Gente del Sud


Recensione a R. Mastrolonardo, Gente del Sud, Milano, Tre60, 2018, Euro 20,90.

È un romanzo avvincente, che riesce a tener desta l’attenzione del lettore per ben 360 pagine, questo Gente del Sud di Raffaello Mastrolonardo, pubblicato nel 2018 da Tre60, marchio di Tea.

Come ben chiarisce nell’Avvertenza l’autore stesso, non si tratta di un “romanzo storico”, perché alcuni luoghi e fatti sono stati rivisitati nell’atto creativo. Senz’altro la storia costituisce l’humus su cui si innesta questa bella saga familiare, ambientata in un luogo d’invenzione chiamato Balsignano, che, secondo quanto sottolinea Mastrolonardo stesso, è scaturito alla sua fantasia nell’intento di “raffigurare, in uno, i tanti comuni dell’entroterra murgiano e, in particolare, Modugno, Altamura e Andria ai cui toponimi molto deve”. Un caso emblematico è quello di Largo Catuma, toponimo andriese che affiora nella denominazione di una delle tre zone di Balsignano: “la Cittadella, la Catuma e il Quarto di Palo”. Luoghi che, nell’immaginario del lettore attento, finiscono con l’assumere una valenza pressoché mitica, proprio come accade con le figure chiave del romanzo, in primis nonno Bastiano Parlante (detto Papanonno), quasi scolpito nella roccia, e il protagonista di Gente del Sud, Cipriano, dal nome brigantesco. Come precisa Mastrolonardo stesso, dietro quest’ultimo personaggio si cela una rappresentazione en artiste di tratti di suo nonno Michele.

Gente del Sud si connota per un interessante movimento narrativo. Si apre con un prologo d’ambientazione contemporanea, con, nelle vesti di io narrante, Raffaello, ultimo dei Parlante, nei quali, come si intende nella Nota finale, si è riversata buona parte della storia familiare di Mastrolonardo stesso. Il primo capitolo ci proietta, invece, nella Napoli di fine Ottocento, piagata dal colera, con il medico Romualdo Parlante che decide di inviare i figli e la moglie Palma, in dolce attesa, a Balsignano, per sfuggire al contagio. Al narratore interno si sostituisce il racconto in terza persona, che procede, attraversando la Grande Guerra, l’era fascista e il secondo conflitto, per poi veleggiare sino alla parte VII (Il tramonto), con la nascita, nel 1961, di Raffaello. A partire da questo momento, ritorna in gioco l’io narrante, che ci guida sino alla conclusione, che vede il giovane volver al Sur e decidere di raccogliere su di sé l’impegnativa eredità familiare.

Una struttura, dunque, elaborata e ben congegnata che regge bene per tutto il corso del romanzo, con l’efficace supporto di uno stile curato, che non disdegna la petrosità del dialetto barese (nei dialoghi) o di espressioni dal sapore di italiano regionale (si pensi ai Parlante diquellaparte).

A fungere da schidione la figura del nonno di Raffaello, Cipriano, che combatterà tra gli Arditi nella Grande Guerra e, dopo un’iniziale – imprevidente – simpatia per il fascismo, si dimostrerà parte della schiera dei giusti, ospitando, a proprio rischio e pericolo, la famiglia dell’ebreo Alessandro Glancz nell’impervia cornice del Morrone. Un uomo intelligente, uno di quei talenti che una scuola miopemente iperselettiva non ha saputo valorizzare (Saverio Strati ce ne ha dato prova nel suo bel romanzo Tibi e Tascia), ma che sarà premiato, per la sua vocazione agli affari, mai disgiunta dall’etica, dal successo (seppur effimero) dell’azienda familiare e dalla visita del presidente Einaudi.

Nella fitta compagine del romanzo, le generazioni si susseguono, nell’incombere della macrostoria sulla microstoria. Mastrolonardo descrive con efficacia l’incubo della guerra di trincea nel primo conflitto mondiale; per effetto della figura di Costanzo, fratello di Cipriano, percorre le tappe dell’esperienza fiumana e della marcia su Roma; si serve dei Glancz per affrontare l’orrore del manifesto della razza, ma anche il delicato tema del sionismo. Si mostra abile nelle corde del comico, per esempio nell’episodio che conduce alla genesi del nome Firmato, che nasce dal fraintendimento dell’ignorante Angiolino dell’espressione “firmato Diaz”. Riesce a rappresentare la psicologia delle masse inferocite, che possono metamorfosarsi in spietate assassine: emblematico è, a tal proposito, l’episodio del raccapricciante eccidio delle sorelle Porro (avvenuto ad Andria, ma collocato narrativamente a Balsignano).

Mastrolonardo si rivela felice nello scandaglio della psiche umana. Ciò risulta evidente, oltre che per quello che ci appare il protagonista, Cipriano, anche per figure come sua madre Palma o sua moglie Gelica e, ancor più, per la caratterizzazione di Reginella, nella quale si condensa il senso del tragico, sempre imminente nell’intero romanzo e suggellato nel Leitmotiv La vita dà, la vita prende. Un fatalismo da tragedia dell’antica Grecia, infatti, aleggia sulle pedine della famiglia Parlante e può assumere ora le sembianze del colera, della spagnola, di un incidente automobilistico, ora – si pensi a Romualdo junior – quelle dell’insipienza umana che genera dolore. Il lettore ha così la sensazione che il raggiungere il culmine della felicità sia un atto di hybris, cui seguirà la tisis di un destino beffardo. Eppure non c’è scoramento nelle pagine di Gente del Sud, neppure nel finale che volge all’occaso: è il fluire della vita che sempre trionfa, in mille forme e nel canto ininterrotto delle generazioni.

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