
Recensione a S. Notaristefano, I nomi di Melba, Manni, Lecce 2022, Euro 20.
Il romanzo I nomi di Melba della scrittrice tarantina Sara Notaristefano è un’opera che si legge con piacere, perché cattura l’interesse sin dalle prime pagine, grazie al dono di uno stile ben curato e di un’ironia caustica, in linea con lo spirito della protagonista.
La storia di Melba e della sua famiglia si sviluppa in amebeo tra la provincia tarantina e Milano; la morte di Donatello, fratello prediletto della ragazza, accentua le conflittualità tra l’io narrante (Notaristefano opta per una narrazione interna per opera della protagonista) e i genitori, così come l’abissale distanza dal primogenito Arcangelo. Il padre di Melba, proprietario di un’azienda agricola e affarista senza scrupoli, è “concreto, burbero e pragmatico”, un “insopportabile intollerante”, figlio di “fascista riciclatosi nella DC” ed erede della mentalità paterna; la madre, Lucrezia, è una donna bellissima e raffinata, decisamente snob, più capace di mostrare affetto agli animali della sua villa che ai figli stessi. A complicare la situazione saranno il rapporto sentimentale di Melba con l’anticonformista Samuele, ballerino, e lo scricchiolio del matrimonio perfetto tra Arcangelo e la modella Gemma. Il dispiegarsi dei conflitti condurrà a una svolta imprevedibile, di cui non anticipiamo nulla, perché il lettore possa gustare pienamente le sorprese che Notaristefano gli ha riservato.
Facciamo invece alcune osservazioni, partendo dal titolo, il cui significato è spiegato a p. 14, quando la protagonista si sofferma sui suoi tre nomi, Melba Luisa Luciana. Se il secondo e il terzo nome mostrano le radici familiari (le nonne) e il loro peso nella vita della ragazza, il primo è il frutto della volontà materna di “scegliere un nome originale, raro, più che prestigioso”. Diviene emblema quindi della tensione a voler suscitare stupore, meraviglia, ammirazione; il nome Melba verrà peraltro rigettato e disprezzato dalla ragazza per le “assonanze con parole disgustose, quali melma o peggio”, ma soprattutto perché ai suoi occhi finisce con il rivelare il becero velleitarismo upper class dei genitori. Un presuntuoso segno di elezione che risuona, a ben vedere, ridicolo. Il titolo, però, si attaglia bene anche al fatto che ogni capitolo è dedicato a un personaggio e introdotto dal suo nome; il libro si apre con Donatello e si chiude con Melba. L’unico a essere identificato non nominalmente è l’amato Samuele: il suo capitolo è annunciato da un eloquente “LUI”. I nomi di Melba sono dunque anche i nomi delle figure che hanno significato, nel bene e nel male, nella sua esistenza.
Quel nome pretenzioso assurge poi a icona di un vero e proprio stato, la “melbità”, un concetto difficilmente definibile, ma che si apparenta a una condizione accidiosa, un vivere da acquario con corollario di senso di sfiducia nelle proprie qualità e possibilità. Melba si convince di essere un’inetta, anche per effetto della vocazione alla poesia; si identifica con Donatello, considerato un fallimento soprattutto dal padre Gian Maria e detesta invece Arcangelo, il figlio perfetto. Anche nel nome di quest’ultimo sembra essere racchiuso un omen; esso riconduce a un’idea di angelicismo, ch’è sociale più che spirituale. Arcangelo è infatti il figlio che si uniforma in tutto e per tutto (almeno nelle intenzioni) alla volontà dei genitori; quello che eredita l’idea paterna della donna come trofeo di bellezza da esibire nelle feste e nelle occasioni mondane. In realtà, l’angelicismo vero è proprio quello dell’altro Lestingi, Donatello, il solo nella famiglia che sembri mettere in atto tentativi di esperire una vita autentica, affidata ancora una volta all’Arte intesa come valore. La tragica fine del giovane produce un vulnus nello spirito di Melba. Proprio mentre pare voler aderire al verbo dell’apparenza declinato dai familiari – sintomatico il fatto che sia condotta a declinare la scrittura nell’ambito dei blog di moda, divenendo un’influencer, professione emblematica della vuotezza della società odierna -, Melba finisce con l’innamorarsi. Non è affatto causale che lei, protesa a declinare il tempo della stasi e quasi priva di slancio vitale, si innamori di un ragazzo perché lo scopre capace di sciogliersi gioiosamente in danza. Paradossalmente, in quel momento Melba diviene decisionista; se prima ci poneva di fronte costantemente agli scenari della sua frustrazione, ora si rende cacciatrice per conquistare Samuele, giovane per alcuni aspetti affine a Donatello. Notaristefano mostra infatti anche attraverso riferimenti al piano onirico il senso di colpa che coglierà la ragazza nel momento in cui, tentando di affidarsi al “dolce rumore della vita”, le parrà di tradire la memoria del fratello.
Eppure nuove insidie sono in agguato; insidie di cui il lettore ha contezza sin dall’incipit, che lascia ben intendere come qualcosa di grave sia successo, per poi affidare all’analessi il racconto in prima persona della vita della ragazza. La seconda parte del romanzo, illuminata da una luce livida, è figlia dell’esplosione improvvisa di un insospettabile (ma solo per il lettore disattento) mina vagante. Costante è il contrasto tra il frenetico vivere dell’ambiente milanese – luogo delle scoperte, delle esperienze, per alcuni della crisi – e il tempo della lentezza, legato alla tendenza della protagonista a fuggire nel buen (non sempre) retiro della masseria materna sulla costa jonica. In quest’ultima la ragazza può adagiarsi in una “melbità” che gradualmente cede il posto al decisionismo, alla capacità, a costo di sofferenze, di prendere in mano le redini della propria vita. Nell’opera sono numerosi i temi che affiorano: lo sfruttamento della manodopera straniera, magari da parte dei medesimi imprenditori rampanti che, forti della ricchezza economica, tuonano contro gli immigrati; il pregiudizio idiota, onnipresente nella nostra società e che colpisce, per esempio, Samuele per il semplice fatto che, uomo, esercita la professione di danzatore; il senso d’inutilità che l’italiano medio (per non dire mediocre) attribuisce all’Arte e alla Poesia; l’incidenza della violenza fisica e psicologica sulle donne, anche negli ambienti delle cosiddette “brave persone”. Un’opera scritta con intelligenza, che, mentre descrive la struggente bellezza del Sud Italia, ne denota la mentalità spesso provinciale, pur rivelando anche il provincialismo non meno gretto e ignorante che caratterizza una fetta ben consistente di individui dell’altra punta dello Stivale. Il tutto con quell’ironia che ti salva dalla rabbia.