La lingua della città


Recensione a M. Venuto, La lingua della città, Delta 3 Edizioni, Grottaminarda 2021, Euro 10.

La lingua della città di Mara Venuto è una raccolta intensa e compatta nel suo elevarsi ad atto di dolore e lacerante canto d’odio-amore verso Taranto. Di quest’ultima, come evidenzia Giorgio Galli nella Prefazione, Venuto intesse l’“aspra storia collettiva” in “versi interiorizzati”, in cui ha assunto su di sé non solo le insegne della propria vicenda individuale, ma si è fatta voce dell’interiorità delle anime protagoniste del medesimo destino.

Motivo dominante della raccolta ci sembra il ritmo di creazione e ripudio. Taranto pare soggetta a un Fato che la vede creare e despuere i propri parti, i quali si troveranno ‘gittati’ in una vita ‘agra’, abbandonati a una sorte funesta inscritta già nel momento stesso della loro nascita. “Ricevere lettere dalla nascita / leggervi un anatema che odora di sale, / una vita affacciata alla finestra / il quadro di una radura affollata di macchine”; oppure ancora “Non ha cresciuto figli, / li ha lasciati al buio della strada / alle fiamme del camino, il più feroce dei focolari. / Quegli orfani amano come Dio, / non ricordano, hanno pietà, / scrivono sulla polvere la lingua della città”. Non è un caso che la città sia associata alla palude, all’acqua salata, al “ventre di una madre sfatta” (emblematici ancora versi come “Una casa in rovina è nostra madre”) e che nel suo scenario abbondino le madonne in dismissione (“una madonna s’abbandona sorretta al sale marino / ma nessuno la prega”). Il senso di orfanità è motivo costante nella raccolta e affiora in varie occasioni, anche in singoli fotogrammi, come quello dei ragazzi che “piangono l’abbandono infantile”.  Il ripudio assume non di rado la forma di stigmate fisiche: la desquamazione, i solchi sulla pelle, la metamorfosi della “schiena” in muraglia, il calvario di “un corpo spezzato dallo spazio”; tutti elementi cui si contrappone una “Memoria del grembo” della “povera madre” che non salva. Altra conseguenza del rifiuto come condizione ontologica è l’estraniazione a sé stessi da cui discende, altro elemento ricorrente, il riso della demenza di alcuni dei personaggi di quest’epopea della sconfitta esistenziale e dello scacco.

Quello che si delinea nella silloge di Venuto è un viaggio-catabasi in cui “la station wagon ha il telaio sfondato” (e, in un altro testo, la città è attraversata “su una vecchia auto bianca prossima alla ruggine”), i fossi sono in agguato e non si vedono. È l’attraversamento di quella che assurge a una “distesa spettrale” in cui domina l’abbandono, ipostatizzato anche nelle bambole annegate “nella piscina della villetta lontana dai guasti popolari”. Eppure, allo sguardo di chi sa pennellare anche la  “bellezza dello sporco”, la ruvida beltà di Taranto finisce con il rappresentare “la grazia di Dio alla tavola dei vinti”, immagine presente nella poesia dedicata a Vincenzo, una delle tante anime evocate in questo cantico. A proposito dei testi che assumono un preciso interlocutore, particolarmente belli ci appaiono, per esempio, i versi dedicati a Giorgio, dall’arioso incipit “Giorgio si fa lieve la gronda”. Nel pennellare la sua “terra dei malumori”, Venuto ha mellificato echi di varia natura, soprattutto della lirica novecentesca, rispetto alla quale non manca di esercitare talora anche il gioco citazionista (penso all’eco pavesiana dell’“immergere in un gorgo l’anima morta”).

Il titolo della raccolta, nel riferirsi alla “lingua della città”, introduce uno dei Leitmotive di questa distopica “epopea dello stento”. Esso affiora in versi quali il distico “Grave è il suo verbo, un idioma incatenato al porto / spurio alieno difforme”. Di fronte a questa lingua deforme è preferibile il silenzio (“svegliare chi dorme e non parlare” o ancora “è meglio tacere, farsi nicchia che sparisce”). Tale idioma opera nel poeta una sorta di marchiatura, imprimendo nella sua bocca “una piaga curata e dimenticata / un’afta nel lancinante richiamo alla verità” e suscitando, ancora una volta, “un pudore che obbliga al silenzio” nell’impossibilità dell’emissione del “suono puro”. La lingua della città finisce col legarsi strettamente, in un movimento universale, alla “lingua dei viventi” ed essa, nel finale, conosce il suo correlativo oggettivo nello “stridore delle rotaie”, culmine del sentire distonico (“sotto il carello di ruggine pesa il transito più delle ossa”). Nonostante tutto, a dispetto di ogni creazione e ripudio, è diritto dell’uomo sottrarre al gorgo la declinazione delle individuali e collettive sconfitte, di innamoramenti e disincanti, della Vita nel suo proteiforme e ingannevole scorrere: “Sui muri della città è scritta la nostra voce”.

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