Dall’altra parte dell’orizzonte


Recensione a B. Costa, Dall’altra parte dell’orizzonte, Edizione e selezione a cura di Vito Davoli, PellicanoCult, Roma 2022, Euro 10.

Poeta e scrittore di lungo corso, fondatore di Pellicano Libri, Beppe Costa pubblica in questo volume, avvalendosi della curatela di Vito Davoli (che ha operato la selezione), un florilegio delle poesie da lui composte negli ultimi anni. Testi in cui – come evidenzia Davoli – l’autore si presenta “armato di una sincerità disarmante” non meno che nella sua opera a nostro avviso migliore, la trilogia confluita in Romanzo Siciliano. “Irriducibile bambino prigioniero di un corpo consumato e canuto” (Marco Cinque), Costa ti induce a guardare il reale secondo la sua prospettiva, in un percorso dolceamaro come l’esistere dell’uomo.

Dall’altra parte dell’orizzonte si apre sulla dichiarazione di un’aporia; emerge, infatti, l’impossibilità dell’individuo di pervenire a risposte sul senso ultimo dell’essere e su questioni metafisiche: “quel che non so / quel che non sapete / come siete nati / quando saremo morti / il resto si può scoprire / (volendo)”. Tutto ciò che si può conoscere è parte della vita dell’uomo e delle interazioni tra esseri viventi; esso si dischiude allo sguardo per effetto di un atto di volontà. L’andamento dei versi appare quasi perplesso, come se la parola si facesse strada a fatica da una riflessione avviata nel silenzio. Non è un caso che manchi il verbo principale, quello che dovrebbe reggere i pronomi dimostrativi in apertura.

Quasi scaturito dalla riflessione sull’oltre inconoscibile e su quanto celato dall’altra parte dell’orizzonte, il secondo testo è dominato – come altri della raccolta – dal pensiero della morte, che porta l’individuo all’assunzione di pose contratte, a voler quasi occupare il minor spazio possibile, nell’illusione che quell’esiguo spazio non possa essere sottratto. Nel finale, per contrasto, vibra il dono dell’alba, con lo stupore di essere vivi; il senso di stupefazione che ne consegue è l’altro volto della silloge di Costa.

Da un lato assistiamo a una cogitatio mortis permanente (il “possibile traguardo / d’un dolore infinito”, l’“attesa dell’infinita notte”, generatrice di testi quali “quando verrà il giorno di dimenticate cose”). Essa porta a percepire costantemente accanto a sé “il freddo respiro” della livellatrice. D’altro canto, però, Costa dà voce all’ebbrezza di vivere, al desiderio di partecipare ancora, in pienezza, al ballo stralunato dell’esistere. Una delle manifestazioni più intense di vitalità è senz’altro l’amore. Esso è rammemorazione (“mi ritrovo balbettante com’è giusto che sia / un vecchio di cent’anni che crede d’averti vicina”; “qui adesso da questa terra amata rivedo le stelle / ma a che servono se non a ricordarmi i tuoi occhi / e riviverli per sempre”) in un inesausto riordinare cartoline di sé, ma è anche dimensione che si misura nel presente, compensando il dramma del tempo che passa e restituendo linfa a uno spirito mai invecchiato.

È dunque quello di Costa un canzoniere d’amore, ma anche di amara constatazione dei guasti prodotti dall’uomo, dal suo egoismo e dalla sua vanità: scaturiscono così i testi dell’“agra vita”, in cui si arriva persino quasi ad auspicare la scomparsa del genere umano perché possa salvarsi il pianeta. Trovano spazio così la delusione per l’involuzione del secolo breve (“abbiamo seppellito lettere d’amore e altro”) e l’amarezza per quei plutocrati che giocano a scacchi con il futuro della gente comune, per quel trionfo del consumismo contro cui si scagliò Pasolini, per l’ottusità che offusca anche quella dovrebbe essere una terra di elezione, la poesia. Costa ironizza sul narcisismo di quanti “appendono / targhe e diplomi” credendo che i riconoscimenti effimeri in premi letterari (con giurie talora compiacenti) possano garantire un’aura quasi di immortalità. Eppure la poesia può essere ancora il terreno dell’autenticità, soprattutto nel fertile connubio con la Musica (si pensi al testo a Marcos Vinicius); essa è rabbia e protesta di chi coglie che “le strade dell’odio si affollano”; è lotta contro il nulla che avanza. Non a caso, la Morte è “restare immobile e senza più parole”. La poesia per Costa è anche tributo di sodalità, come in ai pochi rimasti, una sorta di ballade du temps jadis in cui rivivono Amelia Rosselli, Goliarda Sapienza, “forse spinta o forse per la nebbia prodotta dal fumo / delle infinite sigarette” precipitata “dalle scale di Gaeta”, e altre figure della nostra letteratura di cui Costa ha incrociato le strade, in quanto operoso animatore culturale.

La poesia di Costa incede in un’aura crepuscolare, senza intellettualismi, attingendo al parlato (“vada a farsi fottere (anche) il canto delizioso / d’uccelli in primavera, ché di questi tempi / le primavere ci hanno detto male”). La sua estraneità alle consorterie intellettualistiche è testimoniata, a livello stilistico, anche dalla totale assenza delle maiuscole a inizio componimento. La mancanza di interpunzione conferisce ai testi un carattere di frammentarietà, quasi fossero lacerti rapiti a un pensiero permanente che si avvolge su sé stesso, si perde e si ritrova per vie scalcinate, per poi colpirti all’improvviso con parole sommesse (“risana questo cuore antico / memore di ricordi che lo hanno traversato”) o riscattare l’insensatezza dominante con un’immagine luminosa. Germoglia così il testo per noi più bello della silloge, posto a suggello della stessa e innestato sulla scia di un topos che ha attraversato l’intera tradizione occidentale, da Mimnermo a Virgilio a Dante, da Leopardi a Giacosa a Ungaretti. Si tratta di una poesia semplice, senza fronzoli, ma che con il vento, e quella foglia che potresti essere proprio tu, ti trasporta libero, per un istante, lontano dalle brutture: “nessuna foglia è triste nel cadere / avrà vita più breve ma finalmente libera / complice il vento viaggia dai Parioli a Testaccio / ma se ha fortuna cambia anche paese e città / talvolta vestita di parole dà luce alla notte”.

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