
Recensione a Francesco Tronci, L’età della rovina, Il ramo e la foglia edizioni, Roma 2022, Euro 18.
In copertina : Antonio Toni Salmaso, “Piccoli soli”, acrilico su tela, anno 2020.
L’età della rovina è il romanzo d’esordio di Francesco Tronci e si configura senz’altro come un’opera in grado di attirare l’interesse del lettore e della critica. Di certo la più calzante definizione di questo testo è stata data dall’autore stesso in un’intervista resa all’editore: “Il romanzo riproduce (…) una realtà facilmente riconoscibile da un lettore occidentale, ma la adagia in un’inquietante vaghezza, quasi una storia senza storia di una famiglia senza nomi e così tutti gli altri personaggi nel testo, riconoscibili e individuati dalla loro funzione o non funzione sociale” (https://www.ilramoelafogliaedizioni.it/notizia.asp?IdNotizia=630).
L’età della rovina è un’opera allegorica che delinea un ritratto impietoso dell’epoca in cui “un’irresistibile ascesa della mediocrità travolse ogni cosa”. A ben considerare, non si tratta di un’opera distopica perché radiografa il presente. La prospettiva non appare applicabile solo all’Italia; il romanzo, nelle sue angosciate inquietudini esistenziali, diviene “specchio riflettente la realtà degli ultimi decenni di ‘fine della storia’, secondo dinamiche che hanno riguardato tutte le società occidentali”.
A muovere i suoi passi incerti nell’età della rovina è il protagonista. Non a caso Tronci lo rende un senzanome e lo qualifica attraverso il suo essere “aspirante” perennemente in cerca di un ubi consistam che pare essergli negato. Nella “realtà livellata con parole seducenti”, lui e la sua famiglia sono “senzacasa”. La madre è una lavoratrice senza posa nel settore dell’assistenza agli anziani, eppure il protagonista e i suoi genitori non riescono ad acquistare una casa. Perennemente sommersi dai debiti, aspettano con angoscia l’arrivo dei proprietari degli appartamenti da cui saranno sistematicamente sfrattati con insultante disprezzo.
L’aspirante prende parte a colloqui di lavoro, si illude per un temporaneo impiego per l’associazione degli architetti, frequenta le riunioni del Partito del progresso – cui si contrappone quello della Sicurezza (lo slogan di quest’ultimo è Libertà per la ricchezza e ordine tra gli ultimi!). Nonostante gli sforzi del protagonista, il lettore ha tuttavia perennemente l’impressione ch’egli stia ballando il rigodon, che, come scriveva Céline, « si balla su un motivo a due tempi, sul posto, senza andare avanti né indietro, né di lato.» Ad acuire questa percezione è anche la tecnica narrativa di Tronci. In essa infatti frequenti sono le analessi, per cui, navigando nel romanzo, hai non di rado l’impressione di esser ritornato al punto di partenza o addirittura di non esserti mosso affatto.
Un tempo della stasi, insomma, di cui l’ipostasi diviene la calura insoffribile dell’estate di uno degli ultimi capitoli, in cui l’ennesima dimora, prima gelida, assurge a trappola calorifera in cui avanzare rigorosamente a piedi nudi.
Molti sono gli aspetti vincenti del romanzo. Innanzitutto la vaghezza che connota l’età della rovina e le sue istituzioni, così come la più volte evocata “Prospettiva del Sottosopra” o gli acronimi quali SOA (Sistema delle Opinioni Autorevoli). L’autore scioglie quest’ultimo solo alla prima citazione, il lettore dimentica cosa significhi (o almeno è ciò ch’è successo al Giano bifronte, un po’ smemorato), per cui alla fine il ricorrere del termine SOA finisce quasi col colorirsi di un je ne sais quoi di metafisico. Il SOA si fonda, peraltro, sulle Opinioni Autorevoli e di fatto il lettore finisce con il convincersi che qualunque punto di vista sia dai personaggi ritenuto meritevole di attenzione all’infuori di quello del protagonista. L’aspirante, infatti, è costantemente impantanato nella vischiosa palude dell’oratoria altrui e nessuno dei suoi interlocutori – dalla combattente al libidinoso ministro dell’incipit – sembra avere la bontà di prestargli realmente ascolto. È insomma una storia di frustrazione quella narrata nell’Età della rovina, in linea con il modo ironico di cui scriveva Frye; in essa, hai la percezione di assistere al lento e inesorabile logorio di un’esistenza carica di promesse. È l’esistenza di tante generazioni che hanno avuto la sfortuna di muovere i loro passi decisivi nel mondo a ridosso – e poi all’interno – del momento a partire dal quale la mediocrità ha cominciato a celebrare il suo trionfo.
Parliamo dell’età dell’ipocrisia di un life long learning che finisce con lo sponsorizzare vuoti “supercorsi”, del tutto privi di consistenza culturale ma necessari per tentare di dire la propria in un mondo del lavoro sempre più asfittico. “Supercorsi” che finiscono col tagliar fuori da ogni prospettiva chiunque non abbia il danaro per finanziarseli o la volontà di sottoporsi all’ennesima sagra dell’ovvietà.
L’età della contesa perenne, del discorso sofistico che si fa strada sporcando la verità (ma esisterà mai quest’ultima?). Non è certo heideggeriana la Streit che va in onda ogni martedì nell’età della rovina. In essa non vale il principio per cui “Im Streit trägt jedes das andere über sich hinaus”. Il contendente non conduce l’altro al di sopra di ciò ch’esso è. Ciascuno, infatti, rimane esattamente ciò che era, è e sarà. Il progresso e la sicurezza resteranno viventi solo nelle denominazioni di queste partes portatrici di vacua e fumosa verbosità.
Dall’età della rovina è bandita la gentilezza. Ogni atto di cortesia determina il prodursi di un debito che deve essere immediatamente sanato, pena la vulnerabilità. Ci si interessa al proprio vicino al mero scopo di dedurne informazioni che possano tornare utili o aiutare nell’identificazione di potenziali pericoli.
È il tempo dei privilegiati da un “familismo” amorale e da un clientelismo fetido: ecco perché essa celebra “di continuo la centralità sociale della famiglia, scrigno dei più alti valori individuali, e il più alto valore familiare tra tutti era la capacità di spesa”. Chi non detiene tale “valore” non ha alcun diritto a essere ammantato del“l’aura epica dei diseredati del XX secolo”; di questi ultimi, l’aspirante e i suoi genitori finiscono con l’incarnare gli “eredi sbagliati che hanno perso l’ultima corsa del benessere diffuso prima che questo si arrestasse”. Ecco pertanto che per loro l’unica legittima attesa è quella dell’ufficiale giudiziario o del padrone-Dio che li sfratta, locatari indegni quali sono. Non c’è solidarietà per loro; anche le associazioni caritative legate al contesto parrocchiale s’ergono a tribunali giudicanti, strumenti della perpetrazione di un potere subdolo e umiliante legato all’assistenzialismo.
Si avverte un continuo senso di spossamento in quest’opera che colpisce anche per lo stile curato, ora asciutto ora oratorio, a tratti lirico; si pensi a passaggi come questo: “Fermare la luce di luglio imperiale al termine del giorno, quando il mulinello solare iniziava a sbiadire e avvolgeva le cose in un chiarore tiepido e impalpabile, avrebbe forse dischiuso il segreto della sua perpetua vigilia” (p. 251). Una radiografia della contemporaneità, in cui finisci per condividere la frustrazione e la rabbia dell’aspirante, nella piena consapevolezza che il rappresentato, per quanto possa apparire assurdo (e forse proprio in quanto tale), è lucidamente e inesorabilmente rispondente a Verità.