
Recensione a F. Innocenzi, Formulario per la presenza, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2022, 8 Euro.
“Questa piccola raccolta è per me un formulario per la presenza, perché ogni verso è una pietra miliare in più verso l’esserci, in me stessa e per me stessa, nel mondo e per il mondo”. Queste parole della Postfazione chiariscono il senso della nuova raccolta di poesie di Francesca Innocenzi, un’autoantologia allestita nel momento in cui l’autrice ha ritenuto che fosse “giunto il tempo della riflessione e della scrematura” e avvertito la necessità di selezionare le liriche incluse in sillogi precedenti che non avessero cessato di suscitare in lei risonanze interiori.
Ne è nata una plaquette di circa venti pagine, con Anna Achmatova in epigrafe a introdurre il motivo dell’aridità, pervasivo all’interno della raccolta.
Se “ogni verso” – come si diceva – è per Innocenzi “una pietra miliare in più verso l’esserci”, in realtà tra gli elementi dominanti si riscontra, nel Formulario, proprio un bruciante senso dell’assenza.
Non a caso in posizione incipitaria si colloca Un ricordo e la prima immagine è quella di “ombre di gatti”. Esse però paiono altro da ciò che sono, in un serpeggiare che le assimila quasi a un’idea di tentazione che si affaccia nel locus amoenus dell’orto. È forse la tentazione di cedere al portato pietrificante dell’asserzione che segue: “Tutto è passato”.
Un senso di fatica traspare nel secondo componimento, in cui alle ortaglie subentra l’immagine della città. Inutile dire come essa non appaia affatto un luogo in cui ci si possa serenamente e dolcemente affidare al mormorio della vita, perché vi si sperimenta semmai il disinganno: “città di mimi e attori / di manicomi e di ospedali / dove noi ci salutammo frodati di risposte / sul gradino di un portone infranto”.
L’ossessione del jadis affiora un po’ dappertutto: “non sono più nuova per te”; l’abito dell’io è assimilato a “una sottoveste” metaforicamente “usurata di silenzi” e dominano il senso della dismissione, del distacco da una condizione precedente che non tornerà. Il motivo del ricordo riaffiora nelle belle terzine d’inverno, con la prima terzina che presenta un movimento efficace: “si essiccavano gerani /al tempo del nostro finto contratto / scaduto. fumo fitto di incensaglie”.
Si affacciano volti di un passato ormai relegato nella dimensione del non essere. Tra questi il cugino Luca, con il quale Innocenzi intesse un lucido dialogo, quasi nella speranza di un’epifania improvvisa (“può succedere che tu accada / al primo stormire del mattino”), di un accadere del vero che possa annullare il confine tra la vita e la morte.
Continua e fitta è la meditazione sul tempo, che si fonde con la querimonia per il suo troppo impetuoso scorrere e per la sua portata rapinosa: “se mai fosse scorso altrimenti / il tempo”, si scrive nel componimento a Luca; poi altrove Innocenzi osserva che è “caduto come miele sul selciato / il tempo” o che “il tempo trascorso è come una foto / dove non sai se guardare o morire”. Nel dialogo con un Tu assente, la cui lontananza si ipostatizza nel telefono spento, la poetessa così confessa: “di questo tempo spoglio sei tu l’evento”. Il tempo, insomma, è il protagonista inesorabile del Formulario; l’anelito a un “istante eterno” di cui non si può che constatare l’utopia. Ne consegue il percepire profumi che giungono da un passato cui si contrappone un vivere arido proprio come “un agosto strano”. Una dimensione in cui tutto sembra congiurare per consegnare l’esistere alla Morte; si consideri in tal direzione Andria-Corato, 12 luglio 2016*: “l’orologio il binario il capotreno / eseguono gli ordini della padrona”. E la padrona è la grande livellatrice.
Pure quello del Formulario non è un canto disperato perché molti sono gli elementi di slancio vitale. Slancio forse fine a sé stesso, sì, ma non per questo meno meritevole di perpetuarsi: “vieni, Ondina / la fiaba che giocavi restò incisa nel sole”, recita uno dei componimenti più intensi che, sempre in linea con quell’allure ragionativa e dialogante di cui si parlava, si chiude efficacemente con “tu dici essere saggio l’immobile orizzonte. / ma io amo la fronda / che scardina il novembre, amo l’ombra che risplende / la rugiada che frantuma”. La vita, nel suo mistero che scorre, è forse tanto simile a quel prato che “sa da sé / quel che deve diventare”; un prato la cui erba non ingiallisce a dispetto dell’arsura.
Il dettato di Innocenzi è comunicativo e non impervio; appare asciutto, privo di fronzoli, sommessa prosecuzione di un carme in amebeo col cuore che rifugge le maiuscole perché la sordina di un’ininterrotta preghiera sembra la dimensione a questa poesia maggiormente connaturata.