Marcel ritrovato


Recensione a G. Gramigna, Marcel ritrovato, Edizioni Il Ramo e la Foglia, Roma 2023, Euro 17.

Le Edizioni Il Ramo e la Foglia ripropongono il Marcel ritrovato di Giuliano Gramigna. Un testo complesso e interessante, che coniuga un’esile trama romanzesca con una costante connotazione di carattere metaletterario. A tal proposito segnaliamo la bella nota postfatoria dello scrittore Ezio Sinigaglia, con le sue riflessioni sulle non scontate relazioni tra Narratore e Protagonista e Narratore e Autore.

In filigrana c’è l’ammirazione per il modello proustiano, ammirazione che è tanto del protagonista, Bruno, quanto dell’Autore. Bruno ha all’attivo, al principio della narrazione, la pubblicazione di un romanzo non esente da apprezzamenti né da caratteristiche riconducibili alla sua biografia.

Se Proust costituiva il modello di quell’opera, secondo la riflessione del padre di Bruno (passaggio opportunamente segnalato da Sinigaglia), affidata ad alcune carte che affiorano nel corso dell’opera, tale ipotesto aveva costituito l’oggetto di una tensione espressiva irrisolta. Il romanzo di Bruno restava ben al di qua dal riuscire a restituire un briciolo del fascino della Recherche, risolvendosi in “povere e sbiadite reminiscenze” di quella.

Eppure Proust è l’interlocutore di un dialogo continuo da parte di Bruno e ovviamente di Gramigna. Bruno partirà alla volta di Parigi per cercare Marcello, il marito di Roberta, la donna un tempo amata e non ancora dimenticata. Marcello nel titolo diventa Marcel; il “ritrovato” allude all’ultimo tomo dell’opera proustiana, Le Temps retrouvé. Al contempo, in Gramigna sembra aver luogo un ritmo costante di smarrimento-ritrovamento-smarrimento. Quella che parrebbe la quête di qualcuno si rivela una  discesa negli anfratti della propria interiorità, sia allo scopo di sondare se si sia mai stati felici, sia di capire se in qualche modo si possa sperare di esserlo.

In questa direzione l’opera sembra dispiegarsi all’insegna di un’ondivaga maieutica. Non è tanto l’attitudine del flâneur, che pure sembra incarnarsi in uno dei personaggi, a prevalere, ma la cifra conversativa. L’opera pullula di conversazioni, che talvolta si celano tra le maglie della chiacchiera da salotto, ma non sono del tutto, e nemmeno in parte, assimilabili ad essa. Sin dall’allure quasi felliniana della bella sequenza in casa di Gianna, per proseguire con le stranianti interlocuzioni tra il protagonista e Casanova, il dialogo fiorisce a ogni piè sospinto. Proprio quando più potrebbe apparire irrilevante, finisce col rivelarsi all’improvviso foriero di intermittenze o con lo scivolare nell’inchiesta di senso. Non ci sembra affatto strano che, proprio su tale traccia, Gramigna abbia addirittura optato per una scena scritta secondo le costumanze della drammaturgia, con vere e proprie battute teatrali. Queste si caratterizzano per il contemporaneo dispiegarsi di diverse linee conversative, le quali – perlopiù duetti simultanei, ci sembra – restano parallele e non si incontrano.
Evidente il fondo psicoanalitico dell’opera, in primo luogo nell’elemento del doppio (si consideri lo strano rapporto tra Marcello e Bruno, ma anche la complementarità di Marcello e Casanova mai compresenti; lo stesso dicasi per Laura e Roberta, a sua volta sdoppiata nell’Adriana del romanzo). Questo torna a riprova dell’idea che il viaggio e l’inchiesta, al di là degli evidenti elementi estrovertenti, siano da declinare in chiave soprattutto interiore. 

Fondamentale ci sembra anche il legame tra parola e gestualità; da un lato, abbiamo la tendenza alla delineazione, per alcuni personaggi (il Cane da Fermo, il Verme), di una sorta di ideale bestiario. Queste figure, espressionisticamente deformate, trovano in una gestualità eccessiva, meticolosamente delineata, uno dei punti di forza della loro caratterizzazione. Anche però altri personaggi, portatori di un punto di vista significativo per il protagonista e tutt’altro che in dispregio, si rivelano proprio attraverso una gestualità scomposta, assimilabile ai gesti-espressione di Mukařovský. È proprio uno di questi gesti compiuti da Marcello a rivelarne l’affinità con l’albatros baudelairiano e quindi a consentire l’accostamento di tale personaggio alla scrittura.

Altro punto nodale dell’opera appare infine nel rapporto con la figura paterna, rammemorata anche nelle sue goffaggini (proprio come l’icona baudelairiana prima citata), eppure non priva di margini giudicanti, al punto che Bruno arriva a dubitare del suo amore. Al complesso intreccio d’odio e amore che connota il rapporto padre-figlio Gramigna dedicò L’empio Enea.

Un’ultima annotazione sullo stile: esso è complesso e articolato sin dalle prime battute, che descrivono la Milano “stercoraria” (nella quale si “defecano” attività), cui poi sarà contrapposta la Parigi teatro di liberazioni ai confini con la fantasia mortuaria. Non mancano flussi di coscienza o ancora momenti in cui il discorso pare frangersi e le frasi restare inconcluse. Lo scivolamento nel citazionismo è costante, come a dire che il nostro libro esistenziale è materiato di altri in cui talora si risolve all’improvviso. Le citazioni spesso sono in francese; il francese e il dialetto, ma anche il neologismo o il significante puro, costituiscono dunque inserti frequenti nella narrazione. In quest’ultima le interruzioni della fictio sono dietro l’angolo, manifestandosi anche nella proliferazione di note sul libro da farsi o su quello già fatto. Si registra una costante dialettica tra romanzo e antiromanzo dalle ubertose digressioni, in una struttura dall’equilibrio dinamico. Nell’attraversarla il lettore di certo non resta deluso, consapevole che l’instancabile ricerca della felicità abbia appena avuto inizio e forse non avrà mai fine. 

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