Me pudet. Poesie 1994-2017.


Recensione a S. Grasso, Me pudet. Poesie 1994-2017, edizione critica a cura di G. Cascio, Edizioni ETS, Pisa 2019, Archivio Silvana Grasso.

L’edizione critica Me pudet. Poesie 1994-2017, curata da Gandolfo Cascio nell’ambito della Collana “Archivio Silvana Grasso”, fondata e diretta dallo stesso Cascio e da Marco Bardini, consente al lettore di esplorare una sezione quantitativamente minoritaria ma decisamente interessante della produzione della scrittrice nata a Macchia di Giarre. Filologo classico, Silvana Grasso è autrice di racconti, romanzi e pièce teatrali; Me pudet, secondo volume della collana a lei intitolata, è dedicato ai testi poetici, pubblicati “per la prima volta” con un titolo emblematico, che – spiega Cascio – rammenta “la ritrosia e il disagio dell’autrice a esporre la parte più segreta e seducente della sua scrittura”. Si tratta di testi nati spesso in momenti estemporanei, per esempio durante l’assistenza alle verifiche scritte somministrate agli allievi.

Ottime chiavi d’accesso al volume l’introduzione e la postfazione di Gandolfo Cascio, docente di Letteratura italiana presso l’Università di Utrecht, direttore dell’Observatory on Dante Studies. La postfazione dà infatti conto di questioni di ecdotica: i testimoni manoscritti “vanno ritenuti dispersi” (con l’eccezione di P2 e P7), per cui l’edizione è basata sui file word della stessa autrice. Interessante la disomogeneità talora riscontrabile tra i titoli dei file e quelli dei testi in essi contenuti (opportunamente, a nostro avviso, Cascio ha optato per i secondi). Dopo aver ricostruito l’iter editoriale dei non molti testi dati antecedentemente alle stampe (tra questi il più noto è senz’altro Enrichetta sul Corso), lo studioso passa a una disamina stilistico-tematica dei versi di Grasso, individuandone la cifra dominante nella Stilmischung e nella “appartenenza alla cultura ellenistica prima ancora che a quella italiana”. L’esame delle forme metriche, dell’intertestualità e l’esposizione dei temi e dei motivi della poesia di Grasso sono condotti con finezza e acume critico, oltre che con il dono di uno stile elegante e di una scrittura accattivante. Cascio individua anche alcuni schemi costruttivi, esemplificati nella struttura di Fornicazione, testo a nostro avviso geniale. Lo scritto si conclude con una riflessione sul “poeta latitante”, in cui emerge la necessità di dissimulare la tensione alla scrittura poetica in un contesto in cui chi la coltiva “è percepito come uno “strano”, il “babbu (stupido) del paese” , secondo quanto riferiva Grasso stessa al curatore durante una conversazione. Alla luce di questa condizione lo studioso spiega la creazione di alter ego dediti alla poesia nell’opera narrativa e teatrale di Grasso: “ecco svelata la strategia per mettere in atto la personale mitopoiesi: scappare, ma per farsi acchiappare; nascondersi ma per lasciarsi trovare; occultare le proprie poesie inutili e offese”.

È una scrittura poetica di grande interesse quella di Silvana Grasso. Un’autrice in cui conosce piena testimonianza l’inesauribile vitalità della cultura classica. Essa diviene il filtro attraverso il quale leggere la realtà, in una tensione al dionisismo ch’emerge nell’esuberanza rigogliosa di uno stile materico e raffinatissimo anche negli sconfinamenti nel plebeo, così come nella presenza di figure quali la ricorrente icona della Baccante, il dio del vino stesso, Priapo, Sileno e così via. Anche il mito prometeico, con il senso di sfida al mistero metafisico e l’istinto di disobbedienza al divino, è presente, come oggetto di Pirocleptomania, ma anche quale elemento che affiora nel bell’incipit di Jecur (“L’aquila vuole il tuo fegato nero”).

Centrale è poi la figura di Atthis, che fa capolino nell’ennui dell’elenco di Smemoranda (colpisce il fulmen in clausula che riannoda le memorie classiche alla realtà presente), ma anche, ovviamente, nel testo specificamente dedicato al mitico sacerdote di “Cibele / divina”. Atthis, l’“imberbe / fanciullo”, è rappresentazione, cristallizzata nel momento dell’evirazione, di quella che ci sembra una delle componenti chiave del mito personale di Grasso, il παῖς. Ne troviamo traccia in Pedofilia (da intendersi in senso strettamente etimologico), che si chiude con l’immagine del teognideo Cirno; esso affiora poi, con vigore, in Fornicazione. Quest’ultimo è un testo molto interessante, che si pone sulla scia di componimenti ellenistici (penso alle zanzara di Meleagro, per citare uno dei più celebri); in esso, assistiamo alla scena che bene Cascio così riassume: “un granchio va a posarsi sul pube d’un ragazzo nudo quand’egli continua, indifferente, a bere il succo di frutta (di pera)”. L’esito è quello che i versi riportano: “L’assalto al fortino è compiuto / non manca che fulgida insegna / di chela / vessillo fatale sul tenero pene / ferito”. Molti i punti di forza del testo, il quale colpisce per l’inventiva linguistica, che va dall’uso di termini regionali come “muccuso” alle scelte mai scontate suggerite dal gioco di un metaforismo vertiginoso; l’effetto è di grande sensualità ma anche di raffinata ironia (si pensi all’evocazione del “veleno dell’Idra / consunto dall’onda mirtòa”). La poesia di Grasso sa dunque essere carnale ludus, scherzando con l’eros senza infingimenti in una sorta di moderna declinazione dell’erotopaegnion, in cui il granchio diviene doppio dell’autrice. Il ricorso al mito non di rado fa emergere la sproporzione tra i riferimenti colti e l’insignificanza delle situazioni presentate (si veda Inverecunde, in cui il deludente “pasto” amoroso suscita l’invidia di quello che fu “d’Atreo l’allegro banchetto” – e il lettore colto sa quanto sia stato “allegro” per Tieste).

Particolarmente interessante è l’epillio Enrichetta sul Corso, incentrato su una “figura efebica di travestito degli anni Cinquanta” (parole di Marina Castiglione). L’epifania di Enrichetta è delineata con maestria dall’autrice, che riesce, con poche pennellate, a rappresentare il sorgere e il manifestarsi del desiderio maschile, non solo negli sguardi cupidi. Il perenne dispiegarsi dell’istinto sessuale e la violenza gratuita che sfocia nel cruore sono i poli attorno ai quali si sviluppa la rammemorazione di Enrichetta. Il movimento dell’epillio rammenta strutture della tradizione (la pascoliana Digitale purpurea ma anche la montaliana Casa dei doganieri), con il “Ricordi Enrichetta sul Corso?” a fare da refrain, per poi chiudersi, come epigrafe funebre, sul perentorio “RICORDA ENRICHETTA / sul Corso”. Grasso conosce esiti particolarmente felici anche nella poesia d’ispirazione civile, in quanto riesce, senza moralismi o inutile retorica, a far emergere la disumanità di certe situazioni; penso ad Auschwitz 36170866 e al bellissimo dittico sul Pupo niuru.

Il dramma delle morti nel Mediterraneo, uno dei capitoli più controversi della storia del nostro Paese in questo scorcio del nuovo millennio (rispetto al quale la sensibilità di molti sedicenti poeti e intellettuali italiani latita), è espresso con un’icasticità e una forza non comuni. Memorie mitiche, ma anche della letteratura italiana, “menzogne di poeti” e realtà di fatto si fondono nell’epopea disforica del pupo niuru, che approda già cadavere sulle coste italiane, per essere rigettato in mare – anzi, “ruttato”, verbo ricorrente nel testo – da un barbone. Quest’ultimo lo calcia nuovamente in acqua, perché timoroso che l’affioramento del corpo senza vita possa essere respingente per l’umanità alla moda che affolla le spiagge (i corpi “infetteranno l’occhio in festa / di chi fa festa al Mare”), unica speranza di sopravvivenza per il senzatetto. Il lettore è affascinato dal modo in cui la poetessa s’avvale della parola, usando termini come “rugliare”, “ingrottare” o ancora univerbazioni quali “mortannegato” o forme come “sciacquarizzo d’onde che / tamburiano”. Alcuni momenti sono d’efficacia notevole; si pensi all’avvistamento del corpo da parte del barbone. Il lettore osserva la scena coi suoi occhi, segue la delusione che lo coglie quando si accorge che non anelli d’oro od orecchini costituiscono il bottino restituito dalle acque: “Gemme non sono, quel brivido di luce, né / diamanti / fantasmi sono di forestieri del giorno prima. / Occhi sono, / non occhi di Rinaldo né d’Ulisse l’Itacese, venturiero in questo / Mare, di Gela e niuri pupi”. Si consumerà così, per opera di un ultimo a sua volta reietto dalla società, il rifiuto del corpo estraneo da parte della terra sognata. Rifiuto di dare persino sepoltura a un “pupo” ben diverso dai carolingi paladini, un potenziale Ulisse di fatto reificato e più simile a un montaliano “osso di seppia”, ‘inabissato’ “per sudati calci” con l’accompagnamento di una preghiera blasfema.

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