
Recensione a G. Ricciardi, La vendetta di Oreste, collana Darkside, editore Fazi, Roma, 2019, Euro 16.
La vendetta di Oreste di Giovanni Ricciardi è un ottimo esempio di come il giallo possa valicare le caratteristiche della letteratura di genere e diventare un valido strumento d’indagine storica e di riflessione sul destino e sulla natura dell’uomo.
Ciò poi può avvenire facilmente se a condurci nei meandri della detection è un romanziere colto come Ricciardi, docente di latino e greco in un liceo romano, amante, nella migliore tradizione classica, dell’arte allusiva. Quella che, nel bel mezzo di un’indagine, ti innesta le parole usate da Eugenio Montale per dar voce all’ossessione del varco, che nei Limoni era evocata nell’ansia di “scoprire uno sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità”. Quando si dice, a fine cap. IV, che “Il vecchio Oreste non si riprese mai e se ne andò, come gli uomini che non si voltano, col suo segreto”, il lettore percepisce chiaramente la citazione di Forse un mattino andando e coglie come, dietro ogni investigazione, si celi ben più che il tentativo di sbrogliare un gaddiano “garbuglio”. In gioco è il senso stesso dell’esistere e dell’agire di ogni essere umano.
La vicenda prende le mosse dalla morte dell’anziano Oreste, che vorrebbe rivelare, prima dell’ultimo viaggio, qualcosa di importante al commissario Ponzetti, amico di famiglia. L’uomo spira prima di poterlo fare; anni dopo, rovistando tra le cose del padre in cerca di un quadro di valore (apparentemente scomparso), il figlio Marco trova, in una cassaforte, una pistola risalente alla seconda guerra mondiale e l’appassionata lettera di una donna, indirizzata a un misterioso Ulisse. Deciso a scoprire qualcosa di più sul segreto nascosto da Oreste, Marco chiede l’aiuto di Ponzetti, che coinvolgerà nell’indagine la propria figlia neolaureata in lettere, Maria, e l’ispettore Iannotta. Un’indagine, dunque, non intrapresa per scoprire la verità sull’uccisione di un uomo, ma per compiere un percorso a ritroso nella memoria e ricostruirne la vita.
Il ritmo è agile, spesso brillante; concorrono a tale effetto molteplici fattori, come, per esempio, gli inserti di romanesco del pittoresco Iannotta o arguzie quali questa del cognato del commissario, lo spagnolo Jorge: «mejor un funeral que un padre precario y jobsact». Gradualmente, il lettore entra a contatto con una tragedia collettiva spesso ignorata, “il dramma, a lungo taciuto, dell’esodo istriano e dei profughi giuliano-dalmati”. Rivive così la vicenda della città di Pola, con il caso di Maria Pasquinelli, l’insegnante italiana che, in segno di protesta per l’assegnazione della città alla Jugoslavia, il 10 febbraio 1947, uccise il generale Robert de Winton. In un felice intreccio di microstoria e macrostoria, il commissario viene a conoscenza dell’azione della figura di don Giulio Facibeni, fondatore dell’Opera, di carattere caritativo, della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa.
Per non parlare degli echi classici… Nella ricostruzione del legame tra Oreste Zarotti e il geniale studente dell’istituto tecnico per geometri Ulisse Visentin, più volte vincitore della tenzone dantesca, si scoprono molteplici fattori allusivi. Non a caso, nella funesta saga degli Atridi, Oreste è deputato a vendicare l’uccisione del padre Agamennone (Pirandello se ne servirà, ponendolo a confronto con Amleto, per esplicare la differenza tra l’eroe classico e l’eroe moderno). Oreste vive anche nel legame fraterno con Elettra e nell’amicizia, proverbiale, con Pilade. E infatti Ricciardi, per spiegare il rapporto che idealmente si viene a creare tra Ponzetti e il defunto Oreste, richiama l’“Ego sum Orestes” di una tragedia pacuviana, pronunciato nel topico momento in cui Pilade si finge l’amico per salvarlo e l’Atride vorrebbe impedire questo sacrificio. Versi che Dante aveva ripreso nel canto XIII del Purgatorio e anche questo non è casuale, perché la memoria dantesca gioca un ruolo non secondario nel plot. Vendetta e amicizia sono due motivi fondamentali nel romanzo; è proprio un senso di sodalità, che supera il dato strettamente biografico, a congiungere gli attori di quest’inchiesta corale. Superfluo parlare dell’immaginario legato alla figura di Ulisse, emblema del viaggiatore “bello di fama e di sventura” per eccellenza.
Insomma, un giallo colto, ma tutt’altro che di difficile fruizione. Il lettore si appassiona sin dalle prime battute ed è irretito dall’intreccio sapientemente ordito da Ricciardi. E, al termine di un accattivante, a tratti struggente, itinerario nella storia individuale e collettiva, finisce col lasciarsi persuadere che la miglior vendetta sia quella che non viene consumata.