Verranno a perderci in trionfo


Recensione a Francesco D’Angiò, Verranno a perderci in trionfo, G.C. L. edizioni, Pulsano 2022, Euro 12,00.

È un volume di poesia interessante quello proposto da Francesco D’Angiò, corredato da un’ottima prefazione di Paolo Polvani.

Un testo che si muove all’insegna dei paradossi, come appare visibile già dall’antitesi presente nel titolo, che, mentre occhieggia a un celebre brano di Fabrizio de André (Verranno a chiederti del nostro amore), connette due concetti apparentemente in contrasto: l’attitudine trionfale e il perdere (“quando ci verranno a perdere in trionfo”) che più che alla sconfitta – o quantomeno accanto allo scacco esistenziale – sembra alludere a una condizione dell’essere in qualche modo accostabile a un’espansione non priva forse di echi leopardiani.

È una parola compressa quella di d’Angiò, in cui l’azione metaforizzante trasfigura le immagini al punto che spesso non riesci a cogliere il preciso significato di ogni verso, ma finisci con il lasciarti affascinare da uno scavo sulla parola ch’è prima ancora scavo interiore. “Mi aggrappo ad un vecchio passamano / che conosce tutte le mie ossa” – recita uno dei testi – e la poesia finisce proprio con l’essere simile a quel passamano. O forse è lo scalpello che agisce sulle carni incidendole e snudandole.

Spesso la difficoltà di questi versi, in cui costante è il dialogo tra l’io lirico e un tu generico, non è tanto connessa al fatto che l’autore intenda volutamente essere oscuro, ma è conseguenza di un processo per cui le metamorfosi del reale e il travestimento del primum movens che ha occasionato la poesia rendono le allusioni non subito perspicue. Ciò peraltro – lo ripetiamo – non va a detrimento del fascino del testo, in cui vivida è una vena surreale, alimentata dal legame con la cultura contadina meridionale e con quell’italiano regionale cui di tanto in tanto d’Angiò fa qualche concessione, come quando usa il “gli” come pronome complemento di termine al femminile – “Mia madre cuciva la terra / che non gli piaceva” in Testo n. 13 –  o non disdegna i pleonasmi.

Dominante appare il concetto di stasi, che non a caso fa capolino nel primo testo (“L’immobilità di quell’infinito / concede tregua d’inesistenza”) per poi divenire costante, correlato in qualche modo al montaliano “Immoto andare” (si pensi a “Nessuno ci chiedeva di restare, / stupiti di come lasciavamo le nostre orme / senza esserci mai mossi dalle nostre vite”). Così le fioriture sono “fuori moda”, i “fuochi d’artificio senza festa” e la preposizione “senza” si rivela uno degli elementi più frequenti nella raccolta, a indicare il concetto di privazione, di mancanza.

Da un lato è viva nei versi la tensione all’ideale e si percepisce la ricerca di un senso delle cose che vada al di là di ciò che permane negli ossari o riaffiora nell’atto di dissotterrare un volto riveniente dai recessi della memoria; dall’altro emerge l’impossibilità di gioire di altro che non siano le gioie scarne – cui peraltro non manca una componente venenifera – legate al semplice stare al mondo: “Quest’anno l’oleandro / ha messo su due fiori, / e l’unico senso che trovo / è ancora soltanto nei suoi colori”. Non di rado, quest’attitudine sfocia in una gnome cui forse non è estranea qualche memoria cardarelliana: “Avevi ragione quando dicevi / che i nostri lineamenti / sono quelli di uno stormo / in continuo movimento”. Elemento pervasivo è la riflessione sull’essere dell’uomo per la morte: questa meditazione, fitta in tutto il volume, culmina nella bella poesia di chiusura, Il fotografo del campo. Qui emergono versi scabri come questi, dal nudo fascino: “Allo scatto, ci fanno la fossa / che non occupa spazio, / andremo diretti dalla colpa / al monumento che ci solleva tutti”. In tal direzione si muove anche il finale del Testo n. 117 (una delle caratteristiche della raccolta è infatti quella che molte poesie non recano titolo, contrassegnate come sono da una numerazione che non è progressiva nelle sezioni, ma legata ai momenti compositivi); così, efficaci sono versi in cui la meditazione esistenziale del singolo attinge all’universale: “Ci stiviamo / clandestini a bordo della nostra palude / dove siamo capaci di limpidezze / incontrollate, e non meno torbido / è questo giudice che declina in nomi / date e ore, ciò che non è adatto / a risorgere”. L’immagine della palude rinvia ancora alla stasi; la clandestinità sottolinea l’estraneità dell’uomo all’ingranaggio in cui si sente stritolato, ingranaggio dominato da un giudice “torbido”, il cui agire appare talora destituito di senso. L’inadeguatezza dell’uomo alla risurrezione consente altrove la ripresa dell’antico topos delle foglie: “Può esserci perfino / gioia di un presagio nel disordine / di somiglianze al buono, schiacciando / foglie sotto una suola. Prima erano / su un albero che respiravano”. Si registra una tensione fortemente dubitativa verso Dio, cui sono dedicati, tra gli altri, versi dominati da un gioco paronomastico a marcare il paradosso di un’attesa assurta a condizione ontologica (qui gli esempi ci conducono dalle vergini stolte della parabola evangelica a Beckett e Kafka, per limitarci ad alcuni esempi): “Si prega sotto i tavoli quando è l’ora / della vena buona dell’oro e dell’ira / del Signore, che non precede mai / il suo arrivo con un annuncio di cortesia”.

Così, tra un costante ritrovarsi e perdersi, in un rigoglio di simboli che rendono i trionfi assimilabili a danses macabres esangui al cospetto dell’unico vero Trionfo, quello del Tempo, la poesia di D’Angiò si segnala positivamente, radicandosi nella sua impronta terragna con l’aspirazione a tradurre la disperazione in speranza.

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