso apparentemente digressiva che lo connota, la capacità dell’autrice di pennellare, senza spargimenti di sangue, un’atmosfera a tratti estremamente inquietante, il sostrato culturale che garantisce un intrattenimento di qualità. Non mancano tra l’altro le implicazioni etiche: sin dal principio, l’assassino sembra assumere le sembianze della Nemesi e quelle oscillazioni che inizialmente renderanno titubante e oppositivo il tenente Danglard non saranno altro che una prefigurazione dei dubbi dello stesso Adamsberg. Trovandosi vis-à-vis con la ‘reclusa’, il commissario sarà colto dallo sgomento per l’obbligo morale di doversi rendere strumento della giustizia, pur chiedendosi chi mai e cosa mai possa a sua volta garantire ‘giustizia’ a chi sia stato indelebilmente marchiato – per la ‘matta bestialità’ degli uomini – dalle stimmate del dolore.

Un ragazzo italiano


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Recensione a P. Besson, Un ragazzo italiano, trad. it. di F. Bruno, Guanda, Milano, 2007, Euro 12.
È un ingranaggio molto ben congegnato questo Un ragazzo italiano di Philippe Besson. Ritorna il tema degli amori omosessuali, ma incastonato in un contesto di più ampia problematicità. Il protagonista, Luca, morto nel momento in cui la narrazione trae avvio, viene ritrovato annegato in Arno. Ne nasce una detection, che riporta alla luce i segreti del giovane, apparentemente impegnato in una serena e appagante relazione con la bella Anna Morante e al contempo divenuto l’amante di un giovane ragazzo di vita, Leo, abituato a prostituirsi presso la stazione di Firenze S. Maria Novella.
La quête di Anna, incapace di rassegnarsi a ignorare la verità sulla morte di Luca (suicidio? omicidio? tragica fatalità), la condurrà, nelle pagine finali, a contatto con l’amante del compagno, in una lunga sequenza abilmente amplificata dal narratore attraverso la tecnica dell’analisi, con un’attenta introspezione in amebeo a moltiplicare a dismisura un tempo della storia in realtà ben più breve.
Molto efficace l’intera costruzione del romanzo, che si basa sull’alternanza di tre narratori interni, i tre personaggi principali: Luca, Anna e Leo. Il primo assume la parola dalla ‘specola della morte’; intorno ai suoi interventi si riannodano le riflessioni, i pensieri e le emozioni dei due interlocutori privilegiati della sua breve, ma intensa esistenza. L’espediente dell’adozione di Luca tra i narratori consente l’intrecciarsi di meditazioni ispirate sulla struggente bellezza della vita stessa; quando, al termine del rito della sepoltura, il protagonista patisce la privazione della luce tanto amata (bella l’icona della “rosa lasciata cadere con un gesto stanco”), il lettore si sente avvolgere dal medesimo senso di opprimente claustrofobia avvertito dal giovane. Di grande impatto risulta ancora la sequenza della cerimonia funeraria, con il protagonista che, dal feretro, per scacciare “l’umor nero” si risolve a contemplare i dipinti del tempio; in quel momento, il pensiero e l’ekphrasis dell’“autoritratto sorprendente” di Filippino Lippi nella Disputa di Simon Mago e crocifissione di san Pietro della Cappella Brancacci evoca la figura di Leo.
Alle pagine di Luca sono affidati i momenti stilistici più alti dell’opera: “Se mi annoiassi troppo, potrò sempre contemplare gli affreschi della cappella Brancacci. La vita di San Pietro a fumetti è pur sempre uno spettacolo. In realtà, però, preferisco le rappresentazioni del peccato originale. Questa colpa per cui continuiamo a pagare mi ha sempre interessato. E l’urlo silenzioso di Eva cacciata dal paradiso… d’un tratto penso che potrebbe essere il mio”. E poi ancora, a p. 48, “Fine del sole tiepido sulla mia guancia, della bella luce, degli alberi che stormiscono. Resta soltanto il buio, il buio assoluto, impenetrabile. Resta soltanto lo stridore dei dadi avvitati”. In altri casi, l’atmosfera appare decisamente straniante, come nella scena dell’autopsia o dell’imbalsamazione, durante le quali veniamo a conoscenza dei pensieri e delle sensazioni, anche olfattive, del protagonista.
Nei quattro libri che compongono l’opera, la vita umana appare un percorso accidentato tra luce e buio, un camminare in equilibrio funambolico, nell’inconsapevolezza che, proprio nei momenti di maggior felicità, è più facile scivolare e perdersi. Ciascuno reca in sé il proprio dolore, che però può anche paradossalmente confinare con la gioia più vibrante, intensa e improvvisa, e il solo errore da non commettere è quello di giudicare. Sbaglierebbe il lettore a credere che quello di Luca per Anna non fosse amore, ma solo una finzione di facciata. In fin dei conti la declinazione di tale sentimento non sempre è razionale e unidirezionale e, in fondo, anche Lisandro, nello shakespeariano (aggiungeremmo che un briciolo di ofelica follia si annida anche nella fine di Luca) Sogno di una notte di mezza estate, dichiarava che «Mai è stato liscio il corso del vero amore».