I piaceri e i giorni


Recensione a M. Proust, I piaceri e i giorni, traduzione di Mariolina Bertini e Giuseppe Girimonti Greco, Mondadori, Milano 2022, Euro 14.50.

L’edizione di I piaceri e i giorni (Les Plaisirs et les Jours) di Marcel Proust tradotti da Mariolina Bertini e Giuseppe Girimonti Greco rappresenta una splendida occasione per leggere e rileggere il primo volume pubblicato dallo scrittore francese (Calmann-Lévi, Paris 1896), a raccogliere alcuni testi composti tra il 1892 e il 1894.

Il titolo ammicca in chiave ironica agli esiodei Ἔργα καὶ Ἡμέραι. Scriveva, infatti, nella prefazione che accompagnò il volume, Anatole France: “L’austero Esiodo raccontò ai caprai dell’Elicona Le opere e i giorni. È ben più malinconico raccontare ai mondani dei nostri tempi I piaceri e i giorni, se è vero, come diceva quell’uomo di Stato inglese, che la vita sarebbe ancora sopportabile senza i piaceri” (il riferimento era a Sir George Cornwall Lewis).

Il volume presenta una lucida introduzione di Mariolina Bertini, che illustra al lettore la genesi dell’opera, seguendo la comparsa dei singoli testi su periodici e identificando significative connessioni tra questi. Costante è il riferimento alla biografia di Marcel Proust, ai suoi epistolari e alla ricezione del volume. Esso attirò all’autore non poche critiche; apparve eccessivamente ambiziosa – una sorta di “peccato originale” –  la presenza di tre nomi importanti a supportare il volume. Oltre alla prefazione di France, l’opera poteva vantare le preziose illustrazioni di Madeleine Lemaire; i ritratti di pittori erano poi accompagnati da spartiti di composizioni di Reynaldo Hahn, il cui rapporto con Proust era oggetto di chiacchiere, che trasparivano a volte senza neanche troppi sottintesi. Severo fu, tra i recensori, Jean Lorrain nel numero del 3 febbraio del “Journal”, in cui la deminutio de I piaceri e i giorni era suggellata da questo riduttivo sommario: “melanconie soavi, elegiaci languori, piccoli nonnulla di eleganza e di sottigliezza, tenerezze vane, flirt inutili in stile prezioso e pretenzioso…” Non mancano, nel contributo introduttivo di Bertini, osservazioni anche in relazione alla storia della dedica, che inizialmente doveva accomunare due giovani amici di Proust precocemente scomparsi, Edgar Aubert e Willie Heath; per il rifiuto degli Aubert, essa fu di fatto destinata soltanto al secondo. La dedica Al mio amico Willie Heath assume un’importanza considerevole perché, nel pennellare un ritratto di esteta di leonardesca grazia, offre una significativa riflessione sul “fertile isolamento” rappresentato dalla malattia (evocata nella metafora dell’arca) su cui non a caso Bertini chiude l’Introduzione.

La traduzione, raffinata e attenta al “colore storico”, di Bertini e Girimonti Greco (“per la sezione Ritratti di pittori e di musicisti è stata” invece “ripresa la traduzione einaudiana di Franco Fortini”), è stata esemplata, in mancanza di un’edizione critica dei Plaisirs, sull’edizione di Yves Sandre per la Bibliothèque de la Pléiade. Utile e ricco di annotazioni, sia di carattere storico-esegetico sia di matrice filologica, il commento di Luzius Keller, che accompagnò l’edizione Suhrkamp del 1988 ed è stato tradotto da Simona Venturi (ed. Bollati Beringhieri del medesimo anno) e aggiornato da Giuseppe Girimonti Greco. A impreziosire ulteriormente il volume, che reca anche testi non compresi nell’edizione dei Plaisirs o non pubblicati dall’autore, le riproduzioni delle belle illustrazioni di Lemaire e degli spartiti di Hahn.

L’attento lavoro dei curatori consente così al lettore di immergersi nella lettura di un’opera di notevole interesse, su cui si dispone di un’ampia bibliografia critica. L’ossatura è costituita da tre lunghe novelle; nella prima, La morte di Baldassarre Silvande, si avvertono influssi di von Hofmannsthal e Tolstoj e compare subito il tema della vicinanza alla morte come occasione per sperimentare momenti di vita autentica. Spicca, tra l’altro, il finale in cui affiora, al momento del trapasso, la memoria “involontaria”, come sottolineato da Bertini nell’Introduzione. Il secondo testo più corposo è la Confessione di una fanciulla, da leggersi in stretta relazione con Prima di notte, pubblicato in rivista e di fatto non ricompreso nel volume dei Plaisirs. In quest’ultimo faceva capolino l’elemento dell’omosessualità femminile che si coglie essere stato dissimulato nella Confessione, in cui il momento di piacere in cui la protagonista appare cristallizzata, nel rimorso che la conduce al tentato suicidio, è invece di carattere eterosessuale ed è un piacere sordo, quasi animalesco. Significativo il riaffiorare del motivo della malattia, in stretta connessione con la riflessione sulla dedizione affettuosa della figura materna; si tratta di un elemento che – secondo quanto già evidenziato – era comparso nella dedica a Heath, con precisa matrice autobiografica.

 La fine della gelosia, infine, in un’efficace alternanza di punti di vista, segue il gramignare del tarlo della gelosia sino al suo evaporare alla morte del protagonista. È in quel momento che il sentimento d’amore viene contemplato con lontanante e inesorabile distacco; se il pensiero di Françoise infedele aveva ossessionato Honoré, ora lui si rendeva conto che in quell’istante “non l’amava più del medico, delle vecchie parenti, dei domestici, e non l’amava nemmeno in modo diverso. Ed era quella la fine della sua gelosia”.

Al di là dei tre testi portanti, l’intera opera è uno scrigno di gemme. Proust apprezzava meno i Frammenti di commedia italiana, ma di fatto si tratta di bozzetti di fulminea icasticità e di grande arguzia, che squadernano la vanità dello snobismo imperante e gli infiniti paradossi della commedia umana. Spicca Le amanti di Fabrizio, con la ricerca di un femminino che non trova corrispondenza nella realtà; quanto più l’uomo si avvicina al proprio ideale tanto più risulta inadeguato ad esso (penso alla terza donna cui si accosta il protagonista). E che dire de Le amiche della contessa Mirto, in cui la dama in questione, snob e ambiziosa, detesta Doride perché diviene per lei specchio della sua stessa mediocrità? O di Contro la franchezza, che svela la fallacia delle maschere sociali? Paradossali, poi, ma vere (se si considera lo specifico punto di vista delle due donne) sono le risposte di Eldemone e Adelgisa a Ercole: un Ercole contemporaneo che si rapporta al genere femminile con fatica ben maggiore di quella esperita dall’omonimo mitologico nelle mitiche prove.

Fortemente significativa è la componente metaletteraria, che non si rivela solo negli eserghi e nelle molteplici citazioni ma anche in geniali prove di riscrittura, come la ripresa dei flaubertiana Bouvard e Pécuchet. In essa, come segnala il commento, probabilmente conobbero eco le conversazioni tra Proust e il già citato Hahn, con le loro predilezioni e/o idiosincrasie musicali.

La presenza nel volume anche di testi non ricompresi nei Plaisirs consente di inferire elementi di notevole interesse sull’arte di Proust. Un caso emblematico è rappresentato dalla Malinconia villeggiatura di Madame de Breyves, in cui assistiamo all’insorgere dell’ossessione amorosa della raffinata protagonista per un uomo ordinario, quasi volgare, come monsieur de Laléande. Una passione inspiegabile se non per le condizioni che finiscono col rendere inappagabile il desiderio della donna di trovarsi a tu per tu con Laléande. Significativi elementi di confronto con questo testo emergono in L’indifferente, che non a caso trovò spazio su “La vie contemporaine” del 1896 ma non nella princeps dei Plaisirs.

Insomma, I piaceri e i giorni sono un volume godibilissimo, per la finezza della costruzione dei singoli testi, per la grazia elegante e l’intensità dello stile, per la qualità dell’approfondimento psicologico dei personaggi, ben effigiati anche con pochi tratti. Il lettore amante dello scrittore francese potrà cercare tra le pieghe dei Plaisirs il sorgere di motivi poi ripresi e approfonditi nella Recherche. Potrà però anche delibare la bellezza di testi anche brevissimi come il Ricordo di un capitano, pubblicato solo nel novembre 1952, su Le Figaro littérarie. Esso racconta il riaffiorare nella memoria di un gioco di sguardi tra un capitano in abiti civili e un giovane brigadiere, intento in apparenza alla lettura e artefice sul militare di una silenziosa seduzione che genera euforia. È la nostalgica e incantevole istantanea di un momento di grazia, elegia di ciò che sarebbe potuto accadere se solo il caso avesse mescolato diversamente le carte. Piccolo gioiello a suggello di un incontro “dolce eppure un po’ triste, per via del suo mistero e della sua incompiutezza”.

L’età della rovina


Recensione a Francesco Tronci, L’età della rovina, Il ramo e la foglia edizioni, Roma 2022, Euro 18.

In copertina : Antonio Toni Salmaso, “Piccoli soli”, acrilico su tela, anno 2020.

L’età della rovina è il romanzo d’esordio di Francesco Tronci e si configura senz’altro come un’opera in grado di attirare l’interesse del lettore e della critica. Di certo la più calzante definizione di questo testo è stata data dall’autore stesso in un’intervista resa all’editore: “Il romanzo riproduce (…) una realtà facilmente riconoscibile da un lettore occidentale, ma la adagia in un’inquietante vaghezza, quasi una storia senza storia di una famiglia senza nomi e così tutti gli altri personaggi nel testo, riconoscibili e individuati dalla loro funzione o non funzione sociale” (https://www.ilramoelafogliaedizioni.it/notizia.asp?IdNotizia=630).

L’età della rovina è un’opera allegorica che delinea un ritratto impietoso dell’epoca in cui “un’irresistibile ascesa della mediocrità travolse ogni cosa”. A ben considerare, non si tratta di un’opera distopica perché radiografa il presente. La prospettiva non appare applicabile solo all’Italia; il romanzo, nelle sue angosciate inquietudini esistenziali, diviene “specchio riflettente la realtà degli ultimi decenni di ‘fine della storia’, secondo dinamiche che hanno riguardato tutte le società occidentali”.

A muovere i suoi passi incerti nell’età della rovina è il protagonista. Non a caso Tronci lo rende un senzanome e lo qualifica attraverso il suo essere “aspirante” perennemente in cerca di un ubi consistam che pare essergli negato. Nella “realtà livellata con parole seducenti”, lui e la sua famiglia sono “senzacasa”. La madre è una lavoratrice senza posa nel settore dell’assistenza agli anziani, eppure il protagonista e i suoi genitori non riescono ad acquistare una casa. Perennemente sommersi dai debiti, aspettano con angoscia l’arrivo dei proprietari degli appartamenti da cui saranno sistematicamente sfrattati con insultante disprezzo.

 L’aspirante prende parte a colloqui di lavoro, si illude per un temporaneo impiego per l’associazione degli architetti, frequenta le riunioni del Partito del progresso – cui si contrappone quello della Sicurezza (lo slogan di quest’ultimo è Libertà per la ricchezza e ordine tra gli ultimi!). Nonostante gli sforzi del protagonista, il lettore ha tuttavia perennemente l’impressione ch’egli stia ballando il rigodon, che, come scriveva Céline, « si balla su un motivo a due tempi, sul posto, senza andare avanti né indietro, né di lato.» Ad acuire questa percezione è anche la tecnica narrativa di Tronci. In essa infatti frequenti sono le analessi, per cui, navigando nel romanzo, hai non di rado l’impressione di esser ritornato al punto di partenza o addirittura di non esserti mosso affatto.

Un tempo della stasi, insomma, di cui l’ipostasi diviene la calura insoffribile dell’estate di uno degli ultimi capitoli, in cui l’ennesima dimora, prima gelida, assurge a trappola calorifera in cui avanzare rigorosamente a piedi nudi.

Molti sono gli aspetti vincenti del romanzo. Innanzitutto la vaghezza che connota l’età della rovina e le sue istituzioni, così come la più volte evocata “Prospettiva del Sottosopra” o gli acronimi quali SOA (Sistema delle Opinioni Autorevoli). L’autore scioglie quest’ultimo solo alla prima citazione, il lettore dimentica cosa significhi (o almeno è ciò ch’è successo al Giano bifronte, un po’ smemorato), per cui alla fine il ricorrere del termine SOA finisce quasi col colorirsi di un je ne sais quoi di metafisico. Il SOA si fonda, peraltro, sulle Opinioni Autorevoli e di fatto il lettore finisce con il convincersi che qualunque punto di vista sia dai personaggi ritenuto meritevole di attenzione all’infuori di quello del protagonista. L’aspirante, infatti, è costantemente impantanato nella vischiosa palude dell’oratoria altrui e nessuno dei suoi interlocutori – dalla combattente al libidinoso ministro dell’incipit – sembra avere la bontà di prestargli realmente ascolto. È insomma una storia di frustrazione quella narrata nell’Età della rovina, in linea con il modo ironico di cui scriveva Frye; in essa, hai la percezione di assistere al lento e inesorabile logorio di un’esistenza carica di promesse. È l’esistenza di tante generazioni che hanno avuto la sfortuna di muovere i loro passi decisivi nel mondo a ridosso – e poi all’interno – del momento a partire dal quale la mediocrità ha cominciato a celebrare il suo trionfo.

Parliamo dell’età dell’ipocrisia di un life long learning che finisce con lo sponsorizzare vuoti “supercorsi”, del tutto privi di consistenza culturale ma necessari per tentare di dire la propria in un mondo del lavoro sempre più asfittico. “Supercorsi” che finiscono col tagliar fuori da ogni prospettiva chiunque non abbia il danaro per finanziarseli o la volontà di sottoporsi all’ennesima sagra dell’ovvietà.

L’età della contesa perenne, del discorso sofistico che si fa strada sporcando la verità (ma esisterà mai quest’ultima?). Non è certo heideggeriana la Streit che va in onda ogni martedì nell’età della rovina. In essa non vale il principio per cui “Im Streit trägt jedes das andere über sich hinaus”. Il contendente non conduce l’altro al di sopra di ciò ch’esso è. Ciascuno, infatti, rimane esattamente ciò che era, è e sarà. Il progresso e la sicurezza resteranno viventi solo nelle denominazioni di queste partes portatrici di vacua e fumosa verbosità.

Dall’età della rovina è bandita la gentilezza. Ogni atto di cortesia determina il prodursi di un debito che deve essere immediatamente sanato, pena la vulnerabilità. Ci si interessa al proprio vicino al mero scopo di dedurne informazioni che possano tornare utili o aiutare nell’identificazione di potenziali pericoli.

È il tempo dei privilegiati da un “familismo” amorale e da un clientelismo fetido: ecco perché essa celebra “di continuo la centralità sociale della famiglia, scrigno dei più alti valori individuali, e il più alto valore familiare tra tutti era la capacità di spesa”. Chi non detiene tale “valore” non ha alcun diritto a essere ammantato del“l’aura epica dei diseredati del XX secolo”; di questi ultimi, l’aspirante e i suoi genitori finiscono con l’incarnare gli “eredi sbagliati che hanno perso l’ultima corsa del benessere diffuso prima che questo si arrestasse”. Ecco pertanto che per loro l’unica legittima attesa è quella dell’ufficiale giudiziario o del padrone-Dio che li sfratta, locatari indegni quali sono. Non c’è solidarietà per loro; anche le associazioni caritative legate al contesto parrocchiale s’ergono a tribunali giudicanti, strumenti della perpetrazione di un potere subdolo e umiliante legato all’assistenzialismo.

Si avverte un continuo senso di spossamento in quest’opera che colpisce anche per lo stile curato, ora asciutto ora oratorio, a tratti lirico; si pensi a passaggi come questo: “Fermare la luce di luglio imperiale al termine del giorno, quando il mulinello solare iniziava a sbiadire e avvolgeva le cose in un chiarore tiepido e impalpabile, avrebbe forse dischiuso il segreto della sua perpetua vigilia” (p. 251). Una radiografia della contemporaneità, in cui finisci per condividere la frustrazione e la rabbia dell’aspirante, nella piena consapevolezza che il rappresentato, per quanto possa apparire assurdo (e forse proprio in quanto tale), è lucidamente e inesorabilmente rispondente a Verità.

Tempo d’opera


Recensione ad Alberto Toni, Tempo d’opera, a cura di Roberto Deidier, Il ramo e la foglia edizioni, Roma 2022, Euro 13 (in copertina riproduzione di Niente storie, olio su tela di Enrico Luzzi, 1993).

Tempo d’opera, volume postumo dello scrittore romano Alberto Toni, è un bellissimo libro di poesia, “viatico e testamento”, come scrive Roberto Deidier nell’Introduzione. Curatore del testo è stato Deidier stesso, che illustra i criteri di edizione nella Nota al testo a chiusura del volume. Quest’ultimo è costituito dai testi presenti “in un file in formato Word, denominato ‘Nuove poesie 2018-2019’”, cui Toni lavorava al momento della sua morte nel 2019. Il titolo era suggerito nel file stesso e la presenza di un occhiello “Tempo 1” lasciava intuire la volontà di una ripartizione in sezioni che di fatto non è stata condotta a compimento dall’autore. Deidier, infatti, precisa come il materiale versasse “in una fase progettuale; non embrionale, ma ancora non del tutto stabilita e soprattutto senza alcuna proiezione editoriale”. Il curatore ha operato nel pieno rispetto dello stato testuale, provvedendo principalmente alla correzione dei refusi e operando altri, discreti, interventi segnalati nella Nota al testo.

Deidier, coadiuvato nella “revisione del testo e nella correzione delle bozze” da Patrizia La Via, moglie del poeta, ci ha così offerto una significativa occasione di bellezza e di meditazione. La raccolta ha una sua unità tutta racchiusa nel sommesso ritmo interiore dei testi. Si pensi, per esempio, alla connessione tra Senti, i cani abbaiano, ma tu già dormi che conosce un’ideale continuazione (in linea con l’explicit della “lingua che passa e schiude lingue diverse”) nel dialogo con il merlo, il tordo sassello e la cincia del testo successivo. Ad essi è a sua volta legata la poesia che si apre con Ma anche il paradosso della veglia; dalla veglia, infatti, era nato il tentativo di decifrazione del linguaggio dei cani e non è ozioso segnalare che “l’estate della betulla” della poesia successiva è “un buon inizio nella veglia”. È lo stato di veglia a lasciar cogliere le ombre e le penombre di cui è popolata l’apertura della silloge: le “infinite ombre” in cui “frana e si sfalda” la luce e che pullulano nella mente e nel cuore dell’uomo che si percepisce all’occaso. Uomo che riesce ad auscultare la vita silenziosa degli oggetti, che spia le creature del suo giardino e traduce in poesia purissima l’esistere arboricolo.

È una poesia robusta, tutta innervata di pensiero, quella di Toni, che sussume Platone come Leopardi, mentre medita sul passo fuggevole e leggero di un esistere di cui l’autore percepiva allora, e ti fa percepire nell’allure dei suoi versi, tutta la bellezza. Lo fa con levità struggente, con l’intensa grazia di un’onda musicale scaturita dall’anima, che ti avvolge e ti conduce con sé. È l’onda di quel “dolce dolore” che chiamano malinconia.

Non è un libro per tutti; bisogna avere la pazienza di esplicitare i riferimenti culturali che si annidano in ogni testo, in un gioco intellettuale estremamente stimolante. Man mano che il lettore si addentra nell’enciclopedia dell’autore, i tesori del suo spirito gli si disvelano.  Questo avviene a partire dall’incipit, in cui, sin dal primo verso, Toni si riallaccia a una tradizione che dal petrarchesco Voi che ascoltate conduce all’attacco – terribile e maestoso (ma chi lo ricorda più in una società in cui l’arroganza dei fascistelli è tornata di moda?) – del leviano Shemà. Toni guarda spesso il mondo attraverso il filtro dell’arte e della letteratura e ti esplicita com’esse stesse – sì – siano vita. Vita profonda, dai colori smaglianti, dalle mille lacerazioni e contraddizioni. Perché i cretti di Alberto Burri sono come i kavafisiani Lestrigoni che ciascuno porta nel proprio cuore; figure colte in istantanee, alberi o uomini?, riproducono pose, che sono attitudini esistenziali, di sculture di Attardi o Giacometti o di dipinti di Guccione; il silenzio del giardino sembra riecheggiare del tempo sospeso e stregato del “cold hill’s side” della Belle dame sans merci di John Keats. Il dialogo con la propria Musa ha mellificato il Montale di Ho tanta fede in te (cui si allude in più testi), ma per acquisire una tonalità del tutto peculiare.

La poesia diventa dunque forma della Vita; i testi possono nascere da occasioni quotidiane, ma anche da eserghi o contemplazioni di dipinti o sculture che con l’esistere divengono un tutt’uno. Il poeta, il giardino, gli alberi, le opere d’arte, i Tu con cui egli dialoga – sia la Musa amata, Patrizia, siano i sodales poeti o siano le ombre, “il viso caro / che perdiamo” – sono voci e strumenti che si stagliano in una raffinata e struggente polifonia. Canto elevato a un “mistero antico” e alla “casa antica” dell’Essere (non è casuale la ricorrenza dell’aggettivo “antico”, Leitmotiv di un’opera che ha l’incedere della Gradiva) in cui ciascuno di noi viene alla luce pur in parte celandosi. Straniare gli oggetti, la cui “vita” “sta tutta nel pensiero che li fa vivere”; cogliere, come voleva Char, l’accadere delle Cose, preludio a inattese e fugaci epifanie (“L’incantamento è finito e chiusa la porta sul nostro infinito?”); resistere al latrato di Cerbero e tentare la fortuna cercando “il frutto nuovo” “Tra qualche ramo secco” nel giardino (il motivo dei rami è ricorrente in tutta la raccolta). Sono questi i doni ed è questo il fascinoso mistero di una Poesia che ti fa intravedere la luce di un’anima senza tutto svelare. “Va bene, dico, se su noi restano frammenti, la vita, insomma”.

SENZA TEMA! Poesie coraggiosamente atematiche


Recensione ad AA.VV., SENZA TEMA! Poesie coraggiosamente atematiche –Antologia a cura di Pietro Pancamo–, Edizioni Simple, Macerata 2022.

È una proposta interessante quest’antologia SENZA TEMA! Poesie coraggiosamente atematiche, curata dal poeta e critico Pietro Pancamo, editor professionista. Il titolo allude alla volontà di respingere la moda delle antologie tematiche. Il volume raccoglie voci, tra cui anche il curatore stesso, molto diverse ma ben armonizzate, caratterizzate dalla meditazione esistenziale, non priva di ironia, e dalla tensione a una scrittura comunicativa, non oscura per il lettore. Ogni sezione, dedicata a un autore o a un’autrice, è introdotta da una nota critica di Pancamo.

Si apre con Kikai, “specializzata in montaggio video e regia” presso l’Accademia di Brera. La sua scrittura ha tratti di angelicismo (emblematica, in tal direzione La ballata dell’angelo) e si connota per un valido connubio tra slancio verticale e senso della materia. I legami della fisicità emergono con il loro corollario di odori e gravami, ma all’improvviso sulla caduta e sui pesi della “carne del mondo” prevale la capacità di proiettarsi “Oltre i cancelli del tempo”. “Dentro qualcosa che non so. / Più grande di me.” Dal punto di vista tecnico, Kikai tende al verso lungo; alcuni componimenti possono essere classificati quali prose liriche. Si avverte fortemente l’impronta delle culture orientali, ma non mancano rinvii alla letteratura europea; certi momenti, infatti, risuonano di echi rimbaudiani o baudelairiani. “I luoghi restano? / Santuari pietrificati, sembrano addormentati; / respirano […], come animali mansueti, che ci hanno amato.”

La seconda sezione è costituita dai testi di Angela Lombardozzi, “già membro fondatore del ‘Lyric Group Vuoto3’ e paroliere della cantante Consuelo Orsingher”. Emerge subito la tensione al volo in Ali, con il bell’incipit: “Ho una poesia sulla lingua / Il petto batte / Ma non trovo le ali”. Germogliano versi evocativi come questi della poesia già citata: “Folle! Folle è l’uomo che tesse / la sua più grande virtù / Un ponte di salvezza / Un filo instabile di luce e precipizio”. In Provaci la complessità dell’essere umano e la sua irriducibilità a un’immagine unitaria trova il suggello nell’invito a guardare nell’interiorità “tra lanterne e tane”. Emerge tra gli altri il motivo del filo, quel tanto di bellezza che resta nel diluvio e che ci aiuta a muoverci nel labirinto; Leitmotiv è ancora la luce, che può essere quella del sole, di una lanterna, di una lama o di un segnale salvifico che aiuti a superare i limiti.

Seguono le poesie di Tommaso Mendolesi, che “ha insegnato presso gli atenei di Limoges, Catania, Verona e Milano”. Rispetto alla riflessione sulla pandemia di Bambina e bolle di sapone, i suoi versi ci sembrano esprimersi in maniera più felice quando Meldolesi pennella paesaggi interiori (è il caso del bel Reggerà l’orizzonte il tuo fardello) o rivolge il suo sguardo a scenari in cui le nubi e la nebbia divengono numi tutelari di smorte solitudini che paiono inghiottite dalla Natura. Non è nemmeno un caso che il primo testo della sua sezione si apra con il riaffiorare “Dalla nebbia degli anni” di memorie col loro carico di nostalgia.

Molto interessante ci sembra l’esperienza di Pietro Pancamo. L’autore si esprime con perizia nel frammento (Aeroplano) ma anche in testi brevi dall’allure surreale come In incognito. Di quest’ultimo piace l’incipit (“Dormo in incognito / per non farmi riconoscere dagli incubi”), ma colpisce anche l’assimilazione degli incubi a talpe con “un paio d’occhi / larghi e fotofobici”, intente a scavare “nell’aria”. Ben riuscite ancora la gnome perplessa di Filosofia e l’ironia del poeta che contempla “l’interessante morte / antologica permanente / delle mie speranze / migliori” (Morte antologica permanente). Pancamo mostra di sapersi ben destreggiare anche con il verso lungo di testi come Verande d’azzurro di cui segnaliamo ancora una volta l’incipit e poi versi come “Canicola di gioia, tanfo d’allegria / negli sguardi ciclopici del solo occhio giornaliero” o “Tachicardia di vento nei vestiti: il vento, cuore del cielo…”

Chiude l’antologia Fabio Sebastiani, “attualmente conduttore di programmi web-radiofonici”. Torna nuovamente il motivo delle ali (TRA ALI DI FOLLA SENZ’ALI è il titolo del primo testo), ma piuttosto per negare le possibilità di volo dell’uomo. Bella l’immagine di quest’ultimo considerato quale “ostacolo / alla caduta provvidenziale”, pronto a negarsi “al perdono che l’universo gli offre.” Sostanzialmente quella di Sebastiani è una reazione al tempo dell’inautenticità, alle alchimie asfittiche ed escludenti del potere, nella ricerca di un nuovo umanesimo che ci salvi. Nascono così testi come il convincente Ci salverà il disumano “Quello che serra le labbra / in punta di parola / sputa il puro nulla negli occhi / e fino in fondo”. Eppure, se son venute meno le ali (il concetto torna in La terza guerra mondiale), forse le mani potranno fare le loro veci (Guardandoci le mani). E se anche non atterreranno mai nel loro covare sogni, saranno strumento del farsi della parola poetica. Il ribadire con forza il fare di quest’ultima “come il crogiuolo delle stelle / fa la notte” è un’ottima conclusione di sezione e di raccolta.

Se non salverà il Mondo (inutile illudersi di porgere salvezza a ciò che non ha alcun interesse né qualsivoglia tensione alla salvazione e corre inesorabilmente verso l’implodere nella propria nullità), la poesia aiuterà chi è in grado di accoglierla e percepirla a ritrovare una dimensione interiore e uno spazio di autenticità nella schizofrenia assoluta e nell’idiozia largamente prevalente che ci circondano.

Geografie emozionali


Recensione a Giuseppina Carminucci, Geografie emozionali, lidea, Roma 2022.

Geografie emozionali è la raccolta d’esordio di Giusy Carminucci e si articola in tre sezioni, ciascuna dotata di un accessus curato dall’autrice stessa, che fornisce una chiave di volta per accostarsi alle diverse parti della silloge.

Si apre con “Atopia”, in cui, partendo dall’idea ch’essa sia la “qualità posseduta da alcuni tipi di spazio non facilmente definibili”, l’autrice si spinge a considerare la poesia stessa quale scaturigine dell’“individuo atopico”, “puro”, capace di costituire “nuove collettività” muovendo dalla sua peculiare esperienza. Si prosegue con “Mappe”, che vive dell’abbinamento di un colore a ogni testo: Carminucci infatti stabilisce una relazione tra la qualità dell’emozione e il cromatismo che ad essa le appare correlato. Si conclude con gli “Scenari”, dagli interni della “stanza da letto” al Mezzogiorno d’Italia, dai teatri di guerra agli “universi / dell’infinito”, con la chiusa sull’intenzione di “cucire / delle “pences” / sulle viscere / della terra”, di Un tessuto che si sfrangia.

Emergono due fattori tipici della poesia di Carminucci. Il primo è una vena che gioca a mostrarsi naïve e che si esplica nella filastrocca (Filastrocca della continuità), nel riuso della rima, anche in una forma paragonabile a quella di uno straniato cantastorie popolareggiante (vedi Blattspitz) o ancora nella musicalità immediata, quasi martellante, di Dimmi. A questa componente di apparente naïveté si può ricondurre anche la sperimentazione di alcune tra le mappe. Un divertissement sono anche la Poesia “Cassaforte” – che congiunge più media – e le Poesie “e viceversa”, nelle quali però (penso, per esempio, a Voglia di infinito) trova espressione anche la tensione metafisica dell’autrice.

È una poesia quella di Carminucci che – a nostro avviso – conosce la sua espressione più felice non nel frammento (con l’eccezione di Comunque lo si giudichi, non a caso scelto per la quarta di copertina), ma nella lucida riflessione esistenziale (ci riferiamo ancora al testo appena citato, “Comunque lo si giudichi / Visto da qualsiasi altezza / Il potere di un sentimento / è specializzato in condizionamenti”) o nel dialogo con un Tu, di cui a tratti l’assenza appare bruciante. Questo è il secondo elemento caratteristico della scrittura della poetessa. Nasce così La penna sul foglio, fondata su una similitudine che si fa sussurro, a cominciare dal delicato incipit: “La penna / Sul foglio / non fa / rumore”. O ancora Visibilità Zero che si chiude su una bella immagine di caduta e frustrazione dalle “montagne di illusioni”: “Anche tu / Ci sei cascato / Su questa buccia di malinconia / E ti sei rotto il cuore”. L’incedere dialogico connota anche Il seme, che vive di momenti come questa limpida dichiarazione di unicità (“non sei il solo / ad interessarsi all’ambiente / ma / per me / l’unico”) o il finale che si scioglie in preghiera: “Non lacerarmi / il tessuto del cuore / nel giorno / in cui / il vento soffierà”. E poi segnaliamo ancora singole immagini come quella del bimbo che “gioca e cerca / la ragione di una storia” (Paesaggio) o dell’anziano signore che “lentamente conta / tutti i sassi / che l’hanno bloccato / o l’hanno spinto / verso l’infinito” (Dimmi). È forse proprio in questo intreccio di incanto e disincanto, di geometriche guerre tra basi e altezze a celare ben altri conflitti, di cadute che si trasformano in occasioni di volo che si nasconde la chiave di queste Geografie emozionali. Non è un caso che, in copertina, l’autrice abbia scelto l’innesto, nel contesto dell’aridità del deserto, di una sorta di (labirintica) scala di Giacobbe che conduce al cielo, quasi a confondersi con le migrazioni di nubi.

Dark 5M


Recensione ad A. Nanni, Dark 5M, Scatole Parlanti, Viterbo 2022, Euro 14.

Dark 5M è senz’altro un titolo calzante per il noir di Andrea Nanni, recentemente edito da Scatole Parlanti nella Collana Voci.

Si tratta infatti di un avvincente viaggio nelle tenebre del Dark Web; come si legge nella Notte dell’Autore, “Secondo le statistiche il 95% di quello che avviene in queste reti oscure è di natura illegale, come commercio di sostanze stupefacenti, pedopornografia, vendita di armi o peggio. (…) Inoltre, sempre secondo gli esperti, si stima anche che il dark web occupi circa il 90% di tutta la rete mondiale, quindi ciò che viene mostrato a un utente comune navigando su piattaforme come Google pare corrisponda solo al 10% della rete reale esistente.”

Non stupisce che, in quest’opera in amebeo tra Livorno e il capoluogo dell’Emilia-Romagna, l’atmosfera privilegiata dall’autore bolognese sia quella notturna, con l’insonnia a tessere le trame dei personaggi principali della vicenda. È l’insonnia di Manuel a favorire la scoperta degli insoliti messaggi che la sua compagna, Chiara, riceve di notte su Whatsapp. Nell’atmosfera domestica, nella sonnolenza di una relazione non caratterizzata da peculiare passione quanto più che altro da una ricerca di stabilità, piomba un elemento che dischiude all’unheimlich. Tradimento o qualche più oscura trama coinvolge questa figura, che reca la claritas nel nome, ma nelle tenebre potrebbe celare un terribile segreto?

“Era sempre stata una ragazza sincera, dolce, quasi ingenua in senso positivo; (…) Forse inconsciamente avevo scelto lei perché per me valevano molto di più la serenità e la mancanza di dubbi, probabilmente infatti non ne ero mai stato davvero innamorato.” Quella che al protagonista maschile appariva l’ordinarietà quietante di Chiara si tinge di mistero ed ecco il suo ricorso a Mercy, vestale del dark web. Non sarà un caso che Mercy in inglese abbia significato di “misericordia” e anche di “grazia”. Comincia così la detection della donna e ha inizio all’insegna dell’inquietudine per lei, perché – complice la segnalazione dell’“amico” Luca – l’uomo ha del tutto bypassato le regole dei frequentatori delle dark net, contattando Mercy tramite la sua “e-mail personale e privatissima” e facendole percepire subito una sensazione di pericolo.

L’opera ha una struttura abbastanza uniforme, con l’alternanza di brevi capitoli che rappresentano una sorta di dialogo a distanza tra il cliente e la detective; in tale schematizzazione a un capitolo con Manuel narratore interno ne segue uno raccontato da Mercy e ciò favorisce un’alternanza di visioni del reale che ben si contrappuntano. Successivamente la prospettiva si allarga ed ecco che subentra la voce di un narratore esterno che ne “La Montagnola” ci introduce in una delle “principali piazze di spaccio di eroina”, seguendo – con lo sguardo – due inquietanti creature, per poi assumere il punto di vista di un altro personaggio, Murat, mantenuto per ben nove capitoli. In questa sezione, centrale, si assiste pertanto a un racconto in terza persona con focalizzazione interna.

In un girotondo d’anime inquiete, a poco a poco i contorni della vicenda si chiarificano, complici anche alcuni interventi imprevedibili. Tra questi segnaliamo il ruolo di Miranda, il gatto di Mercy, al quale Nanni ha affidato un curioso spunto citazionista. Il felino ha infatti lo stesso nome della diafana e bellissima protagonista del romanzo Picnic at Hanging Rock di Joan Lindsay e dell’omonimo film di Peter Weir; con lei, del resto, condivide il ‘vizio’ d’essere creatura sparente. “Pensai fosse nella sua fase di Hanging Rock giornaliero, scomparsa da qualche parte in quel labirinto di rocce australiane ma poi la tro­vai in cucina a giocare indiavolata con una pallina da tennis gialla”. Questo particolare assumerà narratologicamente valore metonimico, secondo quanto subito può intuire il lettore smaliziato. “Faticosamente riuscii a prendergliela e vidi che non si trattava di un disegno ma di due lettere, esattamente sui due lati opposti: L e M, scritti con un pennarello rosso. Già, ancora la M.  Sembrava un cattivo scherzo del destino più che una coincidenza.” Così, in questa storia in cui abbondano le M, a rivelarsi risolutivo sarà un viaggio di Mercy; quest’ultimo motivo, del resto, attraversa l’intera opera. C’è il viaggio di Murat, nelle intenzioni salvifico nella realtà perturbante; ci sono i suoi spostamenti verso Livorno per la sua ‘febbrile’ attività; c’è l’inchiesta di Mercy nelle tenebre del dark web, che la condurrà a Bologna per ben due volte, l’ultima – imprevedibile – a cercare “tra monumenti e angeli di marmo” le vestigia di “un mistero perso nel vuoto per sempre”. Perché ogni itinerario nell’umana miseria e oscurità cela approdi impensati e inesprimibili, proprio come in questo romanzo che spinge il lettore, pagina dopo pagina, a voler colmare con Mercy le lacune nelle tessere di un sinistro mosaico.

Cant’arsi


Recensione a L. Diomede, Cant’arsi, con postfazione di P. Briganti, consulta librieprogetti, Reggio Emilia 2022, Euro 12.50.

Il culto della parola e della ricerca – come ben osserva Polo Briganti nella bella postfazione –  di “‘frasi e incisi di un canto salutare’, per dirla con Mario Luzi”, si manifesta nella silloge Cant’arsi di Lucia Diomede già nella polisemia del titolo.

“Cant’arsi” come ‘cantare ardendo’ (si pensi, a tal proposito, allo “scrivere ardendo” di Gaspara Stampa) o “canti arsi”, “bruciati nell’arsione esistenziale”… Cant’arsi come cantare sé stessi (“scrivo piangendo (…) me”, dichiarava Isabella Morra in I fieri assalti di crudel Fortuna), ma anche quale ammiccamento alla “catarsi” che la poesia può rappresentare per i suoi cultori. E “arsi” è ancora misura ritmica contrapposta alla “tesi”, in un ideale ricondursi dell’autrice al verlainiano “De la Musique Avant Toute Chose…”, imperativo ben chiaro e ben caro a Diomede.

È subito evidente al lettore – anche al meno smaliziato – quanto ci si trovi dinanzi a una poetessa che attribuisce un peso notevole ai valori fonici della parola e della poesia. Non stupisce pertanto la ricchezza di assonanze, consonanze, bisticci e non di rado il ricorrere di rime mai banali, perché figlie di una musica interiore, di un tempo sospeso in cui amore e dolore si fondono e confondono in attitudine melancolica e sognante.

Emerge quale dominante il tema dell’attesa, non a caso declinato nella terzina incipitaria (Stare in attesa), cui segue il trittico dello Stare, in cui possono coesistere – in forma tutt’altro che scontata – ossimori della tradizione (“amore amaro / di sale”) e anglismi in fine verso (il richiamo a “skype”). Colpisce lo zoomorfismo che connota la raccolta. In linea con il paesaggio mediterraneo di una “terra di mare / meridionale” affiora presto l’icona delle cicale che al sole cantano “i versi dell’arsura”. Queste ultime figurano in un componimento in cui si fa strada – accanto all’onnipresente attesa – l’idea della prigionia, nell’evocazione dei concetti di sepoltura, clausura, cattura e anche nell’ulteriore riferimento al mondo animale della “sarda sotto /sale”. L’andamento è a tratti fluido, a tratti volutamente perplesso, come sottolinea – nel caso or ora citato – l’inarcatura che separa il termine con valore di preposizione dal sostantivo di riferimento. In altri testi saranno poi rappresentate Formiche in rammemorazione di strofe leopardiane della Ginestra; e poi Passeri in bilico “sui cavi elettrici” “su sfondo plumbeo / di nuove nuvole”. Un sostare – il loro – sull’orlo dell’abisso come gli ungarettiani soldati. A cantare l’attesa quale condizione ontologica l’autrice associa gli umani, in Aspettiamo, a un mulo, a un gatto, a un cane che attende una carezza ma teme la sferza, e poi a un frutto di melagrana (e il pensiero corre a Proserpina) quasi marcescente. Il movimento sembra condurre verso la distruzione, con l’eccezione – forse – del cogitare nella ricerca di “continenti nuovi / tra i pensieri”.

Eppure proprio l’aspirazione a un movimento avvolgente, che abbracci ogni cosa come l’occhio di Dio, genera testi intensi quali Nuvole e quello che a nostro avviso rimane il componimento migliore, Cosa prova la pioggia. Condotta con pregevole senso del ritmo e poetico stupore, l’identificazione nella precipitazione atmosferica apparentemente indifferente a tutto, e che pure tutto ora accarezza ora sferza, si chiude sull’immagine della negazione della pioggia e della sua purificante salvezza: “qui ancora non piove / il suolo si caria / catastrofe ordinaria”. Proprio contro quella carie esistenziale si leva ancora con ironia amara il Rappoem o filastrocca da grandi, che nel refrain “Se lo tengano il mondo” esprime la volontà di marcare le distanze rispetto a un esistere in cui il danaro sia (e purtroppo è) elemento dominante con gli amari “corollari” di demenza e “profondo cinismo”: “solo un puntino di mondo / domando, per ragionare / con gatti, passeri, fiori”… È la fede nell’idea che la poesia – a patto che sia sussurrata laddove tutti urlano, perché più limpida risuoni la sua voce – possa ancora incidere e farsi strumento salvifico; così la raccolta si scioglie in laica preghiera alla parola affinché miri a ‘varcare la notte’ e ‘vincerla’, o almeno a opporle resistenza. Perché essa divenga voce cosmica, capace di esprimere e suscitare entusiasmi, è necessario che si spogli del narcisismo imperante e s’apra al dono raro dell’empatia: “disfati del tuo fiato, / fatti respiro altrui”.

Carestia sentimentale


Recensione a P. Dall’Argine, Carestia sentimentale. Lettere dal fronte, Scatole parlanti, Viterbo 2022, Euro 15.

Carestia sentimentale è un’interessante romanzo della scrittrice Patrizia Dall’Argine, che tratteggia con levità e umorismo il bilancio sentimentale (e al contempo esistenziale) della quarantenne Ester, finendo col lumeggiare le vite di altri suoi coetanei “cresciuti nella bassa, sotto l’influenza del fiume e della nebbia”. Figure, quali Sebastian, la cugina Carlo, Lela, Clara e Anna – le amiche inossidabili – che “esattamente come lei, cercano la loro strada”.

L’opera presenta un punto di vista decisamente in soggettiva, interamente focalizzata com’è sulla prospettiva di Ester, che racconta in prima persona.

 I capitoli più squisitamente narrativi si alternano a lettere che costituiscono il punto di forza del romanzo. Sono dieci per l’esattezza, tutte indirizzate a destinatari maschili: l’ultimo è ideale (“supera il sogno, diventa reale, sopravvivi e vienimi a cercare”), gli altri concreti. Sono gli uomini in cui Ester si è imbattuta nell’arco dei suoi ultimi dieci anni di vita, in un percorso rispetto al quale così dichiarerà al proprio analista Ennio: “Nessuno ha potuto sfamarmi. Non ho potuto sfamare nessuno”. Su tutti spicca il personaggio soprannominato Fiele. A lui sono dedicate ben tre lettere, a cominciare da quella incipitaria, molto ben costruita, stilisticamente tra le migliori. Lettera che si conclude con quest’appassionata domanda rivolta all’amante, che vive “col cuore staccato dal corpo”: “Non lo vedi che siamo noi Giove e i suoi anelli?” e con una rivendicazione ch’è quasi parenesi a vivere intensamente (“Che siamo la galassia, l’espansione, il mistero”). Il cerchio della relazione con Fiele si concluderà nella lettera settima, intitolata non a caso “l’ultima”, in cui Ester darà vita a una spietata disamina della sua relazione con l’uomo che si tradurrà, peraltro, in lucida autoanalisi. La vicenda di Fiele verrà letta sub specie Narcisi, con l’individuazione nel personaggio mitico di un’“incapacità irremovibile al sentimento”, cui però è strettamente connessa l’“ostinazione letale” all’autodistruzione che connota Eco, nella quale Ester si identifica. “Non è il tuo vuoto che cercavo di colmare, restando. È il mio”.

La tendenza all’autoanalisi attraversa l’intero tessuto del romanzo e finisce con l’ipostatizzarsi nella presenza dell’analista Ennio. L’invito alla scrittura – di sveviana memoria – conosce una sua esplicazione nel capitolo La fine della carestia, momento chiave nell’ordito della vicenda, perché da esso si avvia il percorso di risalita di Ester, già balenato nel liberatorio rituale di Brucia, stronzo, dopo la lettera n. 7. La fine della carestia è tra l’altro interessante, perché – attraverso la voce di Ester – Dall’Argine offre un accessus autoriale all’architettura dell’intero romanzo. Romanzo ch’è anche un inno all’amicizia, oltre che alla vita.

Se, infatti, le relazioni sentimentali sono adombrate nella metafora della carestia, il sodalizio amicale tra donne – come per esempio in Clara Sereni – passa attraverso l’elemento alimentare. Le sfide nella preparazione e nella presentazione di cibi tra Ester e le sue amiche rappresentano un’allegra trovata per prendersi cura le une delle altre, nonché dei rispettivi affetti. In questi momenti della narrazione (e in capitoli come In mutande), si avverte anche l’attenzione di Dall’Argine al mondo televisivo; ci è parso, infatti, di ravvisare atmosfere che richiamano serie ormai cult come Sex and the City oppure Ally McBeal. La sua esperienza teatrale emerge invece nell’allure monologante e nel pathos delle lettere, soprattutto alcune. Notevole è la cura lessicale, che si traduce, nelle declinazioni dell’ideale militia amoris di Ester, anche nell’uso di termini di linguaggi settoriali, quali il disopercolare dell’apicoltura, ambito di pertinenza del personaggio di Fiele.

Un altro elemento ci colpisce; Carestia sentimentale è un romanzo umoristico e cosmopolita, che dagli scenari italiani ci conduce in Spagna, nella portoghese Madeira e ancora in Argentina e c’è finanche un finale vagheggiamento di Ubud, cittadina dell’isola indonesiana di Bali. Il viaggio assume valore esperienziale; s’imprime spesso nella memoria come momento di irripetibile felicità (penso al capitolo sul bedmate), eppure – orazianamente – non vale a placare l’inquietudine del cuore. Per quest’ultima è necessaria una cura di sé che passa attraverso atti quali l’“innaffiare le piante” o comprare un ombrello. Il primo è metafora della tensione alla restituzione di linfa al nostro esistere, il secondo della volontà di attraversare l’indispensabile dolore con quegli strumenti che ci aiutino a non lasciarcene annientare.

L’altra metà del dubbio


Recensione a L. Paciello, L’altra metà del dubbio, con prefazione a cura di G. Di Maggio, Porto Seguro, Borghetto Lodigiano 2022, Euro 15.50.

L’altra metà del dubbio di Luigi Paciello è un romanzo che affronta con levità e con sguardo tutt’altro che superficiale il complesso tema del benessere e della salute mentale dell’individuo.

L’opera, nel Prologo, si apre su un momento topico, in cui il protagonista, Alfredo, giunto a una svolta decisiva, si concede una sveviana “ultima sigaretta”. Un’analessi ci consente poi di recuperare l’antefatto, riconducendoci infine al fotogramma da cui la narrazione aveva preso le mosse.

A determinare la profonda crisi di Alfredo sarà la combinazione della visione televisiva (portato della contemporaneità) di un film d’argomento biblico, quindi con riferimento alla Genesi, e poi di un documentario sulla teoria del Big Bang. L’indecidibilità rispetto alle due visioni e la creduta inconciliabilità delle stesse saranno gli elementi che alimenteranno un irrequieto lavorio mentale nel protagonista. Arrovellarsi che gradualmente si trasformerà in una lenta consunzione psichica, un edere cor suum, per prendere in prestito un’espressione ciceroniana. Alfredo comincerà a mettere in discussione i pilastri del suo esistere, a cominciare dall’ormai prossimo matrimonio con Allegra sino a giungere a un volontario isolamento dal consesso umano. Non anticipiamo al lettore come si andrà a concludere la sua vicenda.

L’altra metà del dubbio è un libro interessante. Non è privo di difetti; avrebbe necessitato di un maggiore editing per la punteggiatura, che appare spesso prevalentemente intonativa, o ancora per l’aderenza al parlato – peraltro anche un pregio del romanzo –, la quale talvolta porta all’insistenza eccessiva su alcuni intercalari in funzione mimetica. Penso, per esempio, alla costante frequenza di espressioni come “cazzo”, un po’ troppo presente, sebbene per esigenze di realismo.

 Il romanzo è peraltro godibile e costruito con intelligenza. Inizialmente ti ritrovi in atmosfere degne di una sit com; in maniera leggera vengono trattati temi come l’erosione della fede religiosa, il vivere inautentico, il logorio alienante della nostra epoca. Ti sembra di assistere alle innocue sequenze in cui si rappresentano, con l’intento di sorriderne bonariamente, gli scenari frustrazione di un inetto. Personaggio per il quale il lettore è immediatamente portato a nutrire simpatia, senza rendersi subito conto (ed è un effetto voluto) del fatto che si tratta di un narratore del tutto inattendibile. Paciello ha infatti scelto di adottare un narratore interno, per cui l’intera vicenda è raccontata secondo la prospettiva di Alfredo. Ci troviamo pertanto dinanzi a una soggettiva simil-cinematografica condotta alle conseguenze estreme; è solo gradatamente che il lettore percepisce con effetto di straniamento quanto l’agire del protagonista sia incongruo e stralunato. Momento di svolta è infatti quello in cui Alfredo ruba un cagnolino per recarsi a corteggiare la bella veterinaria Valeria, mostrando di vivere ormai in un mondo fatto a propria esclusiva misura, senza più alcun addentellato con la realtà. Alla crescente presa di distanze subentra poi un diverso senso di compartecipazione, che nasce perché il lettore è poi indotto ad accostarsi con movimento empatico al destino dell’infelice giovane.

Così facendo Paciello mostra come subdolamente si manifestino le patologie mentali e quanto esse diano luogo a un’escalation di azioni incoerenti che, se non adeguatamente bilanciate, possono anche, talora in maniera del tutto causale, portare a conseguenze tragiche.

L’autore, che si dedica con timbro interessante anche alla scrittura poetica, riesce a incuriosire il lettore, ad avvincerlo, a indurlo a meditare, spesso anche a divertirlo nel delineare la varia umanità che gravita intorno al piccolo centro in cui vive Luigi. Una sorta di coro paesano, infatti, accompagna e commenta le sue vicende; il lettore incontra così diversi personaggi, ciascuno con le proprie piccole e grandi manie e, talora, l’inveterata abitudine (si veda lo zio Carmine) a convivere con le infelicità che l’esistere determina. L’altra metà del dubbio è insomma un’opera che sembra esortare a ricercare il benessere che non nasce necessariamente dall’inanellare vittorie personali e sociali, ma dalla capacità di accettare le proprie fragilità e quelle altrui per poi cercare di sostenersi nei momenti bui del vivere.

Il Battista


Recensione ad A. Santoliquido, Il Battista The Baptist, presentazione di E. Catalano, traduzione di J.M. Wing, disegni di M. Damiani, Nemapress edizioni, Roma 2022, Euro 12.

È approdato alle stampe, a più di vent’anni dalla sua rappresentazione nel corso di una Cavalcata storica a Mesagne nell’Epifania 1999, il testo teatrale Il Battista di Anna Santoliquido.

La pubblicazione presenta l’introduzione di quello che, “su iniziativa meritoria della Pro Loco di Mesagne”, fu il promotore e regista dell’opera, il professor Ettore Catalano, allora docente presso l’Università di Bari e poi presso l’Università del Salento (protagonisti della messinscena furono Vito Signorile e Tina Tempesta). Nella Presentazione dell’opera, lo studioso e scrittore evidenzia come l’autrice, Anna Santoliquido, sia riuscita a “mescolare (…) la concentrata altezza della dizione poetica e la necessità della comunicazione teatrale”, costruendo “atmosfere di grande e lunare bellezza, alternate a squarci di solare evidenza”. Il volume, bilingue come spesso le pubblicazioni di Santoliquido, anglista, presenta la traduzione in lingua inglese di Janet Mary Wing ed è impreziosito dalla ruvida e stralunata bellezza dei disegni dell’artista Michele Damiani.

La sacra rappresentazione, per esigenze sceniche, è condensata in due atti in cui si staglia nitidamente la figura del profeta, il Battista, scolpita in punta di penna da Santoliquido. L’opera appare in linea con lo stile poetico della scrittrice, il cui dettato appare riconoscibile soprattutto nella bellezza dei corali. Nella voce “incrinata dal pianto” di Giovanni, la cui prima battuta è “Signore, io cerco la regola, l’armonia”, sembra di udire riecheggiare quella ch’è l’aspirazione di chiunque coltivi assiduamente la ricerca poetica.

La paratassi domina nettamente l’ordito della pièce, dando l’impressione di una parola che si distende nitidamente in canto, senza inutili orpelli. È come se la scrittrice volesse additarci la Poesia come limpida voce del Sacro, sempre più faticosamente strappata all’afasia cui rischia di condannarla un mondo in cui il Male metafisico parrebbe prevalere. È un po’ la parola di una moderna Sibilla; del resto, Santoliquido, in uno dei suoi testi più suggestivi, Incontri, scriveva: “è l’angelo a portarmi le parole / le lascia nei vasi rotti / il vento le disperde / ed è per questo che erro”. Non è infatti casuale che nelle prime due scene del Battista intervengano angeli a rassicurare il Battista, facendosi portatori di un’aura luminosa sfolgorante; non è nemmeno un caso che, in una sua raccolta, Anna Santoliquido si sia rappresentata come Profetesha, in un processo di rispecchiamento nella figura evangelica di cui porta il nome (Luca, 2,36-38).

L’autrice è molto attenta alle didascalie, in cui fornisce anche indicazioni circa l’illuminazione scenica; per esempio, la Scena seconda è connotata dai colori del tramonto e questo non stupisce perché prelude al culmine della missione del Battista prefiguratore del Messia, culmine che sarà accompagnato – nella scena successiva – dalla consapevolezza dal Profeta espressa in queste parole: “Io ho percorso la strada e mi ridurrò fino a scomparire”. Non meraviglia di conseguenza come l’apparizione del Cristo lungo le rive del fiume Giordano veda “La scena (…) illuminata a giorno”. Livida e tetra è l’atmosfera della fortezza di Macheronte, in cui si consuma l’ebbrezza dionisiaca della danza di Salomè, figura cui spetta un’unica battuta (la richiesta della testa del Battista) e che vive di fatto tutta nella “convulsione” di un ballo ben altro che salvifico e negli ammiccamenti di una sensualità ferina.

È nel Battista fortemente vivido il senso della Natura tipico della Santoliquido poeta, qualità che l’ha portata ad affrontare tematiche legate al lento martirio dell’oìkos in opere come l’ispirata Ofiura. La Natura è controcanto continuo dell’azione dell’uomo; reca in sé un senso di dolcezza, di purificazione, di bellezza. Il Coro, nell’inneggiare alla forza che genera il confidente abbandono a Dio, ricorre a immagini desunte dai cicli dell’agricoltura: “L’uva nasce dalla vite e la fede dall’intimo”. La disfatta della Giustizia nell’incarcerazione del Battista è espressa con l’icona del tuono che “ha bussato al cuore degli uomini”; il risultato è che la Natura contempla l’iniquità in un silenzio che sembra traboccare d’orrore: “L’alloro e la formica hanno udito. La luce lotta con le tenebre e il fuoco ormai divampa”. Eppure è la Natura a tributare il proprio omaggio al Profeta ridotto al silenzio: “Gli oceani, i fiumi e i corsi d’acqua intonano nenie al Battista”. Sono questi ultimi, ancor prima che il coro che pure riesce a riconoscere negli occhi di quella “testa mozza” il Paradiso, a ‘benedire per sempre’ “il fiore del deserto” e a cullarne il sonno.