Cant’arsi


Recensione a L. Diomede, Cant’arsi, con postfazione di P. Briganti, consulta librieprogetti, Reggio Emilia 2022, Euro 12.50.

Il culto della parola e della ricerca – come ben osserva Polo Briganti nella bella postfazione –  di “‘frasi e incisi di un canto salutare’, per dirla con Mario Luzi”, si manifesta nella silloge Cant’arsi di Lucia Diomede già nella polisemia del titolo.

“Cant’arsi” come ‘cantare ardendo’ (si pensi, a tal proposito, allo “scrivere ardendo” di Gaspara Stampa) o “canti arsi”, “bruciati nell’arsione esistenziale”… Cant’arsi come cantare sé stessi (“scrivo piangendo (…) me”, dichiarava Isabella Morra in I fieri assalti di crudel Fortuna), ma anche quale ammiccamento alla “catarsi” che la poesia può rappresentare per i suoi cultori. E “arsi” è ancora misura ritmica contrapposta alla “tesi”, in un ideale ricondursi dell’autrice al verlainiano “De la Musique Avant Toute Chose…”, imperativo ben chiaro e ben caro a Diomede.

È subito evidente al lettore – anche al meno smaliziato – quanto ci si trovi dinanzi a una poetessa che attribuisce un peso notevole ai valori fonici della parola e della poesia. Non stupisce pertanto la ricchezza di assonanze, consonanze, bisticci e non di rado il ricorrere di rime mai banali, perché figlie di una musica interiore, di un tempo sospeso in cui amore e dolore si fondono e confondono in attitudine melancolica e sognante.

Emerge quale dominante il tema dell’attesa, non a caso declinato nella terzina incipitaria (Stare in attesa), cui segue il trittico dello Stare, in cui possono coesistere – in forma tutt’altro che scontata – ossimori della tradizione (“amore amaro / di sale”) e anglismi in fine verso (il richiamo a “skype”). Colpisce lo zoomorfismo che connota la raccolta. In linea con il paesaggio mediterraneo di una “terra di mare / meridionale” affiora presto l’icona delle cicale che al sole cantano “i versi dell’arsura”. Queste ultime figurano in un componimento in cui si fa strada – accanto all’onnipresente attesa – l’idea della prigionia, nell’evocazione dei concetti di sepoltura, clausura, cattura e anche nell’ulteriore riferimento al mondo animale della “sarda sotto /sale”. L’andamento è a tratti fluido, a tratti volutamente perplesso, come sottolinea – nel caso or ora citato – l’inarcatura che separa il termine con valore di preposizione dal sostantivo di riferimento. In altri testi saranno poi rappresentate Formiche in rammemorazione di strofe leopardiane della Ginestra; e poi Passeri in bilico “sui cavi elettrici” “su sfondo plumbeo / di nuove nuvole”. Un sostare – il loro – sull’orlo dell’abisso come gli ungarettiani soldati. A cantare l’attesa quale condizione ontologica l’autrice associa gli umani, in Aspettiamo, a un mulo, a un gatto, a un cane che attende una carezza ma teme la sferza, e poi a un frutto di melagrana (e il pensiero corre a Proserpina) quasi marcescente. Il movimento sembra condurre verso la distruzione, con l’eccezione – forse – del cogitare nella ricerca di “continenti nuovi / tra i pensieri”.

Eppure proprio l’aspirazione a un movimento avvolgente, che abbracci ogni cosa come l’occhio di Dio, genera testi intensi quali Nuvole e quello che a nostro avviso rimane il componimento migliore, Cosa prova la pioggia. Condotta con pregevole senso del ritmo e poetico stupore, l’identificazione nella precipitazione atmosferica apparentemente indifferente a tutto, e che pure tutto ora accarezza ora sferza, si chiude sull’immagine della negazione della pioggia e della sua purificante salvezza: “qui ancora non piove / il suolo si caria / catastrofe ordinaria”. Proprio contro quella carie esistenziale si leva ancora con ironia amara il Rappoem o filastrocca da grandi, che nel refrain “Se lo tengano il mondo” esprime la volontà di marcare le distanze rispetto a un esistere in cui il danaro sia (e purtroppo è) elemento dominante con gli amari “corollari” di demenza e “profondo cinismo”: “solo un puntino di mondo / domando, per ragionare / con gatti, passeri, fiori”… È la fede nell’idea che la poesia – a patto che sia sussurrata laddove tutti urlano, perché più limpida risuoni la sua voce – possa ancora incidere e farsi strumento salvifico; così la raccolta si scioglie in laica preghiera alla parola affinché miri a ‘varcare la notte’ e ‘vincerla’, o almeno a opporle resistenza. Perché essa divenga voce cosmica, capace di esprimere e suscitare entusiasmi, è necessario che si spogli del narcisismo imperante e s’apra al dono raro dell’empatia: “disfati del tuo fiato, / fatti respiro altrui”.

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