
Recensione a Giuseppina Carminucci, Geografie emozionali, lidea, Roma 2022.
Geografie emozionali è la raccolta d’esordio di Giusy Carminucci e si articola in tre sezioni, ciascuna dotata di un accessus curato dall’autrice stessa, che fornisce una chiave di volta per accostarsi alle diverse parti della silloge.
Si apre con “Atopia”, in cui, partendo dall’idea ch’essa sia la “qualità posseduta da alcuni tipi di spazio non facilmente definibili”, l’autrice si spinge a considerare la poesia stessa quale scaturigine dell’“individuo atopico”, “puro”, capace di costituire “nuove collettività” muovendo dalla sua peculiare esperienza. Si prosegue con “Mappe”, che vive dell’abbinamento di un colore a ogni testo: Carminucci infatti stabilisce una relazione tra la qualità dell’emozione e il cromatismo che ad essa le appare correlato. Si conclude con gli “Scenari”, dagli interni della “stanza da letto” al Mezzogiorno d’Italia, dai teatri di guerra agli “universi / dell’infinito”, con la chiusa sull’intenzione di “cucire / delle “pences” / sulle viscere / della terra”, di Un tessuto che si sfrangia.
Emergono due fattori tipici della poesia di Carminucci. Il primo è una vena che gioca a mostrarsi naïve e che si esplica nella filastrocca (Filastrocca della continuità), nel riuso della rima, anche in una forma paragonabile a quella di uno straniato cantastorie popolareggiante (vedi Blattspitz) o ancora nella musicalità immediata, quasi martellante, di Dimmi. A questa componente di apparente naïveté si può ricondurre anche la sperimentazione di alcune tra le mappe. Un divertissement sono anche la Poesia “Cassaforte” – che congiunge più media – e le Poesie “e viceversa”, nelle quali però (penso, per esempio, a Voglia di infinito) trova espressione anche la tensione metafisica dell’autrice.
È una poesia quella di Carminucci che – a nostro avviso – conosce la sua espressione più felice non nel frammento (con l’eccezione di Comunque lo si giudichi, non a caso scelto per la quarta di copertina), ma nella lucida riflessione esistenziale (ci riferiamo ancora al testo appena citato, “Comunque lo si giudichi / Visto da qualsiasi altezza / Il potere di un sentimento / è specializzato in condizionamenti”) o nel dialogo con un Tu, di cui a tratti l’assenza appare bruciante. Questo è il secondo elemento caratteristico della scrittura della poetessa. Nasce così La penna sul foglio, fondata su una similitudine che si fa sussurro, a cominciare dal delicato incipit: “La penna / Sul foglio / non fa / rumore”. O ancora Visibilità Zero che si chiude su una bella immagine di caduta e frustrazione dalle “montagne di illusioni”: “Anche tu / Ci sei cascato / Su questa buccia di malinconia / E ti sei rotto il cuore”. L’incedere dialogico connota anche Il seme, che vive di momenti come questa limpida dichiarazione di unicità (“non sei il solo / ad interessarsi all’ambiente / ma / per me / l’unico”) o il finale che si scioglie in preghiera: “Non lacerarmi / il tessuto del cuore / nel giorno / in cui / il vento soffierà”. E poi segnaliamo ancora singole immagini come quella del bimbo che “gioca e cerca / la ragione di una storia” (Paesaggio) o dell’anziano signore che “lentamente conta / tutti i sassi / che l’hanno bloccato / o l’hanno spinto / verso l’infinito” (Dimmi). È forse proprio in questo intreccio di incanto e disincanto, di geometriche guerre tra basi e altezze a celare ben altri conflitti, di cadute che si trasformano in occasioni di volo che si nasconde la chiave di queste Geografie emozionali. Non è un caso che, in copertina, l’autrice abbia scelto l’innesto, nel contesto dell’aridità del deserto, di una sorta di (labirintica) scala di Giacobbe che conduce al cielo, quasi a confondersi con le migrazioni di nubi.