La variabile umana


Recensione a E. Stragapede, La variabile umana, LiberAria, Bari 2022, Euro 12.

La variabile umana di Elisabetta Stragapede è uno sguardo lucido e disincantato, mai giudicante, su una varia umanità. Umanità in cui il lettore stesso finisce in qualche modo con il riconoscersi, perché – come evidenzia Anna Toscano nella Postfazione –, “questi versi non parlano di qualcuno o di qualcosa di generico, ma parlano di te e di me, di noi tutti, parlano delle persone e alle persone, e lo fanno con l’accuratezza e la grazia di chi ha un’impellenza nel dire e il suo dire si fa poesia”.

Con ironia Stragapede assume a impalcatura il formulario del celebre gioco “Nomi, cose e città”… Il primo sguardo è rivolto al “troglodita del Terzo Millennio”, esemplare disponibile in grande abbondanza nel nostro Paese, “analfabeta funzionale / numero votante”, dedito a stordirsi con un riso ch’è tutt’altro che avvertimento del comico, ma piuttosto assimilabile al celebre risus abundans in ore stultorum. Tale riso destituito d’intelligenza, e quindi insegna di abbrutimento, e una totale dedizione al ventre sembrano la condizione ideale per l’abdicazione all’interesse verso l’oìkos comune: “mentre ridi e t’ingozzi / da qualche parte / si spartiscono l’umanità”.

Poi c’è tutto un mondo di vinti, gente che sembra affiorare dai “sotterranei della storia”, quali Antonio delle Buste, declinazione dell’icona del filosofante folle, o Gina. Nell’evocazione di questa figura emerge un senso di dolente pietas: “Quando sei tornata / al ventre silenzioso / la neve era ancora un’ipotesi / e il sole resisteva alla luce”. In Celeno la fatica dell’esistere affiora attraverso l’immaginario gorgoneo, ma anche grazie a una petrosità viva nel “puzzo di paludati gesti”, nelle “bocche molli”, negli “obtorti colli” che ammiccano alla celebre locuzione. Nel movimento della prima sezione della silloge, Stragapede restituisce voce anche a Delia, la celebre donna di Ostuni, morta nell’ultimo stadio di una gravidanza in cui resterà cristallizzata, come se fosse la sua stessa condizione esistenziale. Eppure, se chi ora è racchiusa in una “teca di cristallo” sperava pascalianamente di perpetuare un’umanità che fosse una “canna pensante”, dobbiamo ritenere che la sua aspirazione sia stata tragicamente tradita, non solo nella sua maternità infranta ma nell’insensato andare del genere umano stesso. “Quando abbiamo abitato lo sbaglio?”, si chiede Stragapede, infatti, in un altro componimento, il già citato Gina.

Non a caso, nella seconda sezione, Stragapede asserisce perentoriamente, in riferimento agli uomini: “Vi siete trasfigurati / entità a immagine di Dio”. Eppure questa trasfigurazione appare la hybris di un indiarsi abortito: “il destino / mette sempre una maschera addosso / che punisce, tortura / o ti getta in un fosso” e “L’unica libertà che possediamo / è darsi la morte per propria mano”. Nella seconda parte della silloge prevale un sentire distonico, un tutt’uno con il cemento che si porta via l’incanto, per quanto ruvido, della civiltà contadina; esso procede di pari passo con lo snaturamento del Sud amato, con i suoi paesi “in penombra” e le ore “incartapecorite”. In un’arsura perenne persino la Madonna Ἐλεούσα, madre della tenerezza, sembra partecipe d’un moto di sterilità, un’antipasqua la cui ipostasi è l’“uomo che galleggia nell’acqua di mare”.

Eppure l’uomo continua il suo viaggio, conducesse anche al nulla. Certo, il suo sentire difficilmente sarà sintonico col cosmo: solo improbabilmente egli potrà sentirsi “casa e bottega / arredata con gusto”. E chissà se nel “paniere di Pandora / scoperchiato / da un vento / lungamente covato / divenuto tempesta”, c’è ancora la Speranza… Gli uomini però sono sempre pronti a cercare (bella quest’immagine!) di “risanare / le piaghe che s’incistano nel rumore / sordo delle inquietanti danze”. E la vita prosegue in un tempo che non si sa bene se si possa definire incantato o stregato; tempo di cui la donna è spesso icona violata, etichettata quale strega se sfugge ai lacciuoli o costretta a richiamare “lupommini” “sulla rotonda” da cui non le resta che elevare una preghiera alla “Madre della polvere” perché l’aiuti a volare via.

A chi assiste al triste declino della “variabile umana” non rimane che innalzare “un canto secco / di scorze in gola” oppure lasciare che i pensieri si librino “In mulinelli odorosi”, dando vita a versi interessanti come questi: “Della roverella maestosa / resta l’ombra del canto / il sordo richiamo / del cane che nuvola / intorno al pastore”.

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