Il tempo tessuto di Dio


Recensione a M. Pascucci, Il tempo tessuto di Dio. Ritratto filosofico immaginario di Dacia Maraini in vari atti, Il ramo e la foglia edizioni, Roma 2021, Euro 15.

È un’opera complessa ma di grande interesse e bellezza questa di Margherita Pascucci, Il tempo tessuto di Dio, un “ritratto filosofico immaginario di Dacia Maraini in vari atti”.

Come l’autrice stessa chiarisce nella Nota iniziale, “è un testo in parte saggio filosofico, in parte narrazione”. Pascucci si avvale degli strumenti a lei forniti dalla pratica costante dei grandi maestri del pensiero (tra i quali si avverte una predilezione per Spinoza) per accostarsi all’opera della scrittrice fiesolana in maniera originale.

Lo scritto della Pascucci si snoda in nove capitoli, i quali hanno una partizione piuttosto nitidamente scandita sebbene non simmetrica. In pressoché ognuno di essi (con l’eccezione, per esempio, dell’ultimo) si ravvisano quattro momenti: il saggio, la cui articolazione è spesso inframmezzata da altri elementi della partitura; il dialogo, che vede instaurarsi un corpo a corpo tra due entità, cioè M, a simboleggiare il Mistero (il quale a tratti si configura come un “Dio severo, severo e innamorato”, dalle “mani ruvide e dolci”), e D., la cosiddetta “Dacia immaginata”; il tratto, dai caratteri marcatamente sintetici; la lettera. In quest’ultima generalmente Pascucci si rivolge accoratamente alla scrittrice, finendo, nell’intessere un muto colloquio con la Maraini, con il recar luce nella complessità della sua stessa interiorità.

È un’opera interessante, perché ci sembra – con le dovute differenze –  avvicinarsi a quelle forme di critica e lettura, si pensi a Susan Sontag che legge Pavese, che offrono una percezione “emotiva”, quasi – ci si consenta questo termine – “erotica” dell’oggetto di studio e di interesse. Uso impropriamente quest’espressione riferendomi al concetto alto di amore che Pascucci enuncia, rinvenendone traccia proprio nell’esperienza di Chiara: “potenza di concepire l’altro e essere concepito dall’altro”. Sembra inoltre che Pascucci abbia quasi teso a realizzare quell’ancipite esperienza – descritta dalla protagonista del Dialogo di una prostituta con un suo cliente – di “cascare” nell’altro, spossessandosi di sé per poi a sé tornare, dopo tale atto.

Da un punto di vista squisitamente critico, molti sono gli spunti carichi di interesse che Pascucci evidenzia, ricostruendo la sua “Dacia immaginata” attraverso le parole delle sue creature, tra cui Chiara, Camille, la prostituta, Veronica. Nell’opera della scrittrice, la filosofa rinviene il dispiegarsi di un’“ontologia poetica della creazione”, che ha “il mistero come oggetto poetico e l’immaginazione come un’etica”. Se Pascucci riconosce a Pasolini il concepimento e la realizzazione di un “cinema di poesia” in cui “protagonista è lo stile”, allo stesso modo individua nella scrittura marainiana l’attuazione di una “prosa di poesia”, in cui “l’immaginario (…) è la macchina di narrabilità del reale”. Ne deriva un’idea della scrittura come “corpo a corpo con il mistero”, in cui tutte le grandi tematiche dell’esistere si compendiano e “il tempo rubato della vita quotidiana” ci viene restituito in un “tempo di vita ulteriore”. Perché, come asseriva Maraini in Amata scrittura, quest’ultima è “una tela lavorata da dita divine, il tessuto di Dio”.

Ci sembra molto interessante, tra gli altri spunti sviluppati, quello dell’accostabilità dell’opera marainiana, concepita anche come “atto politico”, alla riflessione sulla “letteratura minore” compiuta, in relazione a Kafka, da Deleuze e Guattari. “Una letteratura minore non è la letteratura d’una lingua minore ma quella che una minoranza fa in una lingua maggiore” e – in tal direzione – ci sembra lucidissima la valorizzazione del bellissimo, nella sua articolazione anticonvenzionale di un genere in cui le Operette leopardiane rappresentavano un pilastro ineludibile, Dialogo di una prostituta con un suo cliente. Nel monologante dialogare della protagonista, così come nel linguaggio tendente all’oralità delle Memorie di una ladra, si ravvisa tra l’altro un uso unheimlich della lingua, che, oltre allo scardinamento sistematico del luogo comune e di ogni falsa visione consolatoria o edulcorata del vivere, ci appare il tratto di maggior interesse di tali scritti.

In ultimo, vogliamo segnalare la qualità della scrittura della Pascucci, alta, elegante, immaginifica, nel suo dialogo con il caleidoscopico pregio dello stile marainiano.

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