Baby rosa gang


Recensione a P. Della Mariga, Baby rosa gang, Scatole parlanti, Viterbo 2021, Euro 14.

L’intenso romanzo di Paola Della Mariga dal titolo Baby rosa gang ci introduce nella viscosa atmosfera della periferia milanese all’interno della quale vivono una faticosa adolescenza le quattro protagoniste, Rosaria, Arianna, Betta e Chicca.

Ciascuna di loro alimenta in sé un profondo disagio. Tutte condividono la dimensione dell’insuccesso scolastico, con l’eccezione della brillante Betta, che però appare subito la più ribelle sotto il profilo caratteriale. Rosaria fatica a fare i conti con un corpo obeso, ostacolo al suo desiderio di sentirsi bella e amare, ricambiata. Arianna detesta il padre ubriaco e contesta le scelte della madre, operatrice socio-sanitaria votata al sacrificio; avverte inoltre in sé un senso di distonia rispetto alla società per le spiccate inclinazioni omofile che vorrebbe liberamente assecondare. Chicca è figlia di un pregiudicato, che coinvolge talvolta anche la moglie nelle attività illecite cui è dedito. Betta non sopporta lo stile di vita piccolo-borghese della madre e del suo compagno e si sente invece affascinata dall’aura del padre spostato, peraltro assente dalla scena del romanzo.

Della Mariga segue queste vite allo sbando, che conoscono momenti di luce solo grazie all’amicizia che le lega. Sodalità che peraltro si rivela un’arma a doppio taglio, perché, nei momenti in cui le quattro ragazze si coalizzano, finiscono – soprattutto per sollecitazione della trasgressiva e sventata Betta – con l’abbandonarsi ad atti di microcriminalità. Aggrediscono una coetanea per rubarle un paio di scarpe alla moda che finirà nei navigli, perché, dopo la prodezza, la baby rosa gang scoprirà che la ‘refurtiva’ non s’adatta al piede di nessuna di loro. Accettano di assecondare il desiderio lubrico di alcuni pensionati, per poi – anche in questo caso – rendersi artefici di un furto che a nessuno converrà denunciare. Non mancheranno nel loro caotico calderone atti di bullismo, con corollario di minacce o con l’umiliazione delle vittime di volta in volta designate. Le figure adulte, comprese le assistenti sociali, appaiono del tutto inadeguate ad attuare con loro un’azione incisiva e, anzi, sono esse stesse, il più delle volte, soggette a dinamiche involutive; anche il parroco, che pure cerca di destare le coscienze, sembra in preda alla sensazione di ballare il rigodon, in cui – tra passi avanti e passi indietro – si finisce col restare perennemente fermi nel medesimo punto.

Il romanzo si dispiega attraverso brevi capitoli, in cui la voce narrante interviene, soprattutto a conclusione delle singole ‘avventure’, per interpretare i moventi degli attori delle vicende, senza alcuna intenzione giudicante. Come una sorta di speaker radiofonica (il nostro pensiero, pur con le dovute differenze, è involontariamente corso al Gedeon Burkhard della Radio Tam Tam de La piovra 5), la narratrice assurge a genius loci che ora accarezza ora sferza – ma sempre con dolente pietas – le anime alla deriva di quel microcosmo sbagliato. Tali interventi sono connotati da maggiore pathos, con il prevalere in alcuni casi di una prospettiva quasi lirica e in altri dell’elemento retorico. Il linguaggio delle sezioni dialogate tende invece decisamente alla mimèsi, sino a offrire un saggio, nel capitolo Chat, della scrittura tipica delle conversazioni su whatsapp.

Come in un inchiesta giornalistica, emergono dunque i temi del disagio giovanile, dell’omofilia e della sua percezione sociale, della dipendenza da droghe, delle reazioni a catena innescate da un atto delinquenziale anche minimo, dei condizionamenti che possono indurre all’assunzione di sostanze stupefacenti anche chi non avrebbe mai immaginato di farne uso né in fondo lo desiderava. Su tutti il personaggio più felicemente disegnato dalla penna di Della Mariga ci pare proprio quello di Rosaria, nel contrasto tra l’anelito alla leggerezza e il carico di un corpo percepito quale gravame, tra l’aspirazione alla bellezza e il sentirsene fatalmente esclusa, tra l’attenzione agli altri e la tendenza a trascurare sé stessa. Il lettore ha la sensazione che proprio lei sarebbe stata l’ideale erede dell’unica figura che nel romanzo appare fattivamente salvifica, la madre di Arianna, l’operatrice socio-sanitaria. Il destino, però, avrà altro in serbo per lei…

Eppure colei che non riesce a sciogliersi in danza diverrà ispiratrice del catartico ballo su cui si conclude il romanzo: “quella delle ragazze è la danza del loro tempo, quella che scongiura le iatture, quella che flagella i benpensanti, che onora le amicizie, che consolida le esistenze”. Un gesto quasi apotropaico, insomma, che – nelle intenzioni dell’autrice – connette idealmente quelle giovanissime perennemente sull’orlo di una crisi di nervi alle pietre di scarto delle banlieue di tutto il mondo. In fondo, proprio tra materiali negletti dai costruttori può annidarsi quella (un caso su mille) che, per effetto di un improvviso cambio di rotta, diventa “la pietra d’angolo” [Sal 118,22-23].

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