
Recensione a Sophia de Mello Breyner Andresen, Il giardino di Sophia, cura e traduzione di Roberto Maggiani, postfazione di Claudio Trognoni, Il Ramo e la Foglia edizioni, Roma 2022, Euro 16.
È un’antologia di grande compattezza stilistica e di profonda forza comunicativa questo Il giardino di Sophia, che raccoglie, con le ottime traduzioni di Roberto Maggiani, una selezione tratta da ben quattordici raccolte della poetessa portoghese Sophia de Mello Breyner Andresen (Porto, 1919-Lisbona, 2004).
Una voce alta e intensa che riesce a modulare con maestria le corde della poesia metafisica, civile e della meditazione esistenziale, non di rado affacciandosi anche alla riflessione di carattere metaletterario.
Fil rouge del percorso tratteggiato nel volume è il motivo del giardino. Esso riconduce chiaramente all’Eden; non è casuale che, in uno dei testi più interessanti, la de Mello rievochi Il primo uomo, che “Era come un albero nato dalla terra / Che confonde con l’ardore della terra la sua vita”. Il giardino allude pertanto a una condizione ormai perduta di pienezza e innocenza dell’umanità, di cui pure è ancora possibile cogliere barlumi sottratti alla furia divoratrice del tempo. In tal direzione, una delle più lucide declinazioni del motivo in questione è rappresentata da un Giardino del mare, “che si estendeva / Lungo un pendio sospeso / Miracolosamente sopra il mare / Che dal largo gli cavalcava contro / Sconosciuto e immenso”. Un’offerta di bellezza aspra e salata, fatta “di fiori selvaggi e resistenti”: “Giardino che l’acqua chiama e divora” che diviene “Stretta coppa / Trasbordante dell’annunciazione / Che a volte passa nelle cose”. Coesistono così, nel testo, la consapevolezza del Tempus edax rerum (il verbo “divorare” è non a caso da de Mello connesso al sentimento del Tempo) e l’idea di un’epifania attesa, di un angelo della visitazione che forse non salva, ma culla, cantando. “Ed è stato” – scriverà de Mello in L’angelo – come se tutto si estinguesse / (…) E il mio essere liberato infine fiorisse”. La fioritura è elemento che ci riconduce, ancora una volta, al giardino. Giardino che, nella fitta meditazione della poetessa, diviene anche – accanto al cielo e al mare – elemento chiamato in causa nel momento in cui la scrittrice affronta uno dei temi portanti della tradizione letteraria: la sproporzione tra i cicli della natura e l’esistere dell’uomo. “Quando il mio corpo marcirà e io sarò morta / Continueranno il giardino, il cielo e il mare, / E come oggi ugualmente balleranno / Le quattro stagioni alla mia porta”. Eppure, nella constatazione che “Altri ameranno le cose che io ho amato”, non v’è desolazione, non v’è disperazione. Nel rinnovellarsi della natura è anzi come se l’uomo stesso rivivesse: “Sarà lo stesso splendore, la stessa festa, / Sarà lo stesso giardino alla mia porta, / E i capelli dorati della foresta, / Come se io non fossi morta”. E ci sembra estremamente significativo che la più bella delle meditazioni di De Mello sul significato della poesia vada ad accostare il poeta a un giardino: “Il poeta è uguale al giardino delle statue / Al profumo dell’estate che si perde nel vento / è arrivato senza che gli altri mai lo vedessero / E le sue parole hanno divorato il tempo”. Una lirica possente, dimostrazione di quanto non sia necessario inerpicarsi in sperimentalismi sterili per esprimersi poeticamente. Nel tempo ontologico dell’Arte la poesia continua a pronunciare le sue parole aurorali, a prescindere dall’esistenza fisica dell’autore stesso. Come la pietra che sfida il tempo e le intemperie, così la parola del Poeta vince la sfida dell’eternità. Essa è profumo, ma non quella fragranza arrogante che persiste in un ambiente e ottunde i sensi; è profumo lontanante, condotto via, in un altrove, dalla forza che disperde e sparge per eccellenza: il movimento delle masse d’aria, il vento.
È quella di de Mello una continua inchiesta di senso e tensione al divino. Non alla religio che tantum potuit suadere malorum: l’Ifigenia di de Mello giganteggia tra le miserie della storia. “Serenamente cammina con la luce”; non ha paura di sostenere lo sguardo del vento col suo viso “intatto”. È “Come vittoria a prua di una nave”.
Quella della poetessa portoghese è la ricerca del Cristo gitano, l’umiliato perché “Era un Cristo senza potere / Senza spada e senza ricchezza”. Se “Il potere si è lavato le mani / Di quel sangue innocente”, alla poesia spetta anche il compito di mostrare la macchia che non si vede “Sulla veste dei Farisei”.
Dio non è un saldo possesso per de Mello; è però la meta cui l’umana quête tende, nel fecondo proliferare del dubbio. Perché, come recita una prosa lirica dalle venature surreali, ascoltando il silenzio “nella penombra” di una chiesa in cui sei entrato quasi per caso e “guardando il bianco delle pareti e il luccicare blu degli azulejos”, “si leverà come un canto il tuo amore per le cose visibili che è la tua preghiera davanti al grande Dio invisibile”. A quel Dio, in uno dei suoi testi più semplici, che ha la bellezza del lindore di una veste bianca, de Mello domanda in un’accorata preghiera La pace senza vincitore e senza vinti: “Dacci la pace che nasce dalla verità / Dacci la pace che nasce dalla giustizia / Dacci la pace chiamata libertà / Dacci Signore la pace che ti chiediamo // La pace senza vincitore e senza vinti”.
Una raccolta in cui emerge l’amore per il Portogallo, nella bellezza degli azulejos come nel continuo trasecolare al cospetto dell’incanto marino, con la voce delle acque che appare miraculum e asseconda le fluttuazioni dell’elemento onirico. Eppure quello per la propria “patria” è un amore amaro, soprattutto nella dittatura di Salazar, cui de Mello ha dedicato alcuni dei suoi testi più intensi. Il dittatore diviene l’“avvoltoio” circondato dai suoi accoliti animali: “Il putridume gli aggrada e i suoi discorsi / Hanno il dono di rendere le anime più piccole”. Contro di lui è l’atto d’accusa Con furia e rabbia in cui si contesta al demagogo il fare potere e gioco della parola, trasformandola in “moneta” “Come si è fatto con il grano e con la terra”. Egli assurge ad Anti-Adamo nel momento in cui fa un uso strumentale del dono della parola, desacralizzandola nell’atto di adoperarla non per dare un nome alle cose, ma per travestirle all’ombra dei suoi bassi intenti. Così la “Rivoluzione dei garofani” è salutata con pochi, potenti tratti che ci hanno rammentato, pur nelle differenze storiche e stilistiche, Alceo: “Questa è l’alba che attendevo”, recita de Mello “Il giorno iniziale intero e limpido / In cui emergiamo dalla notte e dal silenzio / E liberi abitiamo la sostanza del tempo”. Potremmo citare altri testi bellissimi, come quello dedicato a Catarina Eufémia, bracciante agricola uccisa “a seguito di uno sciopero dei salariati rurali” durante la dittatura: “non sei restata in casa a cucinare intrighi (…) Eri l’innocenza frontale che non arretra”. E che dire dell’indugiare sui “cieli infiniti” che “fissano” il volto de Il soldato morto: “Dalle sue spalle si libera un’attesa / Che divisa nella sera si disperde”? La parola scolpisce; a volte risuona nuova e straniante nella sua bellezza: penso a quel jardim de impossessão di Jardim perdido. E spesso, attraversando le pagine del Giardino di Sophia, ti pare di “varcare la soglia sacra della casa” di una vestale.
Grazie per la bella recensione, inoltre confermo e mi fa piacere: “Una raccolta in cui emerge l’amore per il Portogallo…”.
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Grazie di cuore, Roberto Maggiani.
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