
Recensione a T. Megaride, Adolesco, Il ramo e la foglia edizioni, Roma 2021, Euro 16.
Ha un fascino particolare questo romanzo dell’autore che si cela dietro lo pseudonimo di Timothy Megaride. Un’opera che, con apparente leggerezza, ti introduce nella psiche dell’adolescente Tommaso, muovendo dalla fictio che vede il minorenne, dichiarandosi per motivi misteriosi agli “arresti domiciliari”, affidare a un registratore (non a un manoscritto, per effetto dei tempi moderni!) le sue confessioni.
La prima percezione che il lettore avverte è di un profondo senso di straniamento, per l’assunzione di un punto di vista insolito. Un adolescente di cui immediatamente si percepisce il narcisismo: basti dire che Properzio immaginava Cinzia lacerarsi il petto nudo al suo funerale, mentre Tommaso concepisce il proprio in termini spettacolari, con folle oceaniche. Il carattere fluviale di questo lungo monologo interiore suggerisce subito l’idea di un disagio, di un disordine psichico che conferisce al giovanissimo l’aspetto di un narratore inattendibile che si cimenta con una lunga orazione di difesa. Una sorta di arringa giudiziaria volta più a far riaffiorare le proprie rimozioni, che gradatamente emergono e che il lettore già a metà romanzo intuisce (ma questo ha un’importanza ben relativa), e a dar voce alle emozioni. È come se, confessandosi, Tommaso chiarisse a sé stesso, prima che agli immaginari destinatari delle sue parole, le proprie fragilità e paure, tentando di districare quanto s’agita in quel complesso garbuglio che chiamiamo cuore.
L’autore si spossessa di sé, dei propri strumenti culturali, che pure a tratti affiorano: si pensi alla felicissima riflessione sul termine “adolesco” e sul valore del supino “adultum”. Si identifica del tutto con il minorenne, riproducendone il gergo, infarcito di anglismi a tratti fastidiosi come quel ripetuto “bro” per “brother” (effettivamente sulla bocca di molti nostri adolescenti). Ne ripropone a volte persino gli errori di grammatica e ortografia. Ne riecheggia la formularità, a evidenziare la ripetitività di certi schemi mentali (“Giuro di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità; tipo: dica lo giuro!”, ma anche l’intercalare “compagnia cantando”) e forse a conferire un che di epico a questa discesa agli inferi e nel paradiso al contempo. Agli inferi perché il tumulto che s’agita in Tommaso è foriero di sofferenza e lo induce a compiere azioni crudeli, nonostante egli non sia affatto cattivo e si trovi a far del male, anche gravemente, più per superficialità e impulsività, un po’ come Pinocchio. Solo che questo Pinocchio moderno, che mente a sé stesso mentre dichiara di “dire la verità”, è alle prese con altre paturnie: revenge porn (di cui si rende scioccamente artefice), sperimentazioni legate alla sessualità (i ‘giochi’ con Mariarosa e con l’amico del cuore Riccardo) e amplessi che agli occhi degli adulti potrebbero apparire ‘abusi’, ma ai suoi assumono le sembianze del più lirico Amore. Così, dopo l’iniziale, in parte giustificato, atteggiamento di diffidenza, il lettore è indotto a nutrire sempre maggiore simpatia per Tommaso, pur riconoscendone gli errori. Si finisce persino con il constatare che alcuni suoi ragionamenti, i quali chiamano in causa la corruzione politica o gli ideali del movimento delle sardine (ma anche l’immigrazione e la percezione distorta dell’omosessualità da parte della società), risultano, pur nell’articolazione semplicistica dello slang del ragazzo, figli di un fondo di idealismo che rasenta la purezza.
Insomma, un romanzo che fa riflettere e discutere, con alla base un preciso progetto, anche sotto il profilo stilistico, pienamente riuscito nella concreta declinazione di Megaride.