
Recensione a E. Pecora, Tre Monologhi. Penna, Morante, Wilcock, Il ramo e la foglia edizioni, Roma 2021, Euro 13.
Sono intense prose liriche i Tre Monologhi di Elio Pecora, preceduti dalla bella prefazione di Marco Lucchesi, già artefice della regia di alcuni testi teatrali dello scrittore di Sant’Arsenio rappresentati negli anni Novanta.
L’opera si compone di tre momenti, che hanno conosciuto una storia testuale, teatrale e radiofonica antecedente alla pubblicazione in volume. Pur fruibili singolarmente, i monologhi sono connotati da Leitmotive che li fanno apparire tempi differenti di una medesima sinfonia. A fungere da filo rosso soprattutto la fitta riflessione sulle scaturigini della Poesia, nel suo esprimersi attraverso i versi o le prose di romanzi. Alla voce di Sandro Penna Pecora affida una condivisibile riflessione sul carattere “civile” della Poesia: “Come se non fosse “civile” l’intera poesia, nel senso del poeta che, quando si esprime anche soltanto su se stesso, lo fa tra gli altri e per gli altri. Perché dovrei dare forma durevole ai miei sentimenti, alle mie verità, se non parlassero a ognuno?”. I riferimenti a Catullo e a Saffo finiscono col ricondurci al carattere cosmico della stessa e sembrano accostarsi al solco di riflessioni, pur di matrice differente e con differenti premesse, quali quelle di Theodor Adorno.
Il primo monologo, dedicato a Sandro Penna e alla sua Follia quieta (“cheta” nella versione teatrale e nella radiocommedia), è l’unico ad adottare la narrazione interna, con l’assunzione a io narrante di un Sandro Penna che si racconta senza infingimenti. È tra i tre a nostro avviso il testo più intenso e coinvolgente, in cui le angosce dell’uomo, che si riconosce ciclotimico e vive nel caos figlio di una mania d’accumulo (inquietudini laceranti scandite dalle telefonate notturne, incalzanti, quasi disperate, agli amici), si alternano alla rammemorazione delle vicende biografiche. Il vetro nel sole rivela con allure quasi fiabesca la prima epifania della Poesia. Nel ‘fulgore’ che cancella il pianto è la chiave di quella scrittura che più volte viene definita luminosa, leggiadra, dominata da una sprezzatura ch’è quasi passo di danza nell’inseguire fanciulli, marinai, ragazzi bellissimi, spesso connotati dalle note cromatiche delle loro vesti. Un dono meraviglioso che si dischiude tra levitas e malinconia (penso a versi memorabili di Penna, come “Le stelle sono immobili nel cielo. / L’ora d’estate è uguale a un’altra estate. / Ma il fanciullo che avanti a te cammina / se non lo chiami non sarà più quello…”). Nel frastagliato quadro della situazione filologica dell’opera dello scrittore perugino (ben ricostruito per esempio, tra gli altri, da Raffaele Manica), è doveroso ricordare il ruolo rivestito da Elio Pecora, che trovò il poeta morto nella sua dimora romana e pubblicò nella raccolta Confuso sogno (1980), tra l’altro anche titolo di uno dei paragrafi del monologo, le carte rinvenute nell’abitazione.
Di diversa impronta ma sempre di notevole efficacia è il Monologo con figure (un epicedio per J.R. Wilcock). Qui la voce narrante si muove tra ironia e paradosso, in linea con la natura della produzione dell’argentino Wilcock, evocandone le creature e soffermandosi anche sul rapporto dello scrittore con l’Italia. Surreale, degno di un racconto dell’argentino, il momento della sua morte a Lubriano, in provincia di Viterbo, avvenuta il giorno della strage di via Fani. Pecora descrive il momento in cui la salma viene portata fuori dall’abitazione, in una scena di grande impatto, inizialmente scandita dal requiem mozartiano.
Conclude il terzo momento, dedicato a Elsa Morante, figura ormai canonizzata, su cui ricca è la bibliografia critica. La Morante rivive nei turbamenti che già caratterizzarono la sua infanzia e adolescenza: ricorderemo non a caso come non si sia tuttora giunti a chiarezza – e in fondo queste sono e restano questioni private – in merito al rapporto con Augusto Morante. Quest’ultimo secondo la vulgata fu padre putativo della donna, ma alcuni studiosi non escludono che egli potesse esserne in realtà proprio il genitore biologico, letterariamente adombrato, per esempio, nel babbo di Arturo. Giustamente Pecora tende ad alludere ai fatti dell’esistenza di Elsa e a non insistere sul singolo dato; insegue invece la genesi o rievoca le movenze dei suoi personaggi, da Elisa ad Arturo, da Ida a Caterì dalla trecciolina. Figure che si stagliano tra le pagine dei libri per poi vivere un’esistenza propria, condizione che pare suscitare un senso di dispetto e dispiacere nell’autrice, nel momento in cui avverte “che quelle sue creature ormai appartenevano a troppi altri”. Con forza di introspezione e pochi rapidi ma efficaci tocchi, lo scrittore ci fa rivivere il difficile e intenso rapporto della Morante con Alberto Moravia, la rocambolesca fuga a Fondi negli anni della seconda guerra mondiale, l’intesa con Bill Morrow e la tragica fine dell’uomo, il tentato suicidio e il calvario che condusse l’autrice di testi memorabili alla morte nel novembre 1985. Un altro pregio dei Tre monologhi è proprio quello di rievocare in punta di penna le sodalitates letterarie del Novecento, pennellando il fecondo clima di un contesto in cui s’ergono Pasolini, Saba, Montale, Siciliano e altre figure, anche di pittori, che hanno inciso indelebilmente nella storia della letteratura, dell’arte e più in generale della cultura del nostro Paese.
Tutto questo con uno stile intenso, lirico, che tocca con eleganza ed equilibrio le corde dell’ironia, della riflessione metaletteraria, della melancolia, della nostalgia della vita che come un basso continuo s’insinua già nelle gioie, fugaci bagliori di stagioni che nel loro stesso baluginare recano in sé lo strale dell’effimero.