Fuori terra. Non scordare la fisarmonica


Recensione a M. Procaccio, Fuori terra. Non scordare la fisarmonica, Progedit, Bari 2022, Euro 14.

L’autobiografia Fuori terra. Non scordare la fisarmonica è l’opera prima di Mariella Procaccio, edita da Progedit. La narrazione, affidata alla voce narrante di Maria, protagonista, muove dal marzo 1968 e dalla partenza della sua famiglia dalla Terra di Triggiano, compiuta, come terrà a precisare il padre Enzo nel corso del romanzo, “per progredire”. La vicenda si svilupperà così in tre tempi; oltre a quello già citato, in “Terra di Triggiano”, il lettore segue i personaggi prima in “Terra di Opera” e successivamente in “Terra di Abbiategrasso”, da cui, nel finale, tra le inquietudini dell’ennesimo sradicamento, faranno ritorno nella nostra regione.

In realtà, le narrazioni in retrospettiva sono incastonate tra sezioni in corsivo che ci riconducono al passato prossimo, alla Puglia tra il 2010 e il 2014. Quella Maria, ora divenuta adulta nella terra d’origine, si dedica ad attività di carattere sociale, gestendo laboratori di lettura nella biblioteca comunale del suo paese ma anche nelle carceri. È l’esperienza attuale a determinare le “intermittenze del cuore” che fanno riaffiorare i ricordi. In particolar modo, a suscitarle è il processo di rispecchiamento in figure in cui l’io narrante s’imbatte, quali per esempio, nel primo capitolo, l’immagine di una bambina dallo “sguardo vivido, timido ma attento”. La piccola si chiama Elène e viene dalla Georgia; alla madre, ansiosa di sapere se la figlia abbia cominciato a comunicare con gli altri, la voce narrante risponderà con parole di elogio per la ragazzina: “La signora è contenta e anche mia madre lo fu quando una maestra le disse così”.

Proprio in questo ricorrere di situazioni con caratteristiche analoghe tra presente e passato ci sembra risiedere la sostanza del romanzo. Da un lato vi è la vicenda della famiglia di Maria, composta dai genitori, Enzo e Lia, e da altri due fratelli, molto diversi tra loro, Nino e Nuccio. Dall’altro, essi finiscono col divenire rappresentativi di ciò che poteva essere una famiglia italiana emigrata nel Settentrione tra gli anni Sessanta e Settanta. Accanto a loro, i parenti precedentemente stabilitisi al Nord, gli zii Lino e Rina, con la loro famiglia che finisce – agli occhi di Enzo – col configurarsi quale antitetica al suo modello ideale.

Alcuni elementi assumono valore simbolico, nella vicenda. Il titolo è direttamente evocato quando Maria racconta che, al momento della sua nascita, tanto desiderata, il padre “era ‘fuori terra’, così si diceva della terra salentina e delle terre oltre la Puglia”. Questo elemento appare quasi una sorta di presagio del senso di sradicamento che percorre, a più riprese, le pagine del romanzo.

Non meno significativo è il sottotitolo: “Non scordare la fisarmonica”. Esso allude alla passione di Enzo, padre della ragazzina, per la musica, ma anche a una frase pronunciata dall’uomo all’indirizzo del figlio Nino al momento della partenza: “Si può scordare con il freddo e l’umidità”. Il lettore comprende così che, accanto al significato più immediatamente percepibile, quello di “dimenticare”, il verbo è riconducibile al lessico musicale, assumendo così il valore di “far perdere l’accordatura a uno strumento”. In realtà, il rischio della “perdita d’accordatura” sarà proprio ciò cui andranno incontro i tre giovanissimi figli. “Perde l’accordatura” Maria; la bambina inizialmente si chiude in una sorta di mutismo nel contesto scolastico, che la porta apparentemente a dilapidare il capitale acquisito nella terra d’origine (“L’hanno passata direttamente in seconda classe questa bambina, perché sa già leggere e scrivere e sa pure qualche tabellina”). Solo l’intuito di un’insegnante valida e anticonformista l’aiuterà a sbloccarsi: “Maria, io so che tu sai la lezione, aspetto senza fretta che tu mi dia la risposta”. Emerge a latere il motivo dell’importanza dell’azione pedagogica, dell’attenzione riservata a soggetti apparentemente “fuori chiave” in un determinato contesto, accanto alla riflessione sugli effetti imprevedibili che una manifestazione di fiducia può determinare in ambito scolastico (e non solo). Ancor più “scordato” apparirà il fratello Nuccio, che, subito identificato come chiassoso e “terrone”, si ritroverà “sempre più solo, più asociale e più sottovalutato”. Le difficoltà maggiori, però, saranno paradossalmente affrontate proprio da quello che appariva il figlio rassicurante, desiderabile, Nino. Si tratta senz’altro di una delle figure meglio caratterizzate nel romanzo. Inizialmente il giovane sembra conforme al modello di ragazzo aitante e sportivo (Nino era “per me soprattutto un corpo atletico e pieno di energia” – dichiara in apertura Maria, che quasi idolatra questo fratello bello e gentile). Nino sembra peraltro perfettamente in linea con il canonico giovanotto italiano (ancor più meridionale) appassionato di calcio, che approfitta di qualunque occasione per palleggiare, improvvisare partite, esibendo la grazia di una giovinezza simile a prodigio. Eppure il lavoro in fabbrica e, forse, le inquietudini d’amore squaderneranno una fragilità che già appariva latente nell’“espressione schiva e un poco malinconica”. La condizione di strumento non accordato appare forse ben attagliarsi anche ad altri personaggi: agli zii Lino e Antonino, anche loro a tratti perseguitati da un tarlo di cui si può solo intuire il potere corrosivo; alla zia Rina, che, mentre coltiva un sogno di leggerezza che ha i lineamenti e la voce dell’adorata Milva, si scontra con le panie di una vita spesso sull’orlo della crisi; alla madre Lia, iconizzata in un sorriso non privo di cedimenti e rimpianti; al padre Enzo, nel suo umorale e umanissimo oscillare tra sogni, ambizioni e momenti di rabbia e sconforto.

L’opera si lascia leggere con interesse grazie al dono di un’affabulazione affascinante e alla forza di una storia coinvolgente. Una vicenda che induce a meditare su quanto l’animo umano sia poco propenso ad accogliere l’altro da sé. Sono eloquenti le discriminazioni che i personaggi, in quanto meridionali, subiscono nella Lombardia di quegli anni: “ci puntavano gli occhi addosso forse per i vestiti neri di mia madre, o per la voce alta di mio padre, o perché eravamo l’unico gruppo di otto persone che occupavano metà della strada” e poi ancora “Io mi vergognavo un po’ di essere guardata”; “Si vede che son terroni, si devono far notare per forza o con la maleducazione, o con le stranezze”; “‘Per essere meridionali, son bravi’, aveva detto la portinaia”; “Mio padre si riscattò quando la signora Albini, mamma di un ragazzino del condominio e compagno dei giochi in cortile, si rammaricò del fatto che i miei risultati fossero migliori di quelli di suo figlio non facendosene una ragione. La potenza di quei numeri fece vacillare le certezze della madre dell’Enrico sulla superiorità della loro gente”. Il punto di maggior crudeltà è rappresentato da una vecchia vicina che tuona in un dialetto veneto contro i “Maledetti terroni, loro e le loro bestie”, rendendosi poi probabilmente responsabile dell’avvelenamento dell’“amatissimo anziano cane” di Maria. È un razzismo che – duole dirlo – è frutto dell’ignoranza o, in altri casi, di un’istruzione sterile mai tradottasi in vera cultura; fa specie, nel 2023, il fatto che anche noi meridionali, che abbiamo patito il supponente (e infondato!) senso di superiorità altrui in altri contesti, ci rendiamo oggi artefici di riflessioni analoghe verso chi migra nelle nostre terre. Deve far riflettere l’immagine della giovane protagonista che – grazie alla sua intelligenza e forza di volontà, a lungo, peraltro, per superficialità ignorate o sminuite dagli insegnanti – riesce a ottenere risultati tali da far riflettere chi l’aveva automaticamente etichettata come “inferiore” solo perché di origine meridionale.

In fondo, può bastare molto poco (un gesto di gentilezza frutto dell’esercizio, sempre salubre, di guardare il mondo con le lenti altrui piuttosto che con il proprio occhialetto appannato) a contribuire all’accordatura di uno strumento, perché possa unirsi all’orchestra senza che si percepisca stonatura.

Anna sta coi morti


Recensione a D. Scalese, Anna sta coi morti, Pidgin Edizioni, Napoli 2023, Euro 17.

È un libro lunare Anna sta coi morti di Daniele Scalese; un’opera da leggere e rileggere per coglierne le molteplici sfumature.

Il plot si apre sulla vicenda di Anna ed Enzo; incinta, lei ha scoperto di essere affetta da leucemia. Sostenere le cure necessarie significherebbe nuocere al bambino e forse perdere definitivamente l’occasione della maternità biologica; proseguire con la gravidanza rischierebbe di tradursi in condanna a morte per la donna e forse anche per il piccolo (o la piccola). La scelta di portare avanti la gravidanza sarà foriera di conseguenze che Scalese rappresenta nel romanzo. In realtà, però, ciò che diviene centrale nella narrazione è non tanto la vicenda di Anna con la sua malattia, quanto l’atmosfera dell’obitorio, non luogo in cui la donna lavorava e in cui si ritroverà a sostituirla, per il periodo dell’assenza, proprio lo stesso compagno Enzo.

Anna sta coi morti assume così, gradualmente, l’allure di una meditazione al confine tra il mondo dei vivi e gli spazi della morte. Una partitura che si dispiega in un’aura in cui il limes tra una condizione e l’altra appare decisamente fluttuante, complice la costante tensione all’onirismo che connota la struttura del romanzo.

Molti sono i motivi che affiorano. Tra questi la spettacolarizzazione del dolore, di cui è fautrice la trasmissione dall’umoristica intitolazione Ricordati di santificare i vivi. Anna ne diverrà ospite abituale (successivamente anche Enzo), orizzontandosi a proprio agio in quel limbo tra realtà e finzione che connota il medium televisivo. Indicativo, a tal proposito, il passo in cui, con eco kunderiana, Scalese indugia sul divario tra le asserzioni retoriche e quietanti della donna e il vibrante non detto ad esse sottese.

Altro motivo ricorrente è dato dalle trasformazioni che la malattia induce nell’individuo. Scalese insiste sul corpo di Anna, sul suo graduale fragilizzarsi, quasi prepararsi alla dimensione della morte, di cui Enzo arriva addirittura a percepire già l’odore sulla pelle muliebre, complice anche la pratica dei trapassati.

Scalese indugia, inoltre, nella rappresentazione di un’umanità allucinata, che sembra operare nell’obitorio perché nessun altra dimensione le è consentanea. Pare quasi che quel posto venga eletto dai protagonisti quale zona franca per sfuggire all’esistere stesso per poi ritornarvi con accresciuta autenticità.

 In questo microcosmo s’intuisce l’allusione al topos del doppio rankiano. Emblematico è il rapporto, mai compresente, tra le figure di Anna ed Emilia; Anna è apparentemente il solo personaggio psicologicamente solido che gravita in quell’ambiente, almeno prima della malattia con il suo portato di inquietudini e nevrosi. Nel momento in cui la stabilità di Anna sembrerebbe cedere, Enzo si rivolge a Emilia, figura complessa, sfuggente, di cui emblema è il “bosco”, una sorta di spazio della rimozione. L’amore stesso sembra vampirizzante nella compagine del romanzo; Emilia ha un legame appena accennato con un altro degli impiegati dell’obitorio, Federico, di cui si racconta che abbia ucciso la sua precedente amante, colpevole di atti di stalking. Federico è stato dunque colpevole della morte della persona che aveva amato, in modalità analoghe a quelle con cui Enzo rischia ora di provocare, pur involontariamente, la fine di Anna, nel disperato tentativo della donna di generare un figlio e superare una crisi i cui dettagli affiorano gradatamente. Anche il personaggio di Alberto ha motivi che l’accostano a Enzo; innanzitutto egli appare complementare a Federico (quasi mai i due colleghi di Enzo sono compresenti). In secondo luogo, in lui si coglie una tensione necrofila ch’è materializzazione del legame indissolubile di Enzo con la sorella Eva. Proprio qui sembra celarsi l’elemento nodale della narrazione: se il titolo è Anna sta coi morti, il personaggio che appare ‘esistere per la morte’ è invece decisamente quello di Enzo. Enzo che reca nel cuore un profondo senso di colpa per le nefandezze che attribuisce alla figura paterna, atti che rivive in una dimensione ai limiti della rêverie; Enzo che si sente responsabile della fine della sorella Eva e anche per questo non sembra poter fare a meno di rapportarsi all’obitorio, addirittura concentrando la propria attenzione su donne, Anna prima ed Emilia poi, che “stanno coi morti”, come fossero vestali della dimensione incognita. Enzo che vendeva il proprio corpo, quasi per renderlo altro da sé; Enzo che decide di sostituirsi ad Anna nella catabasi obituaria, perché avverte che forse solo nel silenzio delle stanze in cui si familiarizza quotidianamente con la Grande Livellatrice potrà ritrovare sé stesso.

Un romanzo originale, ben scritto, che spazia dall’onirismo allucinato alla mimesi di frequenti sequenze dialogiche. Un’opera in cui, se emerge il ‘cannibalismo’ d’amore, affiora anche il disperato bisogno che ciascun individuo ne avverte durante la propria esistenza.

Baby rosa gang


Recensione a P. Della Mariga, Baby rosa gang, Scatole parlanti, Viterbo 2021, Euro 14.

L’intenso romanzo di Paola Della Mariga dal titolo Baby rosa gang ci introduce nella viscosa atmosfera della periferia milanese all’interno della quale vivono una faticosa adolescenza le quattro protagoniste, Rosaria, Arianna, Betta e Chicca.

Ciascuna di loro alimenta in sé un profondo disagio. Tutte condividono la dimensione dell’insuccesso scolastico, con l’eccezione della brillante Betta, che però appare subito la più ribelle sotto il profilo caratteriale. Rosaria fatica a fare i conti con un corpo obeso, ostacolo al suo desiderio di sentirsi bella e amare, ricambiata. Arianna detesta il padre ubriaco e contesta le scelte della madre, operatrice socio-sanitaria votata al sacrificio; avverte inoltre in sé un senso di distonia rispetto alla società per le spiccate inclinazioni omofile che vorrebbe liberamente assecondare. Chicca è figlia di un pregiudicato, che coinvolge talvolta anche la moglie nelle attività illecite cui è dedito. Betta non sopporta lo stile di vita piccolo-borghese della madre e del suo compagno e si sente invece affascinata dall’aura del padre spostato, peraltro assente dalla scena del romanzo.

Della Mariga segue queste vite allo sbando, che conoscono momenti di luce solo grazie all’amicizia che le lega. Sodalità che peraltro si rivela un’arma a doppio taglio, perché, nei momenti in cui le quattro ragazze si coalizzano, finiscono – soprattutto per sollecitazione della trasgressiva e sventata Betta – con l’abbandonarsi ad atti di microcriminalità. Aggrediscono una coetanea per rubarle un paio di scarpe alla moda che finirà nei navigli, perché, dopo la prodezza, la baby rosa gang scoprirà che la ‘refurtiva’ non s’adatta al piede di nessuna di loro. Accettano di assecondare il desiderio lubrico di alcuni pensionati, per poi – anche in questo caso – rendersi artefici di un furto che a nessuno converrà denunciare. Non mancheranno nel loro caotico calderone atti di bullismo, con corollario di minacce o con l’umiliazione delle vittime di volta in volta designate. Le figure adulte, comprese le assistenti sociali, appaiono del tutto inadeguate ad attuare con loro un’azione incisiva e, anzi, sono esse stesse, il più delle volte, soggette a dinamiche involutive; anche il parroco, che pure cerca di destare le coscienze, sembra in preda alla sensazione di ballare il rigodon, in cui – tra passi avanti e passi indietro – si finisce col restare perennemente fermi nel medesimo punto.

Il romanzo si dispiega attraverso brevi capitoli, in cui la voce narrante interviene, soprattutto a conclusione delle singole ‘avventure’, per interpretare i moventi degli attori delle vicende, senza alcuna intenzione giudicante. Come una sorta di speaker radiofonica (il nostro pensiero, pur con le dovute differenze, è involontariamente corso al Gedeon Burkhard della Radio Tam Tam de La piovra 5), la narratrice assurge a genius loci che ora accarezza ora sferza – ma sempre con dolente pietas – le anime alla deriva di quel microcosmo sbagliato. Tali interventi sono connotati da maggiore pathos, con il prevalere in alcuni casi di una prospettiva quasi lirica e in altri dell’elemento retorico. Il linguaggio delle sezioni dialogate tende invece decisamente alla mimèsi, sino a offrire un saggio, nel capitolo Chat, della scrittura tipica delle conversazioni su whatsapp.

Come in un inchiesta giornalistica, emergono dunque i temi del disagio giovanile, dell’omofilia e della sua percezione sociale, della dipendenza da droghe, delle reazioni a catena innescate da un atto delinquenziale anche minimo, dei condizionamenti che possono indurre all’assunzione di sostanze stupefacenti anche chi non avrebbe mai immaginato di farne uso né in fondo lo desiderava. Su tutti il personaggio più felicemente disegnato dalla penna di Della Mariga ci pare proprio quello di Rosaria, nel contrasto tra l’anelito alla leggerezza e il carico di un corpo percepito quale gravame, tra l’aspirazione alla bellezza e il sentirsene fatalmente esclusa, tra l’attenzione agli altri e la tendenza a trascurare sé stessa. Il lettore ha la sensazione che proprio lei sarebbe stata l’ideale erede dell’unica figura che nel romanzo appare fattivamente salvifica, la madre di Arianna, l’operatrice socio-sanitaria. Il destino, però, avrà altro in serbo per lei…

Eppure colei che non riesce a sciogliersi in danza diverrà ispiratrice del catartico ballo su cui si conclude il romanzo: “quella delle ragazze è la danza del loro tempo, quella che scongiura le iatture, quella che flagella i benpensanti, che onora le amicizie, che consolida le esistenze”. Un gesto quasi apotropaico, insomma, che – nelle intenzioni dell’autrice – connette idealmente quelle giovanissime perennemente sull’orlo di una crisi di nervi alle pietre di scarto delle banlieue di tutto il mondo. In fondo, proprio tra materiali negletti dai costruttori può annidarsi quella (un caso su mille) che, per effetto di un improvviso cambio di rotta, diventa “la pietra d’angolo” [Sal 118,22-23].

Carestia sentimentale


Recensione a P. Dall’Argine, Carestia sentimentale. Lettere dal fronte, Scatole parlanti, Viterbo 2022, Euro 15.

Carestia sentimentale è un’interessante romanzo della scrittrice Patrizia Dall’Argine, che tratteggia con levità e umorismo il bilancio sentimentale (e al contempo esistenziale) della quarantenne Ester, finendo col lumeggiare le vite di altri suoi coetanei “cresciuti nella bassa, sotto l’influenza del fiume e della nebbia”. Figure, quali Sebastian, la cugina Carlo, Lela, Clara e Anna – le amiche inossidabili – che “esattamente come lei, cercano la loro strada”.

L’opera presenta un punto di vista decisamente in soggettiva, interamente focalizzata com’è sulla prospettiva di Ester, che racconta in prima persona.

 I capitoli più squisitamente narrativi si alternano a lettere che costituiscono il punto di forza del romanzo. Sono dieci per l’esattezza, tutte indirizzate a destinatari maschili: l’ultimo è ideale (“supera il sogno, diventa reale, sopravvivi e vienimi a cercare”), gli altri concreti. Sono gli uomini in cui Ester si è imbattuta nell’arco dei suoi ultimi dieci anni di vita, in un percorso rispetto al quale così dichiarerà al proprio analista Ennio: “Nessuno ha potuto sfamarmi. Non ho potuto sfamare nessuno”. Su tutti spicca il personaggio soprannominato Fiele. A lui sono dedicate ben tre lettere, a cominciare da quella incipitaria, molto ben costruita, stilisticamente tra le migliori. Lettera che si conclude con quest’appassionata domanda rivolta all’amante, che vive “col cuore staccato dal corpo”: “Non lo vedi che siamo noi Giove e i suoi anelli?” e con una rivendicazione ch’è quasi parenesi a vivere intensamente (“Che siamo la galassia, l’espansione, il mistero”). Il cerchio della relazione con Fiele si concluderà nella lettera settima, intitolata non a caso “l’ultima”, in cui Ester darà vita a una spietata disamina della sua relazione con l’uomo che si tradurrà, peraltro, in lucida autoanalisi. La vicenda di Fiele verrà letta sub specie Narcisi, con l’individuazione nel personaggio mitico di un’“incapacità irremovibile al sentimento”, cui però è strettamente connessa l’“ostinazione letale” all’autodistruzione che connota Eco, nella quale Ester si identifica. “Non è il tuo vuoto che cercavo di colmare, restando. È il mio”.

La tendenza all’autoanalisi attraversa l’intero tessuto del romanzo e finisce con l’ipostatizzarsi nella presenza dell’analista Ennio. L’invito alla scrittura – di sveviana memoria – conosce una sua esplicazione nel capitolo La fine della carestia, momento chiave nell’ordito della vicenda, perché da esso si avvia il percorso di risalita di Ester, già balenato nel liberatorio rituale di Brucia, stronzo, dopo la lettera n. 7. La fine della carestia è tra l’altro interessante, perché – attraverso la voce di Ester – Dall’Argine offre un accessus autoriale all’architettura dell’intero romanzo. Romanzo ch’è anche un inno all’amicizia, oltre che alla vita.

Se, infatti, le relazioni sentimentali sono adombrate nella metafora della carestia, il sodalizio amicale tra donne – come per esempio in Clara Sereni – passa attraverso l’elemento alimentare. Le sfide nella preparazione e nella presentazione di cibi tra Ester e le sue amiche rappresentano un’allegra trovata per prendersi cura le une delle altre, nonché dei rispettivi affetti. In questi momenti della narrazione (e in capitoli come In mutande), si avverte anche l’attenzione di Dall’Argine al mondo televisivo; ci è parso, infatti, di ravvisare atmosfere che richiamano serie ormai cult come Sex and the City oppure Ally McBeal. La sua esperienza teatrale emerge invece nell’allure monologante e nel pathos delle lettere, soprattutto alcune. Notevole è la cura lessicale, che si traduce, nelle declinazioni dell’ideale militia amoris di Ester, anche nell’uso di termini di linguaggi settoriali, quali il disopercolare dell’apicoltura, ambito di pertinenza del personaggio di Fiele.

Un altro elemento ci colpisce; Carestia sentimentale è un romanzo umoristico e cosmopolita, che dagli scenari italiani ci conduce in Spagna, nella portoghese Madeira e ancora in Argentina e c’è finanche un finale vagheggiamento di Ubud, cittadina dell’isola indonesiana di Bali. Il viaggio assume valore esperienziale; s’imprime spesso nella memoria come momento di irripetibile felicità (penso al capitolo sul bedmate), eppure – orazianamente – non vale a placare l’inquietudine del cuore. Per quest’ultima è necessaria una cura di sé che passa attraverso atti quali l’“innaffiare le piante” o comprare un ombrello. Il primo è metafora della tensione alla restituzione di linfa al nostro esistere, il secondo della volontà di attraversare l’indispensabile dolore con quegli strumenti che ci aiutino a non lasciarcene annientare.

L’altra metà del dubbio


Recensione a L. Paciello, L’altra metà del dubbio, con prefazione a cura di G. Di Maggio, Porto Seguro, Borghetto Lodigiano 2022, Euro 15.50.

L’altra metà del dubbio di Luigi Paciello è un romanzo che affronta con levità e con sguardo tutt’altro che superficiale il complesso tema del benessere e della salute mentale dell’individuo.

L’opera, nel Prologo, si apre su un momento topico, in cui il protagonista, Alfredo, giunto a una svolta decisiva, si concede una sveviana “ultima sigaretta”. Un’analessi ci consente poi di recuperare l’antefatto, riconducendoci infine al fotogramma da cui la narrazione aveva preso le mosse.

A determinare la profonda crisi di Alfredo sarà la combinazione della visione televisiva (portato della contemporaneità) di un film d’argomento biblico, quindi con riferimento alla Genesi, e poi di un documentario sulla teoria del Big Bang. L’indecidibilità rispetto alle due visioni e la creduta inconciliabilità delle stesse saranno gli elementi che alimenteranno un irrequieto lavorio mentale nel protagonista. Arrovellarsi che gradualmente si trasformerà in una lenta consunzione psichica, un edere cor suum, per prendere in prestito un’espressione ciceroniana. Alfredo comincerà a mettere in discussione i pilastri del suo esistere, a cominciare dall’ormai prossimo matrimonio con Allegra sino a giungere a un volontario isolamento dal consesso umano. Non anticipiamo al lettore come si andrà a concludere la sua vicenda.

L’altra metà del dubbio è un libro interessante. Non è privo di difetti; avrebbe necessitato di un maggiore editing per la punteggiatura, che appare spesso prevalentemente intonativa, o ancora per l’aderenza al parlato – peraltro anche un pregio del romanzo –, la quale talvolta porta all’insistenza eccessiva su alcuni intercalari in funzione mimetica. Penso, per esempio, alla costante frequenza di espressioni come “cazzo”, un po’ troppo presente, sebbene per esigenze di realismo.

 Il romanzo è peraltro godibile e costruito con intelligenza. Inizialmente ti ritrovi in atmosfere degne di una sit com; in maniera leggera vengono trattati temi come l’erosione della fede religiosa, il vivere inautentico, il logorio alienante della nostra epoca. Ti sembra di assistere alle innocue sequenze in cui si rappresentano, con l’intento di sorriderne bonariamente, gli scenari frustrazione di un inetto. Personaggio per il quale il lettore è immediatamente portato a nutrire simpatia, senza rendersi subito conto (ed è un effetto voluto) del fatto che si tratta di un narratore del tutto inattendibile. Paciello ha infatti scelto di adottare un narratore interno, per cui l’intera vicenda è raccontata secondo la prospettiva di Alfredo. Ci troviamo pertanto dinanzi a una soggettiva simil-cinematografica condotta alle conseguenze estreme; è solo gradatamente che il lettore percepisce con effetto di straniamento quanto l’agire del protagonista sia incongruo e stralunato. Momento di svolta è infatti quello in cui Alfredo ruba un cagnolino per recarsi a corteggiare la bella veterinaria Valeria, mostrando di vivere ormai in un mondo fatto a propria esclusiva misura, senza più alcun addentellato con la realtà. Alla crescente presa di distanze subentra poi un diverso senso di compartecipazione, che nasce perché il lettore è poi indotto ad accostarsi con movimento empatico al destino dell’infelice giovane.

Così facendo Paciello mostra come subdolamente si manifestino le patologie mentali e quanto esse diano luogo a un’escalation di azioni incoerenti che, se non adeguatamente bilanciate, possono anche, talora in maniera del tutto causale, portare a conseguenze tragiche.

L’autore, che si dedica con timbro interessante anche alla scrittura poetica, riesce a incuriosire il lettore, ad avvincerlo, a indurlo a meditare, spesso anche a divertirlo nel delineare la varia umanità che gravita intorno al piccolo centro in cui vive Luigi. Una sorta di coro paesano, infatti, accompagna e commenta le sue vicende; il lettore incontra così diversi personaggi, ciascuno con le proprie piccole e grandi manie e, talora, l’inveterata abitudine (si veda lo zio Carmine) a convivere con le infelicità che l’esistere determina. L’altra metà del dubbio è insomma un’opera che sembra esortare a ricercare il benessere che non nasce necessariamente dall’inanellare vittorie personali e sociali, ma dalla capacità di accettare le proprie fragilità e quelle altrui per poi cercare di sostenersi nei momenti bui del vivere.

Pensel


Recensione a Z. Gallo, Pensel, Florestano, Bari 2022, Euro 15.

Il romanzo Pensel di Zaccaria Gallo rappresenta una felice combinazione di storia e invenzione. In un ritmo vertiginoso le alchimie del caso inducono le strade di individui apparentemente distanti a intersecarsi e condizionarsi in maniera decisiva.

L’opera affonda le radici in due eventi storici: la congiura realista antinapoleonica detta della “machine infernale”, che sfociò nell’attentato della rue Saint-Nicaise a Parigi alla vigilia di Natale del 1800, e la strage del Bataclan, sala da spettacolo parigina in cui, il 13 novembre 2015, novanta persone hanno perso la vita in un attentato dell’ISIS durante il concerto delle Eagles of Death Metal.

Qui l’intuizione di Zaccaria Gallo. Egli muove da un dato storico: la tragica morte della dodicenne Marianne Peusol, nel romanzo chiamata Pensel, coinvolta da Pierre Robinault de Saint-Régeant per mantenere le redini della giumenta legata alla macchina infernale e rimasta uccisa nel corso degli eventi. Inutile dire che l’attentato fallì e Napoleone ne uscì incolume, ma non i malcapitati passanti coinvolti nell’esplosione. A questo elemento Gallo va a connettere gli eventi del 2015, collocando sullo scenario del Bataclan una Pensel, discendente della bambina omonima. La ragazza, diversamente dall’antenata, riesce a sfuggire alla morte e si rifugia in un portone disserrato, nel quale viene soccorsa in stato di choc da un giovane studioso italiano, Francesco, che si sta recando a trovare uno scontroso professore suo amico, Jean Pierre. Francesco porterà la ragazza in casa dell’uomo: quest’ultimo dapprima è infastidito dalla presenza femminile che invade i suoi spazi inopinatamente; quando però viene a conoscenza del nome della ragazza e intuisce la sua origine, rievocherà con lei gli eventi storici per i quali egli, discendente del Robinault de Saint-Réagent, non era mai stato in grado di liberarsi d’un atavico senso di colpa.

Il romanzo ha una struttura complessa, in un costante susseguirsi di piani temporali differenti. Il passato, ora rivissuto in prima persona dai protagonisti (Napoleone, gli attentatori – soprattutto Saint-Régeant e Limoëlan-Limolean – e il capo della polizia Fouché) ora rievocato secondo la prospettiva di Jean Pierre, riemerge in tutta la sua ambiguità, il suo orrore. Riaffiora peraltro l’intreccio di ragioni anche valide che conducono a conseguenze atroci. Il patriottismo di cui si sentono investiti gli attentatori della rue Saint-Nicaise non è forse differente dalla percezione che di sé hanno gli assassini del Bataclan, scherani di una guerra per loro carica di senso. Resta l’inoppugnabile constatazione che se le vittime designate, si veda il caso di Napoleone, riescono magari a sfuggire in virtù dell’id quod accidit (un ritardo, lo scatto imprevedibile di un cocchiere alticcio), a restare stritolata è non di rado l’innocenza di creature pure come Pensel. Gallo accarezza questa figura, ne mostra la commovente umanità: le dona la gioia di vivere di bambina, gli occhioni sgranati su un mondo in cui ogni cosa è scrutata con lo stupore di una magica prima volta. Un’aspettativa al cospetto del vivere per cui anche la povertà più dura può essere addolcita dalla carezza di un genitore: “Mentre si avviano una breve carezza sfiora il volto delle due bambine. È un bel momento questo per Pensel. Il padre si è addolcito, dopo tanti strilli che emette durante il giorno là dentro, e ora è lieve quella sua mano, nera di carbone e polvere. Scompare, per un attimo, dagli occhi di Pensel e Manon, l’immagine della continua lotta della loro famiglia contro la miseria”. Eppure è proprio questa struggle for life che collocherà Pensel e la sorellina Manon sulla strada dei cospiratori della machine infernale. Significativo, a p. 151, il momento in cui Limolean posa lo sguardo sulle due bambine e sceglie Pensel come involontaria complice dell’atto in corso. Significativo anche perché quella piccola che il lettore ha imparato in qualche modo a conoscere, e per cui ha subito sviluppato un senso di tenerezza, gli o le viene ora mostrata, attraverso la prospettiva di Limolean, in un’ottica straniante. È in qualche modo spersonalizzata, diviene una figura ch’esce dalla folla e che come tale può essere anche designata a morte. È in fondo l’ottica di chi compie un attentato nel quale chiunque  potrebbe restare ucciso.

Uno dei punti di forza di Pensel, oltre alla vertigine temporale che coglie chi s’inoltra tra le pagine del romanzo, è l’adozione della focalizzazione interna variabile, con narrazione ora in terza ora in prima persona, sempre fondata sull’assunzione del punto di vista di uno dei personaggi. Ciò determina una sensazione di pluriprospettivismo, che restituisce la problematicità degli eventi storici (da Gallo ben rievocati) unitamente alla molteplicità delle implicazioni etiche e delle motivazioni alla base di momenti altamente tragici come quelli narrati dallo scrittore.

È un’architettura, quella di Pensel, in cui non mancano le simmetrie: basti pensare ai primi due capitoli e alle similarità costruttive che li caratterizzano. Il primo capitolo è dedicato agli eventi del Bataclan; siamo nella dimora solitaria di Jean Pierre, che vede irrompere nella notte Francesco. Quest’ultimo conduce con sé Pensel. Il capitolo si chiude con Jean Pierre che, sconvolto dalla presenza della ragazza, decide di ospitare i due per la notte. Il secondo capitolo ci mostra Limolean, l’unico dei tre esecutori materiali dei fatti di rue Saint-Nicaise a essere scampato all’esecuzione capitale. Egli si è rifugiato in un convento in America; qui è diventato fra Joseph. La visita di padre Benjamin il giorno di Natale induce il frate a rivelare il rovello che l’angoscia; così, in un’atmosfera allucinata, l’uomo indica all’attonito interlocutore un angolo in cui dice nascondersi l’ombra di Pensel, da cui si sente perseguitato. Evidenti sono le analogie: due uomini, carichi di un senso di colpa riveniente dal passato e confinati in ‘romitaggio’, secolare l’uno e conventuale l’altro, vedono riaffiorare lo spettro di Pensel. Ciò avviene con la mediazione di una figura maschile che nel primo caso introduce nel luogo-eremo una donna in carne e ossa, nel secondo fa riemergere un fantasma dagli anfratti della storia. Altri casi potremmo citare, ma riteniamo che questo sia senz’altro il più indicativo.

Un altro aspetto non secondario, in quest’opera che ha il pregio di uno stile curato e di una notevole varietà di registri, è l’emergere della figura di Manon, sorella di Pensel. Ella è rievocata e portata all’attenzione di Jean Pierre dalla Pensel contemporanea, che mostra al professore un documento a lei connesso; subito dopo, nel recupero del racconto storico, la vediamo comparire nel convento, al cospetto di Fra Joseph, intenzionata a vendicarsi. Sarà il rancore a prevalere? Il sangue chiamerà altro sangue? Certo, se spesso nella tragedia greca le colpe dei padri ricadono sui figli (si pensi ai Labdacidi o agli Atridi), in quest’opera, immersa in un’aura tragica, il messaggio che sembra emergere è che le nuove generazioni non debbano sentirsi macchiate e marchiate da colpe che non hanno commesso. Devono però, per riscattare il passato, agire nella direzione giusta e costituire una social catena, perché laddove ci furono violenza e sopraffazione possa spirare una consolatrice “giustizia riparativa”.

L’ultimo Natale di Mrs. Dalloway


Recensione a C. Inguanta, L’ultimo Natale di Mrs Dalloway, Scatole parlanti, Viterbo 2022, Euro 12.

L’opera di Cinzia Inguanta, che potrebbe essere concepita quale raccolta di racconti ma a nostro avviso costituisce una sorta di unico corale romanzo psicologico, si presenta come una curiosa ‘staffetta’ di punti di vista differenti. Ogni capitolo (alcuni sono veri e propri microcapitoli, anche di una sola pagina) è dedicato a uno dei giorni che da Natale giungono all’Epifania ed è caratterizzato dall’assunzione dell’ottica di un diverso personaggio. Inguanta adotta così il difficile artificio della focalizzazione interna variabile, determinando un pluriprospettivismo che mostra le medesime vicende e le medesime figure secondo angolazioni differenti. L’esito è a nostro avviso efficace.

A quest’opzione Inguanta affianca, forse con qualche suggestione della narrativa di Tozzi, l’introduzione di un Leitmotiv, la presenza di una figura che compare quasi in ogni capitolo e che finisce con l’accomunare i vari personaggi. Presenza che, inutile dirlo, è la Mrs Dalloway del titolo, per conoscere l’identità della quale (identità che non sveleremo) il lettore dovrà attendere l’ultimo, spiazzante capitolo.

L’ultimo Natale di Mrs Dalloway (titolo che ammicca ad Ammaniti e rivela la passione dell’autrice per il meraviglioso romanzo di Virginia Woolf) è un’epopea minimale dei vinti. I suoi protagonisti sono creature solitarie, spesso alla deriva come Remo, vittima di una patologica dipendenza dalle slot machine, o Luciana che annega nell’alcool il suo dolore per una situazione sentimentale irrisolta e insostenibile. I luoghi del loro stento, oltre al casamento in cui la maggior parte di loro abita, sono bar, palestre, quei non luoghi insomma che possono diventare teatro di affollate solitudini.

Inguanta segue i suoi personaggi nelle loro azioni a volte insignificanti, come per esempio nelle abluzioni o nelle operazioni finalizzate alla cura di un corpo che poi essi stessi andranno magari a demolire per effetto del vizio o dell’autolesionismo. Quelle dell’Ultimo Natale sono infatti spesso creature disincantate, che vivono in modo straniante la relazione con il contesto che le circonda. O magari sono anziani alla disperata ricerca di un po’ d’affetto come la prof.ssa Bertoluzzi o la signorina cui allude il personaggio di Clara nel capitolo a lei dedicato. Nell’opera di Inguanta emerge in misura considerevole proprio il divario generazionale, con gli adulti incapaci di dialogare con gli anziani e questi ultimi inermi al cospetto del narcisismo o dell’egoismo a volte radicati nei giovanissimi. L’autrice adombra con forza anche un ulteriore problema che la società contemporanea deve fronteggiare: l’incapacità che a volte si radica nelle nuove generazioni di discernere il reale dal virtuale; il graduale processo di derealizzazione che le induce a servirsi delle tecnologie in maniera egotica e disumana, senza alcuna percezione dei risvolti etici del proprio agire. L’imprevedibilità della mente umana, l’insondabilità degli abissi che si celano dietro il volto anche apparentemente più angelico sono alla base di quel continuo  aproṣdòketon che suggella le chiuse dei capitoli, a tratti molto efficaci (“Quando fu il momento smise di respirare”). In questo gioco di specchi, in cui chi parrebbe più sano si rivela gravemente minato nell’interiorità, è emblematico che il sentimento più puro sia rappresentato da una nascente passione omoerotica, la maggiore maturità da un bambino e la più profonda sensibilità e capacità di empatia da un animale. Ma questo in fondo non stupisce affatto…

Benedetto sia il padre


Recensione a R. Ventrella, Benedetto sia il padre, Mondadori, Mondadori, Milano 2021, Euro 18.

Benedetto sia il padre di Rosa Ventrella è un romanzo che si distingue per la forza d’autoauscultazione di un io narrante, Rosa Abbinante (onomasticamente scissa in Rosa, Rosé e Rose), paralizzato da ferite radicate nella storia familiare. “Mio padre alza le mani su mia madre”: è questa la confessione resa spontaneamente alla prostituta Marilyn dalla protagonista adolescente, confessione che echeggia subito, nella voce della stessa divenuta adulta, già nel primo capitolo. La narrazione prende infatti avvio, l’undici dicembre 2002, nel segno della constatazione del definitivo fallimento di un amore e di un matrimonio (quello dell’Abbinante con Marco) e con l’annuncio del ricovero dell’amatissima mamma.

L’opera recupera così in retrospettiva le vicende di una Rosa tredicenne, che percepisce di vivere in un “Limbo” nell’estate 1978, con la famiglia al terzo trasloco nel quartiere barese di San Nicola, speranzosa (invano) in una stabilizzazione lavorativa del padre inquieto, ora alle prese con l’attività di cucitore di reti. Giuseppe, detto Faccia d’Angelo, è la figura più enigmatica del romanzo. Sin dalle prime battute egli è stigmatizzato dalla figlia, che ne sottolinea la natura demonica, l’indole violenta, peraltro frutto dell’atmosfera percepita sin dall’infanzia. “Nella mente di nostro padre il rispetto passava attraverso l’autorità e la violenza. Era la legge del quartiere, ci diceva”. E tale legge viene chiaramente enunciata dall’io narrante al principio del capitolo quinto; è come se la brutalità nel rapportarsi all’altro – sottolinea Rosa – ti fosse “cucita addosso non appena venivi al mondo”. La tredicenne ne coglie chiaramente i segni nel paesaggio, nei gesti e nelle pose di uomini e donne del San Nicola, persino nella petulanza che traspare dalle movenze dei giochi infantili dei fratelli, Salvo e Michele. La corruzione di Faccia d’Angelo appare quindi quasi atavicamente inscritta nel suo destino, così come la rabbia per un esistere fuori chiave. La benedictio del titolo sembra pertanto inizialmente antifrastica. Rosa maledice il padre; avverte in sé il perpetrarsi del germe della sua indole malsana e si sente “carne affitisciuta”. Teme che i fratelli stessi, Salvatore soprattutto, possano ereditarne l’aggressività (in parte tale processo le appare addirittura già in atto). Eppure questo padre apparentemente vituperato è anche amatissimo da Rosa e finisce con l’assurgere a suo “mito personale”. Si legga il passo in cui la donna lo paragona a James Dean, emblema di una gioventù inquieta e ribelle, “bruciata”. “Ritrovavo in lui lo stesso sguardo sfottente e unico che lo rendeva amabile e detestabile allo stesso tempo”. Lo sguardo del padre è un altro elemento chiave dell’opera: soprattutto Rosa e Michele, continuamente svirilizzato dall’ipergiudicante istanza paterna, ne avvertono il potere pietrificante. Rivive in Giuseppe il motivo dello sguardo meduseo che la tradizione letteraria italiana aveva consacrato nell’icona della figura femminile (si pensi alla petrarchesca Laura, ma anche alle Furie dell’Inferno dantesco). L’amore verso il padre subisce una sorta di transfert nell’attrazione sensuale che Rosa avverte nei confronti di Nando, ambiguo amico di Giuseppe. Nei tratti spigolosi di quell’uomo così virile, la ragazza intravede forse l’aura stessa dell’Abbinante, lo sdoppiamento tra angelicismo fisico e demonismo spirituale.

Giuseppe ha il potere di degradare le donne di famiglia al livello di meretrici. È l’ingiuria che spesso rivolge alla moglie Agata – che non a caso ha un nome che ammicca alla verghiana Mena – e l’appellativo che rivolge a Rosa quando la vede truccarsi nella casa della prostituta Marilyn. E non è un caso che, come una sorta di doppio della figura materna veneratissima, sia proprio una meretrice colei che la tredicenne sceglierà come pressoché unica amica. La figura di Marilyn è una delle più struggenti dell’opera, con la totale mancanza di autostima che la caratterizza e la tendenza a proiettarsi in una sorta di dimensione sfuggente, eterea. Tale evasione si verifica in misura tanto più intensa quanto più la donna avverte il montare della violenza che la circonda. A Marilyn così come ad Agata è connesso il motivo dello specchio, dal valore fortemente simbolico nel romanzo. Agata rappresenta la realtà di una madre solida e positiva, che si rifugia nel canto (adora Mina) e in una piccola grotta “nella scogliera di fronte al Castello”. Tale luogo ha valenza metaforica ed è allusione al ripiegamento nell’interiorità per la fuga dal reale, così come confermato nel capitolo finale. Non è infatti casuale il fatto che la madre sia presentata come una donna costantemente in cammino, quasi percorresse – angolo dopo angolo – le stazioni di una terribile e sfibrante Via Crucis. Marilyn è l’incarnazione di come il padre sembra – agli occhi di Rosa – considerare la moglie; è quindi un’ipostasi della madre negletta, disprezzata, in cui l’io narrante vede anche il dischiudersi di un regno, quello dell’erotismo, che la respinge e l’attrae. Infatti, più volte la ragazza allude all’episodio in cui aveva assistito, non veduta, a un rapporto tra i genitori, voyeurismo che sembra contraddistinguere anche il suo relazionarsi a Marilyn, di cui spia gli amplessi con alcuni clienti, tra interesse e repulsione. L’idea che Marilyn possa essere proiezione di una figura materna distorta dallo sguardo maschile ci pare corroborata dal fatto che Giuseppe eserciti fisicamente la violenza anche su di lei, determinando il definitivo naufragio del rapporto con l’adolescente.

Marilyn racconta di avere un passato da ballerina e questo ci fornisce l’occasione per riflettere su un altro elemento ricorrente nella narrazione: la danza. Quest’ultima sembra preclusa alle donne; Marilyn ne sarà allontanata e Rosa è apostrofata in maniera ingiuriosa dal marito Marco proprio per il suo modo, agli occhi dell’uomo provocante, di ballare alla cresima della figlia Giulia. Paradossalmente la danza è spesso evocata come prerogativa degli uomini, ma è un ballare rabbioso il loro, pregno di aggressività. Penso in particolare alla danza di Giuseppe ubriaco all’inizio del capitolo quarto, che prelude all’ennesima violenza; significativo il fatto che il sensibile figlio Michele tenti di imitare i gesti del padre, ma in maniera goffa al punto “che il risultato era un susseguirsi di movimenti tentennanti e un po’ femminei”. Il ballo, nel contesto descritto da Ventrella con crudezza e delicatezza allo stesso tempo, finisce quasi con l’identificarsi con una sorta di rituale tribale, prebellico, ouverture all’oltraggio.

Altro fattore che ci colpisce la presenza di muri scrostati o sbrecciati, ulteriore segno di degrado di un quartiere in cui l’odore del sapone di Marsiglia è frammischiato al puzzo d’orina. La casa, che dovrebbe incarnare il guscio protettivo, finisce con l’essere luogo della contraddizione, minato da un germe che ne corrode le pareti. Un male che si annida nell’interiorità.

Il romanzo di Ventrella non è privo di echi rivenienti dalla tradizione letteraria italiana. La descrizione del quartiere San Nicola sembra recare memoria del manzoniano palazzotto di don Rodrigo, ma ancora più forte ci appare, tra le altre, la memoria dei Malavoglia verghiani. Un esempio su tutti il bel finale del capitolo XI; quel mare che “russava ancora in fondo alla stradicciola,” in cui “a lunghi intervalli si udiva il rumore di qualche motocicletta o di qualche auto moderna sfrecciare sul lungomare” è un chiaro omaggio al capitolo II del capolavoro verghiano. Prova ne sono anche le stelle che “ammiccavano forte”; il passo, che fu oggetto di una splendida lettura di Leo Spitzer, il quale vedeva nella Mena/Sant’Agata l’anima folklorica del borgo, è richiamato per contrasto. L’inquietudine di Mena per il padre destinato a morire in mare è funzionale, per la Rosa della Ventrella, a un’apparente dichiarazione d’odio nei confronti della figura paterna. Apparente, perché in realtà quel “Non provavo amore per mio padre, per quel corpo secco e duro, quegli occhi di ghiaccio. Odiavo la sua faccia d’angelo” ci sembra piuttosto – ed è – un disperato grido d’Amore.

L’uomo che vendette il mondo


Recensione ad A. Galano, L’uomo che vendette il mondo, Scatole Parlanti, Viterbo 2021, Euro 15.

È una storia struggente, raccontata con levità e forza al contempo, quella che Alessandro Galano costruisce ne L’uomo che vendette il mondo.

L’opera trae il titolo da una celebre ed enigmatica canzone del “Duca Bianco”, David Bowie, The Man Who Sold the World, testo in cui si stratificavano più suggestioni, compreso il bellissimo incipit di Antigonish di Hughes Mearns. Il cantautore spiegava come nella genesi del brano entrasse il complesso processo di ricerca e scoperta del Sé, movimento che – ben coglie Galano – è strettamente connesso al nostro rapporto con gli altri e con il mondo.

“I thought you died alone / A long long time ago”: sono questi i versi chiave più volte evocati dal romanzo, accanto all’immagine della pioggia incessante che causa la rottura degli argini e travolge, in un brano dei Led Zeppelin, When the Levee Breaks.

È una storia di solitudini che si intrecciano e diventano sodalità quella che Galano pennella. Eppure nemmeno la sacralità dell’amicizia, a volte, può impedire che si muoia soli, quando il fiume dell’inquietudine dilaga.

È un’inquietudine, quella che Alex – il personaggio intorno a cui ruota l’intera vicenda – si porta nel cuore, radicata nella storia familiare e sedimentatasi nella navigazione esistenziale. Il giovane cerca di placarla, accumulando esperienze e viaggi, ma lo diceva anche Orazio: “Caelum, non animum mutant qui trans mare currunt”. Così, il giovane, in seguito a un’overdose di ketamina e all’investimento da parte di un’automobile, si ritroverà ricoverato in una clinica per malati psichici, Villa Navis, dove verserà in stato catatonico, apparentemente paralizzato.

Il romanzo si apre con il suo migliore amico Santo Bardi, precario docente con la valigia, altra figura di inquieto, che, recatosi a far visita ad Alex, sbaglia stanza e finisce con l’entrare in quella di una vecchia accudita da una badante albanese, Alba Laura. Fingerà che l’anziana signora sia sua zia ed entrerà in confidenza con la ragazza, stabilendo con lei interazioni sempre più delicate e intense. Nel frattempo, farà visita ad Alex, dialogherà con il direttore della clinica, il celebre neurologo Noverati, interagirà con le donne della vita sua e dell’amico: Paola, con cui Santo aveva avuto una relazione “sbagliata”, e Ida, energica sorella di Alex.

Tutto questo, mentre gli argini della memoria si rompono e gradualmente la storia di Alex, delle sue “sparizioni controllate” e della loro amicizia, riaffiora, in retrospettiva e anche grazie all’espediente del viaggio, che condurrà il protagonista a Budapest, alla ricerca della misteriosa e tormentata Agotha. Luoghi e ricordi si intrecciano: notevoli le sequenze ambientate presso la Tomba della Medusa, omaggio al sito archeologico della provincia foggiana. Il momento, seppur delineato con levitas, raggiunge il culmine nell’avvicinamento di Alex “alla statua di pietra incassata nella parte”, ulteriore declinazione del suo cupio dissolvi che sfida il superstizioso rischio della pietrificazione.

Il desiderio di autodissoluzione di Alex trova la sua oggettivazione nel simbolo marino. Il mare attraversa l’intero romanzo; l’acqua è presente pervasivamente. La clinica, Villa Navis, rimanda ossessivamente alla Narrenschiff dell’alsaziano Sebastian Brant. La pioggia accompagna un momento significativo della relazione tra Alba Laura e Santo e del resto quella dell’appartarsi di personaggi per un temporale è storia antica; Didone ed Enea ne costituiscono un antecedente illustre. Nella narrazione si colgono due momenti di estrema tensione: una prima Spannung è raggiunta nella sequenza della bufera a Marina Piccola, nel corso della quale Alex si lancia in mare, come a voler godere vitalisticamente della furia degli elementi ed esserne travolto. Santo lo segue e, più inesperto, perde i sensi, per poi risvegliarsi, messo in salvo dall’amico. “Quello fu l’ultima volta che lo vidi, prima di Villa Navis”. Questo ci sembra l’episodio più significativo; senz’altro ci troviamo dinanzi alla pagina più intensa del romanzo, carica di echi bachelardiani. “L’acqua porta lontano, l’acqua passa come i giorni. Ma un’altra rêverie si impossessa di noi, ci insegna una perdita del nostro essere nella dispersione totale. Ciascun elemento possiede una sua propria dissoluzione, la terra ha la polvere, il fuoco il fumo. L’acqua dissolve nel modo più completo. Ci aiuta a morire totalmente”, scriveva infatti l’epistemologo francese nella sua Psicanalisi delle acque. L’elemento acquatico ritornerà nello scioglimento finale, durante il momento topico del Capodanno, che si carica anche di suggestioni pirandelliane, legate all’Enrico IV. E ancora una volta Santo si troverà in pericolo.

Un bel romanzo, ben scritto, curato nei dialoghi e ricco di suggestioni culturali. Un’opera che coinvolge e induce alla meditazione, un lacerante inno all’amicizia e alla vita, che spesso rompe gli argini e ci pone al cospetto del fluire del nostro magmatico esistere.

Quello che non sai


Recensione di S. Galluzzo, Quello che non sai, Fazi, Roma 2021, Euro 16.

Vi sono libri che colpiscono per la capacità dell’autore o autrice di scavare nella psiche umana e mostrarne i moti più indecifrabili. Opere che ci inducono a meditare sulla zona d’ombra che spesso uomini e donne sono chiamati ad attraversare, a volte senza neppure avere piena consapevolezza del proprio smarrimento e del bisogno di aiuto a esso correlato.

Tra questi libri possiamo senz’altro annoverare Quello che non sai di Susy Galluzzo, edito da Fazi. Un’opera che ci ha colpito e indotto a serrati tempi di lettura, sempre con un profondo senso di straniamento per la materia e l’ottima costruzione della figura della protagonista, Michela, detta Ella.

Il romanzo si presenta nella forma di un diario in cui Ella elegge a interlocutrice la madre defunta. Il lettore scoprirà nel corso della narrazione che proprio il momento della morte della donna ha rappresentato un trauma lacerante per Michela e che probabilmente esso si pone all’origine delle sue turbe. Tra l’altro un filo sottile, ma percettibile a chi legge, connette l’evento appena citato con quello – paradossale – con cui esordisce la vicenda.

Ella è andata, secondo consuetudine, a prendere la figlia tredicenne Ilaria (“è la mia vita. E anche la mia morte”, scrive alla madre) dall’usuale allenamento di tennis. La ragazza, dal carattere difficile, reso ancor più spigoloso da un disturbo ossessivo compulsivo, è, come molte adolescenti, distratta dal suo smartphone e attraversa la strada senza prestare particolare attenzione al movimento delle automobile. Ella vede distintamente una Juke avanzare velocemente verso la ragazza e coglie come il giovane autista sia a sua volta più attento alle notifiche del suo cellulare che alla strada. Potrebbe gridare, avvisare la ragazza, ma, per ragioni che il lettore gradualmente arriverà a comprendere, è come pietrificata e lascia che sia il cane Duccio a salvare Ilaria. A partire da questo momento, il rapporto con la ragazzina sarà minato e Michela entrerà in una spirale di incomprensioni che sfoceranno nell’instaurarsi di un vero e proprio inferno domestico. La relazione con suo marito Aurelio, già tacitamente in crisi, si sgretolerà, complice l’apparire all’orizzonte del pugliese Federico. L’intervento della terapeuta Rebecca Castelli, esperta nel curare disturbi psicologici dell’età adolescenziale, sembrerebbe poter riportare la pace nella burrascosa famiglia, ma non vogliamo aggiungere altro, lasciando ai lettori il piacere di scoprire l’evoluzione degli eventi.

Il romanzo è chiaramente costruito in soggettiva. La scelta di Michela come narratrice interna orienta sin dal primo momento le reazioni di chi si accosta all’opera. Si ha subito la tendenza a solidarizzare con Ella; a cogliere come il suo disagio sia figlio di un’esistenza trascorsa ad annullarsi per costruire una confort zone all’inquieta Ilaria e al poco presente Aurelio, il padre buono. Si è indotti persino a giustificare il poco comprensibile gesto iniziale: l’omissione di un grido che sarebbe stato la reazione più naturale al pericolo corso dalla figlia. Poi gradualmente si colgono e meglio si comprendono i comportamenti della donna. Michela soffre di una mania di controllo analoga a quella di Ilaria e diversamente declinata. Le ferite che hanno solcato la sua anima ne hanno fatto una creatura perennemente sull’orlo dell’abisso. Emblematica a tal proposito la percezione che ha di Rebecca Castelli come una nemica, una donna insinuatasi nella sua quotidianità non per rendere più serena la vita di Ilaria per effetto della terapia, ma addirittura per sostituirsi a Ella nell’affetto della tredicenne e persino di Aurelio. Si arriva a momenti in cui la distorsione del reale è totale, ma il lettore ingenuo stenta a rendersene conto, proprio in virtù del fascino che caratterizza la figura di Michela. Alcune vicende porteranno a una graduale presa di distanze dal personaggio, che – proprio nell’istante in cui il fruitore dell’opera ha chiaro che essa abbia raggiunto il suo punto più basso – ti sorprende per il coraggio improvvisamente dimostrato. In più, l’autrice riesce a introdurre anche un elemento suscitatore di suspense: un misterioso uomo con la maglia rossa che si materializza nei momenti topici per Ella e pare spiare le sue azioni.

Insomma, un romanzo affascinante, molto ben scritto, in cui curatissima appare la costruzione anche di Ilaria, con Galluzzo che riesce decisamente felice nella documentata delineazione delle caratteristiche del D.O.C. adolescenziale. Uno struggente duetto madre-figlia all’insegna delle incomprensioni e di un odi et amo che, come sempre, cela l’amore più profondo e disperato.  Un’opera dal finale lacerante, in cui una scomparsa improvvisa e inopinata appare, distintamente, il preludio di una speranza.