Un luogo giusto in cui morire


Recensione a G. Benassi, Un luogo giusto in cui morire, L’Erudita, Roma 2022, Euro 19.

Che ci sia “un tempo per nascere e un tempo per morire” non è nuovo; basta leggere Qohelet 3,2… Che però la cosa si possa estendere al concetto di luogo, che esistano luoghi giusti e luoghi ingiusti per il trapasso è un motivo che percorre in maniera ora evidente ora sottocutanea l’accattivante noir di Giuseppe Benassi.

Un luogo giusto in cui morire è una nuova avventura dell’avvocato Borrani o, semmai, nel caso specifico, dovremmo parlare di ‘disavventura’. Attendendo un antipatico collega da accogliere nelle vesti di conferenziere, un “trombone” – così viene definito nell’adozione del punto di vista di Borrani –, l’avvocato si trova, suo malgrado, a dover usufruire dei bagni della stazione ferroviaria. La sequenza è costruita da Benassi col preciso intento di evocare una scena di squallore, in cui emergono le manie – piccole e grandi – del protagonista. Borrani infatti evita di toccare qualunque oggetto, persino di lavarsi le mani, in preda a una sorta di fobia da contaminazione. Eppure, nella “latrina fetida”, ode strani rumori provenire dalle porte chiuse nelle vicinanze e non sarà così con particolare sorpresa che nei giorni successivi apprenderà la notizia di un delitto avvenuto in quel bagno pubblico. Compreso d’essere stato testimone degli eventi, l’avvocato, detective dilettante, comincerà così a indagare sulla morte del giovane, sventurato, Nado Leri, per poi scoprire che anche lo sgradevole penalista che aveva accolto quel giorno è – coincidenza oppure no? – anche lui deceduto. Collegherà, per una serie di coincidenze, la figura di Leri all’asta per l’acquisizione di un vecchio casolare a Pomarance, connessa alla scomparsa di tale Bondi. Deciso a investigare – e peraltro seccato di esser finito addirittura tra i sospettati – acquisterà la casa di Pomarance, intenzionato a trasferirvisi, tutto sommato colto anche da un’improvvisa propensione per la quiete campestre. Inutile dire che la dimora riserverà curiose sorprese…

Un luogo giusto in cui morire si lascia leggere con vero diletto. Accanto alla capacità di suscitare curiosità in relazione all’enigma del gabinetto e del casolare, il romanzo si fa apprezzare per il senso dell’umorismo dell’autore, per la sua capacità di costruire figure nevrotiche, sopra le righe, eppure umanissime nei loro tic e nelle loro fragilità e aspirazioni. La scrittura è scorrevole, mimetica a tratti; non manca al lavoro di Benassi un’allure ragionativa. In ogni capitolo, come se fossero effetti di un fermoimmagine, lo scrittore innesta pause narrative e lascia scorrere i pensieri di Borrani e soprattutto i suoi interrogativi. Domande di senso, disvelamento di aspetti paradossali del reale, ipotesi – anche balzane – prendono corpo in quegli istanti in cui il fluire degli eventi pare momentaneamente interrompersi.

Questa caratteristica, del resto, sembra in linea con l’indole di Borrani, una sorta di cultore del tempo cairologico, della propensione a cogliere l’occasio. Egli farà in qualche modo sua l’aspirazione di uno dei personaggi, come se con la sua morte Leri avesse trasferito nell’involontario testimone degli eventi il suo più grande desiderio: trovare un posto giusto per vivere e, al momento opportuno, anche per morire…

Numerose le citazioni, con Benassi che sembra quasi divertirsi a richiamare topoi e situazioni di celebri gialli per calarle in un contesto più dimesso, sebbene non privo di inquietudini. Un classico è, per esempio, l’esistenza di un particolare che il detective non riesce a mettere a fuoco: “Sì, forse c’era qualcosa che la prima volta aveva visto senza farci troppo caso, senza che quel certo particolare (ma quale?) gli si fosse impresso nella mente”. Siamo, infatti, di fronte a un motivo canonico del giallo all’italiana, soprattutto cinematografico: basti citare, a tal proposito, due capolavori argentiani, L’uccello dalle piume di cristallo e Profondo rosso, con Tony Musante e David Hemmings ad arrovellarsi per il dettaglio nebuloso. Anche la villa con delitto, con teschio per la precisione (N.B.: non stiamo svelando niente perché questo dettaglio è sulle alette di copertina), è elemento decisamente di prassi. Chi non ricorda la Villa del Bambino Urlante ancora in Profondo rosso o il terrificante casale di Gianni Garko e Jennifer O’ Neill in Sette note in nero? Si potrebbe quasi dire che acquistare una dimora campestre, nel contesto di un giallo o di un noir, sia una sorta di atto di hybris: come minimo ci si deve aspettare di essere puniti (o premiati, dipende dai punti di vista) col ritrovamento di uno scheletro o parti anatomiche di corpi umani. E se celebre titolo di Crispino era L’etrusco uccide ancora, ecco che tra memorie catulliane e reminiscenze di sarcofagi  del Museo Guarnacci di Volterra, Benassi ci regala un enigmatico obesus etruscus, che tra l’altro compare dormiente per poi destarsi in un’atmosfera ai confini tra l’horror e il grottesco (“Finalmente i pensieri di Borrani s’interruppero: l’obesus etruscus aveva spalancato gli occhi”). Un “ragazzo triste”, per citare Patty Pravo, la cui musica ha un effetto non irrilevante nella psiche di alcuni personaggi, come l’aveva nel Delitti e profumi diretto da Vittorio De Sisti (1988).

Un’avventura che comincia “In un pomeriggio piovoso di fine novembre” per finire che “La primavera era scoppiata. A Pomarance i fiori spandevano aromi dai prati e dagli alberi”. Su un’operosità che – complice la “morosa” di Benassi, l’arguta Messori – sembra voler mettere in fuga “i topi e i fantasmi che infestavano il casolare” si chiude il romanzo. Resta tuttavia l’impressione che forse lo scoglio più duro da superare sia proprio la melancolia di chi non riesce a concretizzare il proprio “pensiero stupendo”. “Si potrebbe trattare di bisogno d’amore”?

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