
Recensione a D.R. Colacrai, Della stessa sostanza dei padri. Poesie al maschile, Santa Maria Nuova (An) 2021, Euro 10,45.
Fu una questione che tra il III e il IV secolo d.C. divampò nella cristianità. Gesù era stato generato o creato; era della stessa sostanza del padre oppure da ritenersi a lui non consustanziale e quindi subordinato? La dottrina di Ario fu dichiarata eretica e la professione di fede della liturgia cristiana, il simbolo niceno-costantinopolitano, recita che il Cristo è stato “generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”.
Ci piace partire da questa considerazione per riflettere sul libro di poesie di Davide Rocco Colacrai, a nostro avviso bellissimo, intitolato Della stessa sostanza dei padri. Poesie al maschile. Non il “Padre”, Dio, ma “i padri”, quella generazione che rigetta i figli perché marchiati dallo stigma delle più varie diversità e, quindi, non consustanziali. Si tratta di padri biologici come quello di Minchia di mare di Belluardo, genitori di giovani uomini nei quali non si riconoscono e che finiscono con il disprezzare, o magari del consesso dei patres, depositari di un’ideale di mascolinità e di umanità dogmaticamente imposto, troppo dediti a schiacciare ogni forma di alterità per soffermarsi ad ascoltare il grido di dolore, così come il canto d’amore.
Colacrai compie un atto di straordinaria pietas, che rende la sua scrittura una nitida espressione di poesia “civile” e, per effetto di un intensa partecipazione emotiva e di un innato senso della misura, la salva dal facile rischio di ricadere in una retorica sterile. Quella che infatti il poeta effettua è un’immersione nell’interiorità di una serie di anime vinte dalla vita e violate da una società indegna. Un’immersione da cui riemerge con parole d’amore e di speranza, modulate in un canto comunicativo e al contempo in un dettato sorvegliato e compatto, senza cadute di stile. Al lettore resta la percezione che non ci sia azione più intrinsecamente “sociale” di quella che rivela la luce interiore di un’umanità dai diritti conculcati; una luce talmente abbagliante da far obliterare il verbo della violenza che la ha annichilita e da mantener viva, in chi legge, la fede che qualcosa di bello e puro possa albergare nell’uomo. “Marcélo crede nei sogni, negli eroi che non si manifestano / se non a sorpresa”.
Della stessa sostanza dei padri è un chiaro esempio di come è ancora possibile che la poesia germogli dalla letteratura e dalla storia, due domini che nella silloge si fondono e confondono al punto che quasi non riesci più a distinguerli. Forse perché la letteratura dà voce ai drammi e ai traumi della storia e dell’uomo (ma anche alla ‘chiarità’ che si fa strada nell’ombra): così il protagonista del romanzo di Angela Nanetti o la Rosalinda Sprint di Patroni Griffi non sono meno reali dei triangoli rosa morti nei campi di concentramento, di Reinaldo Arenas o del Baris Yazgi “sposo senza promessa e senza vestito”. Tutti figure di un’umanità che si percepisce nata dall’altra parte della barricata.
Una sorta di Leitmotiv della raccolta è il motivo della “stortura”, che ricorre con varie declinazioni: l’“amore storto” di Francesco; “l’asse storto del mio tramonto” di Nic Sheff; il “soffitto storto dell’uomo che sono” di Hawking e che dire del “corpo da garofano sbilenco”, in parte citazione, della Fata di Lemebel? Affine a tale motivo è quello del ripiegamento, che trova il suo correlativo oggettivo nel guscio di conchiglia.
Aleggia un senso straniante di solitudine nelle parole di questi personaggi a cui Colacrai dà voce in prima persona, perché, in questo processo di spossessione e riappropriazione, sembra quasi che percepisca in ciascuno di essi un frammento di sé. Ognuno pare misurare il dolore in ogni centimetro del proprio corpo offeso, a volte jacoponicamente “sdenodato” dai chiodi di una croce ora reale ora metaforica. Ne deriva un frequente processo di cristificazione delle figure cantate, che raggiunge l’apice nel verso “Sono un Cristo che ha per croce un violino” (dedicato a Baris Yazgi), ma vibra con vigore anche nella “croce bagnata di liquido amniotico, senza la benedizione della luna” di Jude, l’“amico morto di pioggia”. Interlocutrice costante nella raccolta appare la Luna, ma in questo canto al maschile affiora frequentemente la presenza delle madri, che al satellite della Terra ci sembrano non di rado idealmente accostate (un caso emblematico è il testo dedicato all’Elias di Robert Schneider). Anche a loro tocca la sorte di “mordere” il tempo dell’attesa.
Compito del poeta è allora distillare il dolore e farne grazia di canto, nell’attesa di un miracolo che forse non si compirà (“Credo nei miracoli, un po’ meno nel mio corpo da garofano sbilenco”), perché è nella forza della speranza ( nelle “fate / che curano quei sogni / che sono prossimi a spegnersi /e impediscono all’oscurità di aprirsi a ragnatela / e inghiottirci”) o magari è già in atto, senza che possiamo coglierne l’essenza, nella “bellezza delle imperfezioni”, altro motivo conduttore della silloge. È proprio quest’ultima a far apparire il Wonder di Palacio “leggero come un assolo di grano” (immagine che ci colpisce per senso dell’armonia) e a trasformare il labirinto in “condominio di santi” o le “pecore nere” in angeli. Del resto a noi le efelidi paiono macchie (e il Giano bifronte ne sa qualcosa), ma chi ci dice che le stelle, le meravigliose stelle che rendono il cielo notturno meno amaro, non siano “le efelidi di Dio”?